CAPITOLO TRENTA
Il mattino seguente, di buon’ora, Catone e Prasutago raggiunsero il margine del bosco, strisciando lentamente sull’erba fredda e umida. Gli alberi digradavano dolcemente lungo un declivio e, guardando in basso in direzione del sentiero che solcava la valle, non scorsero traccia dei druidi che li avevano inseguiti nel buio. All’altra estremità, il sentiero risaliva un’altra collina boscosa. Catone sapeva che subito oltre si trovava il luogo del fallito tentativo di salvataggio del carro. A quel ricordo si sentì travolgere da un’ondata di angoscia, ma si affrettò a respingere il pensiero per concentrarsi sulla conformazione del territorio. Dalla collina successiva, avrebbero dovuto avere una buona visuale sulle massicce fortificazioni della Grande Fortezza. Catone richiamò l’attenzione di Prasutago e indicò un basso canalone su un versante della collina, invaso da arbusti di ginestra e rovi di more. Un’ottima copertura per la discesa. Da lì, poi, avrebbero dovuto tentare di attraversare la foresta di corsa fino all’altra estremità del sentiero. Nonostante il cielo terso, la primavera era appena agli inizi e il sole, a quell’ora del giorno, non era molto caldo. La fatica di strisciare tra gli arbusti spinosi e la preoccupazione di essere scoperti avevano impedito a Catone di tremare ma, non appena si fermarono ai piedi della collina, il suo corpo fu scosso da violenti brividi di freddo. Preoccupato che Prasutago potesse interpretare quel tremore come un sintomo di paura, Catone si sforzò di controllare il proprio corpo, riuscendo almeno a fermare le gambe. Tenendo la testa bassa, esaminò la zona. Ad eccezione di una leggera brezza che faceva ondeggiare l’erba, tutto era immobile. Al suo fianco, Prasutago tamburellò impaziente le dita sul terreno, poi chinò la testa verso gli alberi oltre il sentiero.
Catone annuì e insieme schizzarono fulminei in piena vista, superando il sentiero e rifugiandosi tra le ombre degli alberi. Si accovacciarono di nuovo e Catone si mise in ascolto di segnali che indicassero che erano stati visti, ma il sangue che gli pulsava nelle orecchie copriva ogni altro rumore. Trascinò Prasutago ancor più nel folto del bosco, attraverso un compatto groviglio di arbusti. Il terreno prese a salire finché non ritornò in piano sulla cima. Giunti lì, si lasciarono cadere entrambi sul tronco di un albero abbattuto, ricoperto da strati e strati di muschio e licheni. Respirando affannosamente, Catone ebbe un’improvvisa vertigine e si tenne con entrambe le mani per evitare di crollare a terra. Prasutago gli appoggiò una mano sulla spalla per tenerlo su.
«Tu riposare, romano».
«No, non sono stanco», mentì Catone. Era esausto, ma più opprimente della stanchezza fisica era la fame. Erano giorni che non faceva un pasto adeguato e gli effetti si stavano facendo sentire sempre di più.
«Cibo. Dobbiamo trovare del cibo», disse.
Prasutago annuì. «Tu rimanere qui. Io trovo».
«Va bene, ma fai attenzione. Nessuno deve vederti, capito?»
«Sa!». Prasutago si imbronciò per quell’avvertimento inutile.
«Allora vai», mormorò Catone. «Non metterci troppo».
Prasutago fece un gesto di saluto con la mano e scomparve tra gli alberi lungo la cima. Catone si distese a terra e appoggiò la schiena contro il soffice muschio che rivestiva il tronco. Chiuse gli occhi e inalò profondamente l’aria profumata del bosco. Per qualche istante si rilassò e si riposò nella tranquillità di quel luogo, godendosi i versi degli uccelli tra i rami sopra di lui. Di tanto in tanto trasaliva per il rumore di altri animali che si spostavano, ma non si udivano voci e quei suoni svanivano in fretta. Era strano ritrovarsi solo per la prima volta dopo mesi, assaporare quella particolare serenità che deriva dal non avere altre persone attorno a sé. Quell’euforia, però, si dissolse rapidamente quando la sua mente riprese a rimuginare sulla situazione più generale in cui si trovava. Macrone era andato via, come anche Boudicca. Rimanevano solo lui e Prasutago. La conoscenza che il guerriero aveva del territorio e delle usanze druide era di vitale importanza. Per giunta, l’iceno affermava di avere anche qualche familiarità con la fortezza in cui erano stati rinchiusi Pomponia e suo figlio.
