CAPITOLO QUATTRO
Il generale Plauzio sembrava vecchio e stanco, rifletté Vespasiano osservandolo mentre imprimeva il suo sigillo con l’anello su una serie di documenti consegnatigli da un attendente. L’intenso odore di fumo che saliva dalla ceralacca irritò il naso di Vespasiano, che si ritrasse, appoggiandosi contro lo schienale della sedia. Incontri a ora tarda, come quello tra Vespasiano e Plauzio in una buia sera d’inverno, erano una consuetudine nell’esercito romano. Mentre altri soldati trascorrevano i periodi invernali rammollendosi negli alloggiamenti, gli uomini di Roma si tenevano in forma con regolari allenamenti, e gli ufficiali si assicuravano che ogni sessione di addestramento fosse curata nei minimi particolari in vista della ripresa primaverile delle operazioni.
La precedente stagione di campagne militari si era conclusa con ottimi risultati. Le legioni di Plauzio erano approdate su una costa ostile, facendosi poi strada nel territorio dei Cantiaci, attraversando il Medway e il Tamigi, prima di conquistare Camulodunum, la capitale della tribù dei Catuvellauni a capo della confederazione opposta a Roma. Nonostante il considerevole talento del comandante nemico, Carataco, le legioni avevano sbaragliato i Britanni in occasione di due aspre battaglie. Purtroppo questi non era caduto nelle loro mani, e in quel momento stava preparandosi per continuare a resistere ai tentativi di Roma di annettere la Britannia al suo vasto impero.
Nonostante la rigidità dell’inverno nordico, Plauzio aveva sempre mantenuto attiva la cavalleria con lunghe sessioni di marcia nel cuore dell’isola, con l’ordine preciso di limitarsi a osservare il nemico senza ingaggiare con esso una battaglia. Nondimeno, alcuni squadroni erano rimasti vittime di imboscate che avevano risparmiato solo una manciata di uomini spaventati perché facessero rapporto sugli accadimenti. Di altre pattuglie, invece, si erano completamente perse le tracce. Perdite di questo tipo erano un problema serio per un esercito già carente di cavalieri, ma la necessità di raccogliere informazioni su Carataco e sulle sue truppe era questione di massima importanza. Secondo quanto il generale Plauzio e i suoi specialisti erano riusciti a scoprire, Carataco si era ritirato con ciò che rimaneva del suo esercito nella valle del Tamigi. Lì, il re dei Catuvellauni aveva messo di stanza alcune piccole postazioni di difesa avanzate, dalle quali partivano scorrerie di carri e cavalleria leggera verso il territorio in mano ai Romani. Alcune colonne di approvvigionamento romane erano state intercettate e saccheggiate delle scorte di cibo e di equipaggiamenti, lasciandosi dietro solo i resti fumanti di carovane e i corpi macellati delle truppe di scorta. I Britanni erano anche riusciti a mettere a ferro e fuoco una fortificazione a presidio del guado sul Medway, distruggendo il ponte levatoio che era stato costruito in quel punto.
Queste scorrerie, ovviamente, avevano un impatto minimo sulla capacità delle legioni di affrontare la campagna imminente, ma accendevano per contro gli animi dei Britanni e questo era motivo di seria preoccupazione per il quartier generale romano. Molte tribù, che in un primo momento avevano assai entusiasticamente accettato di stringere accordi con Roma l’autunno precedente, avevano poi iniziato a raffreddare le relazioni. Un gran numero di guerrieri si era unito alle file di Carataco, disgustato dall’alacrità con cui i loro capi avevano piegato la testa di fronte a Roma. La primavera avrebbe messo Plauzio e le sue legioni davanti a un esercito nemico completamente rinnovato.
Le esperienze dell’anno precedente avevano insegnato molto a Carataco sui punti forti e deboli dell’esercito romano. Aveva visto la ferrea compattezza delle legioni, e mai più avrebbe lanciato i suoi coraggiosi guerrieri a capofitto contro una muraglia di scudi che essi non avevano alcuna speranza di penetrare. La tattica dell’attacco lampo che Carataco stava impiegando in quel momento era un preoccupante indizio della forma che il conflitto avrebbe preso in futuro. Le legioni potevano essere fortissime negli scontri sul campo, ma la loro lentezza avrebbe reso facile alle truppe britanne accerchiarle e insinuarsi nelle retrovie, mettendo a ferro e fuoco i canali di approvvigionamento. I Britanni non avrebbero più commesso la leggerezza di fermarsi ad affrontare le legioni, ma avrebbero schivato ogni attacco e mirato al fianco e alle retrovie delle forze romane.
Come potevano le legioni, si chiedeva Vespasiano, rispondere a una tattica di questo tipo? Localizzare e annientare Carataco e i suoi uomini sarebbe stato come tentare di conficcare un tappo di sughero con un martello. Sorrise tristemente di fronte a questa similitudine: era fin troppo veritiera per riuscire a risollevare il suo animo.
«Fatto!», disse il generale Plauzio, imprimendo l’anello sull’ultimo documento. L’attendente lo raccolse velocemente dal tavolo e se lo infilò sotto il braccio assieme agli altri.
«Preparali immediatamente per la spedizione. Il corriere partirà con la prima nave che salperà con la marea del mattino».
«Certo. È tutto per stasera, signore?»
«Sì. Non appena i documenti saranno pronti, puoi far tornare i tuoi segretari ai loro alloggi».
«Grazie, signore». L’attendente salutò e lasciò in fretta la stanza prima che il generale potesse cambiare idea. La porta si richiuse e Plauzio e il comandante della Seconda Legione rimasero soli.
«Vino?», propose Plauzio.
«Buona idea».
Il generale si alzò indolenzito dalla sedia e si stirò le braccia mentre si avvicinava a una caraffa di bronzo poggiata su un piccolo sostegno sopra la delicata fiamma di una lampada a olio. Minuscole folate di vapore salirono dalla caraffa quando Plauzio sollevò il pomello di legno e riempì due calici d’argento. Tornò poi alla sua scrivania e ve li depose sopra, sorridendo soddisfatto mentre stringeva le mani attorno al calice caldo.
«Penso che non riuscirei mai a farmi piacere quest’isola, Vespasiano. Umida e fangosa per gran parte dell’anno, estati brevi e inverni rigidi. Non è un clima adatto a uomini civilizzati. Per quanto io ami la vita militare, preferirei essere a casa».
Vespasiano sorrise e annuì. «Non vi è posto migliore».
«Sono fermamente intenzionato a fare di questa la mia ultima campagna», proseguì il generale in tono un po’ più cupo. «Sto diventando troppo vecchio per questa vita. È tempo che subentri una nuova generazione di generali. Voglio solo ritirarmi nella mia proprietà di Pompei e trascorrere il resto dei miei giorni godendomi la vista che dalla baia si apre verso Capri».
Vespasiano dubitava che l’imperatore Claudio sarebbe stato d’accordo a dispensare dal servizio un generale di così grande esperienza, ma rimase in silenzio per permettere a Plauzio di godersi quel suo sogno a occhi aperti. «Ha tutta l’aria di essere un posto molto tranquillo».
«Tranquillo?», disse il generale aggrottando le sopracciglia. «Non sono neanche sicuro di conoscere davvero il significato di questa parola. Sono stato sul campo fin troppo tempo e, se devo essere onesto, non so se sarei in grado di sopportare il pensionamento. Magari è solo questo posto. Sono qui da appena qualche mese e mi sono già stancato. E quel bastardo di Carataco mi sta mettendo seriamente a dura prova. Pensavo di averlo sbaragliato una volta per tutte nell’ultima battaglia».
Vespasiano annuì. Era ciò che avevano pensato tutti. Anche se la battaglia aveva rischiato di finire con una disfatta a causa delle stupide tattiche dell’imperatore, le legioni alla fine avevano annientato i guerrieri locali. Carataco, e ciò che rimaneva delle sue truppe migliori, avevano abbandonato il campo. In circostanze normali, i barbari avrebbero riconosciuto la sconfitta per mano di Roma e invocato la pace. Ma non quegli insopportabili Britanni: sembrava preferissero continuare a combattere, farsi macellare in battaglia e devastare la propria terra piuttosto che essere pragmatici e accettare la supremazia di Roma. I più ostili fra tutti erano i druidi.