L’immagine del bambino terrorizzato che correva verso sua madre era un tormento continuo. Catone si rimproverò per non aver rincorso Elio anche se i druidi, lanciati al galoppo in direzione del carro, sarebbero arrivati a momenti. Lui e il bambino, forse, sarebbero riusciti a scappare. Ne dubitava, certo, ma poteva essere una possibilità. Una possibilità che Vespasiano e Plauzio non avrebbero tralasciato di considerare, se lui fosse mai tornato alla legione a raccontare l’accaduto. Quella severa autocritica era già di per sé abbastanza pesante senza che vi si aggiungesse il disprezzo degli uomini che avrebbero dubitato del suo coraggio.
Passarono alcune ore e, quando il sole iniziò a calare dal punto in cui si trovava a mezzogiorno, Catone decise che aveva riposato a sufficienza. Di Prasutago, però, ancora nessuna traccia, e l’optio cominciò a preoccuparsi. D’altra parte, non c’era nulla che potesse fare per accelerare il ritorno del guerriero: non gli rimaneva che sperare che non fosse caduto nelle mani dei druidi e che avesse trovato del cibo.
Esaminò gli alberi circostanti e ne individuò uno che con i suoi tanti rami prometteva una facile ascesa. Passo dopo passo, si arrampicò finché il tronco non divenne troppo sottile e iniziò a oscillare sotto il suo peso. Stringendo un braccio attorno alla sua ruvida corteccia, separò gli esili rami. Aveva perso l’orientamento e per un istante ebbe difficoltà a identificare la fortezza. Poi, facendo ben attenzione a dove appoggiava i piedi, scrutò in un’altra direzione, verso la distesa erbosa che sotto di lui costeggiava il fiume. Riuscì a individuare il ponte sull’intelaiatura e da lì seguì il tracciato del sentiero che risaliva verso la fortezza.
Le dimensioni delle fortificazioni lo impressionarono nuovamente. Chissà quanti uomini e quanti anni di lavoro dovevano essere stati necessari per creare quel gigantesco monumento al potere dei Durotrigi. E quanti uomini sarebbero costati a Roma per la conquista della fortezza quando le legioni sarebbero partite a ovest. Naturalmente sarebbe stata la sua legione, la Seconda, a essere incaricata di prendere d’assalto il caposaldo. Essa era da poco riuscita a sbaragliare i Britanni in battaglie pianificate a tavolino. Sarebbe stata in grado di mettere a ferro e fuoco anche le loro formidabili fortezze? Da bambino Catone aveva letto alcuni libri sulle tattiche di assedio, ma dal suo ingresso nelle aquile non aveva mai partecipato a esercitazioni pratiche, e la prospettiva di attaccare quegli sbarramenti giganteschi lo riempiva di terrore.
Un pesante tonfo sotto di lui lo fece trasalire e per poco non cadde dal tronco. Guardò in basso tra i rami e vide Prasutago che lo stava cercando. Ai piedi dell’albero giaceva un grosso maiale morto con un squarcio sanguinante alla gola.
«Quassù!», lo chiamò Catone.
Prasutago reclinò indietro la testa e vedendolo scoppiò a ridere. Poi afferrò uno dei rami più bassi.
«No, rimani lì. Scendo».
Una volta a terra, Catone scrutò il maiale con un’espressione di apprezzamento. «Dove l’hai preso?»
«Uh?»
«Dove?», ripeté, indicando il maiale.
«Ah!». Prasutago puntò un dito in direzione del crinale e a gesti mimò un’altra valle e un altro crinale. Poi si fermò pensando a come mimare il resto e d’un tratto la parola gli venne in mente. «Fattoria!».
«L’hai preso in una fattoria?».
Prasutago annuì con un ampio sorriso.
«E dov’era il fattore?».
Prasutago tracciò una linea da una parte all’altra della sua gola.
«Oh, grandioso! Proprio ciò che ci serve!», disse Catone infuriato.
Prasutago sollevò una mano perché si calmasse.
«Io nascosto corpo. Nessuno trovare».
«Felice di saperlo. Ma cosa succederà quando scopriranno la sua scomparsa, eh? Cosa succederà, stupido che non sei altro?».
Prasutago scrollò le possenti spalle come se quello non fosse per lui motivo di preoccupazione. Poi si girò verso il maiale.
«Mangiamo?»
«Sì». Lo stomaco di Catone borbottò ed entrambi scoppiarono spontaneamente a ridere. «Adesso mangiamo».
Con l’abilità acquisita in anni di pratica, Prasutago sventrò il maiale con il pugnale, raccogliendo poi gli organi non commestibili in un cumulo scintillante che ficcò poi all’interno di un tronco cavo, tenendo da parte il fegato per un eventuale spuntino serale. Dopo essersi ripulito le mani insanguinate con una zolla di muschio umido, iniziò a raccogliere rami.