Dopo l’ultima battaglia, alcuni di loro erano stati catturati e imprigionati in uno speciale casamento sotto stretta sorveglianza. Ricordando la sua visita ai prigionieri druidi, Vespasiano avvertì un brivido di repulsione. Erano in cinque, vestiti con toghe nere, e ai polsi portavano amuleti fatti con dei capelli intrecciati. Tenevano le chiome legate all’indietro e le fermavano con della calce; mentre Vespasiano li osservava incuriosito oltre le sbarre di legno, il loro fetore offendeva le sue narici. Ognuno di loro aveva una luna crescente nera tatuata sulla fronte. Uno dei druidi si teneva in disparte dagli altri: era un uomo alto, magro, con un viso scarno e una lunga barba bianca. Le sopracciglia erano un’incredibile massa di spessi peli neri, sotto i quali luccicavano occhi scuri infossati in profonde orbite. In presenza di Vespasiano, l’uomo non aveva parlato, limitandosi a rimanere in piedi e a guardare torvo il romano, le braccia conserte e i piedi aperti e ben piantati a terra. Vespasiano si era soffermato qualche minuto a osservare gli altri druidi che chiacchieravano a voce bassa e in toni astiosi, poi aveva di nuovo spostato lo sguardo sul loro capo che aveva continuato a fissarlo. Le sottili labbra del druido si erano aperte in un ghigno, rivelando appuntiti denti gialli che sembravano essere stati affilati. Una risata stridula e secca aveva immobilizzato i suoi seguaci, che avevano smesso di borbottare e si erano voltati a guardare Vespasiano. Poi, uno dopo l’altro, si erano uniti alla risata di scherno. Il romano li aveva sopportati per qualche istante, subito dopo, infuriato, si era voltato ed era uscito dal casamento.
Quei Britanni erano proprio stupidi come bambini, decretò Vespasiano, ricordando il comportamento dei capi tribù presentatisi al cospetto di Claudio per manifestargli la loro disponibilità dopo la sconfitta di Carataco: arroganti e sciocchi, eccessivamente indulgenti verso loro stessi ed egoisti. I loro discorsi di amicizia si stavano già rivelando in tutta la loro vacuità, e ancora troppo del loro sangue e di quello delle legioni doveva essere versato prima della definitiva conquista dell’isola.
Che terribile perdita. E come sempre accadeva, le sofferenze più pesanti sarebbero ricadute sulle persone che occupavano il gradino più basso della società barbarica. Vespasiano era quasi certo che, se la classe dei guerrieri che li governava fosse stata sbaragliata e rimpiazzata da Roma, non sarebbe stato poi un così grande problema per loro. Del resto, tutto ciò che volevano era un raccolto adeguato per sopravvivere nei mesi invernali. Chiedevano solo questo e, mentre i loro signori resistevano a Roma, la loro precaria esistenza sarebbe stata devastata dai venti di guerra che investivano tutto il paese. Provenendo da una famiglia solo di recente elevata al rango dell’aristocrazia, Vespasiano era particolarmente sensibile alla realtà di coloro che vivevano dietro gli occhi dei potenti tiranni e solidale con le loro sofferenze. Non che questo gli fosse granché di aiuto, comunque: lo considerava un’ulteriore conferma della sua inadeguatezza alla posizione sociale che occupava. Era segretamente invidioso della spontanea aria di superiorità così evidente nella condotta e nei modi di coloro che discendevano direttamente dalle antiche famiglie aristocratiche.
Eppure erano state proprio quelle qualità ad avere rischiato di causare la distruzione di Claudio e del suo esercito. Piuttosto che prendere atto dell’abilità con cui Carataco era riuscito a resistere a Roma fino a quel momento, l’imperatore aveva stimato il condottiero britanno poco più che un selvaggio, con una padronanza assolutamente rudimentale delle tattiche militari e nulla in fatto di strategia. Una così fallace sottovalutazione del nemico si era poi rivelata quasi fatale. Se Carataco fosse stato al comando di un esercito più disciplinato, in quel momento a Roma avrebbe governato un altro imperatore. E forse – rifletté Vespasiano per poi liquidare l’idea come troppo fantasiosa – il mondo sarebbe stato molto meglio senza tutti quegli aristocratici che pensavano solo a pavoneggiarsi.
Avendo compreso i limiti del lanciare un esercito non adeguatamente addestrato contro i ranghi disciplinati delle legioni, Carataco aveva riorganizzato le proprie truppe in piccole colonne celeri con l’ordine preciso di accontentarsi di esigue vittorie, messe a segno con il minor numero possibile di perdite. In questo modo, i Romani forse si sarebbero persuasi che i Britanni erano difficili da sconfiggere e avrebbero abbandonato l’isola. Carataco, però, non aveva messo in conto la grande tenacia delle legioni: indipendentemente da quanto tempo ci sarebbe voluto e da quanto sarebbe costato in termini di vite umane, la Britannia doveva essere annessa a Roma perché così l’imperatore aveva ordinato. Le cose stavano semplicemente così. Almeno finché fosse rimasto in vita Claudio.
Plauzio rimboccò il proprio calice e abbassò lo sguardo sul vino aromatizzato. «Dovremo ancora avere a che fare con Carataco. Ma la domanda è: come? Lui di certo si guarderà bene dal rischiare un’altra battaglia campale, indipendentemente da quanti uomini sarà riuscito a reclutare. E noi non possiamo permetterci di aggirarlo e spingerci ancor più profondamente nel cuore dell’isola. Non arriveremmo nemmeno alla fine della prossima stagione di campagne. Carataco deve essere eliminato prima dell’insediamento della provincia. È questo il nostro prossimo obiettivo». Plauzio risollevò gli occhi e Vespasiano fece un cenno di assenso.
Il generale afferrò un grosso rotolo di pergamena su un lato del tavolo e dispiegò con cura la mappa tra lui e il legato. Gran parte delle annotazioni a inchiostro erano ancora fresche e di un nero vivo, aggiunte nel corso dell’inverno mano a mano che gli esploratori della cavalleria fornivano sempre più informazioni sulla morfologia del territorio. Vespasiano era impressionato dalla quantità di dettagli presenti sulla mappa, e glielo disse.
«È ben fatta, non trovi?», rispose il generale con un sorriso soddisfatto. «Sto facendo preparare delle copie per te e per gli altri legati. Mi aspetto che tu comunichi immediatamente qualsiasi altra caratteristica significativa dovessi rilevare».
«Certo», rispose istintivamente Vespasiano prima di comprendere appieno il senso di quella richiesta. «Suppongo che la Seconda Legione opererà indipendentemente dal resto dell’esercito, una volta che avremo riattraversato il Tamigi».
«Naturalmente. È questo il motivo per cui ti dislocherò appena possibile. Voglio che tu e la tua legione siate pronti a mettervi in marcia contro Carataco non appena riprenderà la stagione della campagna».
«Quali sono gli ordini?».
Il generale Plauzio sorrise di nuovo. «Sapevo che avresti gioito dell’opportunità di dimostrarmi cosa siete in grado di fare tu e i tuoi uomini. Molto bene, sono felice di vedere il tuo entusiasmo». Puntò un dito a sud dell’estuario del Tamigi. «Calleva. Sarà la vostra base fino a primavera. Ho assegnato al tuo comando alcune unità della flotta del canale. Si uniranno a te all’inizio dell’estate. Le userai per ricevere regolari approvvigionamenti durante la campagna e per tenere libero il fiume dai nemici. E mentre tu taglierai fuori Carataco dalla parte sud dell’isola, io lo respingerò dalla valle del Tamigi, verso nord. Per la fine dell’anno dovremmo essere riusciti a far avanzare il fronte fino a una linea che si estende dalla costa occidentale alle paludi degli Iceni.