«Niente fuoco», gli ordinò Catone. Indicò verso l’alto, poi in direzione della fortezza. «Niente fumo».
Prasutago, che si era già preparato a gustare un bel maialino arrosto, per un istante si mostrò titubante all’idea di mangiarlo crudo. Poi si strinse nelle spalle ed estrasse di nuovo il pugnale. Ritagliò delle strisce di carne dai lombi del maiale e ne lanciò una a Catone. Nonostante il roseo brandello fosse insanguinato e ricoperto di una membrana bianca, Catone affondò famelicamente i denti nella carne ancora tiepida e si sforzò di masticare.
Dopo aver mangiato a sazietà, Prasutago infilò la carcassa nel tronco cavo e lo tappò con delle ramaglie. Poi, a turno, si riposarono fino a notte, quando si incamminarono giù per il pendio portandosi dietro ciò che rimaneva del maiale. Si allontanarono dalla fortezza finché non trovarono un buco nel terreno lasciato dalle miriadi di radici di una quercia millenaria ormai caduta. Poi si diedero da fare per accendere un piccolo fuoco utilizzando muschio secco e le pietre focaie che Catone aveva nella sacca. Quando finalmente la legna minuta prese fuoco, raggrupparono la brace e arrostirono il maiale. Al chiarore rossastro delle calde fiamme, Catone si sedette tirando le ginocchia al petto e godendosi lo sfrigolio del grasso e l’odore intenso della carne. Alla fine Prasutago si alzò e ne tranciò dei pezzi che depose, ancora fumanti, su una pietra davanti a Catone. Banchettarono finché non ne poterono più e si addormentarono con la pancia piena e calda.
Nei due giorni successivi tennero d’occhio la fortezza a turno e videro una processione ininterrotta di persone che si dirigevano verso di essa. C’erano anche carri e animali, incluse piccole greggi di pecore provenienti dai pascoli primaverili, nonostante fosse imminente la stagione della figliatura. Era chiaro che i Durotrigi stavano preparando le loro genti per un assedio, il che poteva solo voler dire che avevano avuto notizie di un nemico in avvicinamento. E in quel momento, il nemico non poteva che essere Roma: la Seconda Legione doveva essere in marcia. Quella consapevolezza mise Catone in un stato di euforia. Nel giro di qualche giorno, i legionari avrebbero probabilmente stretto la fortezza in un accerchiamento di ferro e i druidi non avrebbero più potuto fuggire da nessuna parte con i prigionieri. La moglie del generale e suo figlio sarebbero stati usati come merce di scambio per contrattare migliori termini di resa della fortezza, a meno che i Durotrigi non si fossero dimostrati folli quanto i druidi, preferendo affrontare Roma in un combattimento all’ultimo sangue. In quel caso le speranze di vita per Pomponia e Elio si sarebbero ridotte drasticamente.
Catone aveva concordato con Prasutago che sul finire del terzo giorno uno di loro sarebbe tornato nel punto in cui Boudicca li aveva lasciati, in quanto quello era il tempo minimo di cui avrebbe avuto bisogno per andare e tornare. Perciò al tramonto Catone si rimise in cammino lungo il sentiero, in direzione del bosco. Nonostante fosse sicuro di ricordare il tragitto seguito da lui e Prasutago, al buio gli alberi gli apparivano strani, diversi, e non riuscì a ritrovare la vecchia miniera d’argento abbandonata. Tentò di percorrere a ritroso i suoi stessi passi, ma l’unico risultato fu di perdersi nuovamente. Con il calar della notte, la velocità si sostituì alla prudenza e sotto i suoi piedi lo scricchiolio e il fruscio di rami e foglie si fecero più rumorosi. Era sul punto di chiamare Boudicca quando, da dietro un albero, gli si parò davanti una sagoma scura. Catone spostò il lembo del mantello e sguainò la spada.
«Perché non direttamente uno squillo di tromba la prossima volta che ti viene voglia di attirare l’attenzione?», ridacchiò Boudicca. «Pensavo di aver ritrovato uno degli elefanti smarriti di Claudio».
Dapprima Catone fissò per qualche istante la sagoma di Boudicca, poi con una risata nervosa abbassò la spada e fece un profondo sospiro.
«Dannazione, Boudicca, mi hai spaventato!».
«Te lo sei meritato. Dov’è mio cugino?»
«Sta bene. L’ho lasciato che teneva d’occhio la fortezza, a meno che non sia andato di nuovo a caccia di allevatori di maiali».
«Cosa? Fa nulla, mi spiegherai dopo. Adesso stammi a sentire: non c’è molto tempo, e ho una cosa terribile da raccontarti».