A questo scopo porterò la Quattordicesima, la Nona e la Ventesima Legione a nord del Tamigi e ne attraverserò la valle. La maggior parte delle colonne di incursori locali proviene da là. Nel frattempo, tu guiderai la Seconda Legione nel nuovo attraversamento del fiume e ti sposterai lungo la sponda meridionale. Dovrete fortificare ogni ponte o guado che troverete lungo il cammino. Questo significa che dovrete penetrare nel territorio dei Durotrigi: del resto, prima o poi avremmo dovuto affrontarli. Stando agli ultimi resoconti dei perlustratori, i Durotrigi controllano un buon numero di colline fortificate, e voi dovrete assoggettare, e anche in fretta, alcune di esse. Pensi di potercela fare?».
Vespasiano valutò la situazione. «Non dovrebbe presentare molti problemi, a patto che io disponga di equipaggiamenti sufficienti. Più di quanta non ne abbia ora».
Plauzio sorrise. «È ciò che dicono tutti i miei legati».
«Forse, signore, ma se volete che prenda quelle fortificazioni e sorvegli i punti di guado sul Tamigi, ho bisogno di armi».
Plauzio annuì. «Molto bene. Prendo nota della tua richiesta. Vedrò cosa si può fare. E adesso, torniamo al piano. Lo scopo è quello di stringere sempre più l’assedio attorno a Carataco fin quando non si troverà costretto a scendere in battaglia o a ritirarsi, quando sarà lontano dalle nostre linee di approvvigionamento e dal territorio che già occupiamo. Alla fine si troverà con le spalle al muro e dovrà affrontarci o arrendersi. Domande?».
Vespasiano esaminò la mappa simulando gli spostamenti che il generale aveva appena descritto. Dal punto di vista strategico, il piano sembrava valido, seppur ambizioso, ma l’idea di dividere le truppe lo lasciava perplesso, soprattutto perché non avevano informazioni dettagliate sulle reali dimensioni dell’esercito che Carataco aveva appena riorganizzato. Non c’erano garanzie che il comandante britanno non sarebbe tornato a operazioni più convenzionali per combattere con una legione isolata. Se quel piano mirava a impedirgli di attraversare il Tamigi, allora doveva esserci una forza pronta a bloccargli i punti di guado disponibili, e tale ruolo era ricaduto sulla Seconda Legione. Vespasiano risollevò gli occhi dalla mappa.
«Perché noi, signore? Perché proprio la Seconda?».
Il generale Plauzio lo guardò per un istante prima di rispondere. «Non devo esporti le mie ragioni, legato. Devo solo impartirti ordini».
«Sì, signore».
«Ma vorresti che te le dessi?».
Vespasiano non replicò, deciso a dare una conveniente impressione di imperturbabilità militare, anche se la sua curiosità esigeva una risposta. Scrollò le spalle.
«Capisco. Be’, allora, legato, domani mattina gli ordini ti verranno recapitati per iscritto al tuo quartier generale. Se il tempo lo permetterà, mi aspetto che tu decida di partire senza ulteriori indugi».
«Sì, signore».
«Bene. E adesso finiamo questo vino». Plauzio riempì entrambi i calici e sollevò il proprio per un brindisi. «A una chiusura rapida della campagna e a un ben meritato periodo di congedo a Roma!».
Sorseggiarono il vino tiepido. Plauzio fece un largo sorriso al suo subordinato. «Penso che tu sia ansioso di tornare da tua moglie».
«Non vedo l’ora», rispose tranquillamente Vespasiano, consapevole delle emozioni che il solo nominarla gli causava. Tentò di stornare da sé l’attenzione del generale. «Penso che anche voi desideriate quanto me rivedere la vostra famiglia».
«Ah! In questo io ho un vantaggio rispetto a te». Gli occhi di Plauzio scintillarono maliziosamente.
«Signore?»
«Non devo tornare a Roma per rivederli. Sono in viaggio per raggiungermi. A dire il vero, ormai dovrebbero arrivare da un giorno all’altro…».