CAPITOLO NOVE

Tre giorni più tardi, la coltre di neve si era quasi completamente sciolta: rimanevano solo sparse chiazze scintillanti in piccole depressioni o crepe del terreno dove il tenue sole invernale non riusciva a penetrare. I primi giorni di marzo aggiunsero un po’ più di tepore all’aria e il sentiero battuto si trasformò in una scivolosa distesa di fango sotto i calzari della Quarta Coorte.

Partiti da Calleva, gli uomini stavano marciando in direzione sud, perlustrando il confine con il territorio dei Durotrigi nel tentativo di scoraggiare ulteriori scorrerie. Tale missione voleva essere un aiuto di Roma agli Atrebati piuttosto che un vero modo per fiaccare i Durotrigi e i loro sinistri alleati druidi. Le notizie sulla devastazione causata da loro nei piccoli villaggi avevano gettato Verica in una tale agitazione da spingerlo a implorare Vespasiano perché passasse alle vie di fatto. Per questo motivo, la Quarta Coorte e una squadra di esploratori, accompagnati da una guida, erano stati inviati agli insediamenti di frontiera, in modo da dimostrare che la minaccia dei Durotrigi era stata presa sul serio.

In un primo momento gli abitanti dei villaggi non avevano reagito molto bene alle strane uniformi e alla sconosciuta lingua dei legionari, ma la coorte aveva ricevuto l’ordine preciso di mantenere una condotta esemplare. Ogni richiesta di alloggio e cibo veniva ripagata in monete d’oro e i Romani osservavano rispettosamente ogni costume locale che Diomede, la guida di Verica, spiegava loro. Egli era il mandatario di un mercante gallo e viveva tra gli Atrebati già da molti anni, tanto che parlava fluentemente il loro dialetto celtico. Aveva sposato una donna di un clan di guerrieri che si erano dimostrati sufficientemente liberali da tollerare che una delle loro figlie meno ambite diventasse la moglie di quel piccolo greco azzimato. Con la sua carnagione olivastra, la scura e crespa capigliatura impomatata, la barba perfettamente curata e l’elegante abbigliamento continentale, Diomede non poteva assolutamente essere scambiato per uno dei rozzi barbari con i quali aveva scelto di vivere da così lungo tempo. Ciononostante, era sufficientemente stimato da ricevere sempre calorose accoglienze in ogni insediamento e villaggio che la coorte attraversava.

«Cosa se ne fa questa gente dei soldi?», chiese Macrone mentre il centurione anziano della coorte contava delle monete per un capovillaggio in cambio di alcuni fasci di strisce di carne di manzo salata ed essiccata, legate insieme da cordoni di cuoio. I centurioni della coorte si erano raggruppati per le presentazioni al capovillaggio e attendevano la conclusione dell’affare di fianco alla guida greca.

«Oh, ne rimarresti sorpreso», ridacchiò Diomede mostrando i suoi minuscoli denti macchiati. «Se li bevono tutti in vino. Hanno una vera passione per quello gallico e questo mi ha fatto accumulare una bella fortuna nel corso degli anni».

«Vino? Bevono vino?». Macrone guardò il variegato agglomerato di capanne circolari e i piccoli recinti per gli animali, delimitati da una palizzata dall’aspetto assai poco resistente che aveva il solo scopo di tener lontane le bestie selvatiche.

«Naturalmente. Hai provato le loro birre locali: perfette se vuoi ubriacarti, altrimenti non sono granché».

«Già, non posso darti torto».

«E non li spendono solo in vino, comunque», proseguì Diomede. «Vestiti, ceramiche, utensili da cucina e via dicendo. Sono diventati ottimi importatori dei prodotti dell’impero. Ancora qualche anno, e gli Atrebati riusciranno a risalire il primo gradino della civiltà». Diomede sembrava pensieroso.

«Perché sei così crucciato?»

«Perché a quel punto io dovrò andarmene».

«Andartene? Pensavo che ti fossi stabilito qui».

«Oh certo, e così sarà finché potrò fare soldi, ma una volta che questo posto sarà diventato parte dell’impero, verrà invaso da mercanti e i margini di profitto per me spariranno. E dovrò cambiare zona. Magari andrò più a nord. Ho sentito dire che la regina dei Briganti ha sviluppato un certo gusto per il vivere civilizzato». Gli occhi del greco scintillarono pieni di entusiasmo per quella possibilità.

Macrone squadrò Diomede con lo stesso disprezzo che riservava ai mercanti. Poi gli sovvenne un pensiero.

«Come possono permettersi tutte queste cose che importi?»

«Non possono, ed è questo il bello. Non circola molto denaro contante, solo poche tribù hanno creato un proprio conio. Così io preferisco il baratto e in questo modo faccio affari migliori. In cambio dei miei prodotti ottengo pellicce, cani da caccia e gioielli, tutta merce per cui nell’impero sono disposti a sborsare parecchio. Rimarresti stupito dal prezzo che i gioielli celtici hanno raggiunto adesso a Roma». Guardò la torque che Macrone portava al collo. «Prendi per esempio quel gingillo che indossi tu. Potrei venderlo per una fortuna».

«Non è in vendita», rispose deciso Macrone, portandosi istintivamente una mano al monile d’oro. Un tempo il vistoso ornamento era appartenuto a Togodumno, capo dei Catuvellauni e fratello di Carataco. Macrone lo aveva ucciso in duello subito dopo lo sbarco in Britannia della Seconda Legione.

«Ti farei un buon prezzo».

Macrone sbuffò. «Ne dubito. Mi rapineresti proprio come faresti con uno di questi barbari».

«Così mi offendi!», protestò Diomede. «Non oserei mai. A te, centurione, farei un buon prezzo».

«No, non lo vendo».

Diomede serrò le labbra e scrollò le spalle. «Non ora, magari più avanti. Dormici sopra».

Macrone scosse la testa e incrociò lo sguardo di uno degli altri centurioni che aveva sollevato su di lei in segno di solidarietà. Quei mercanti greci avevano invaso l’impero, spingendosi ben oltre i suoi confini, ed erano tutti uguali: speculatori sempre in cerca di profitti. Vedevano chiunque nei termini di ciò che potevano guadagnarci. Macrone si sentì improvvisamente disgustato.

«Non ho bisogno di dormirci sopra. Non lo vendo, e soprattutto non a te».

Diomede si accigliò e per un istante socchiuse gli occhi. Poi annuì lentamente e sfoderò di nuovo il suo sorriso da venditore. «Voi uomini d’armi romani pensate di essere migliori di tutti noi, non è vero?».

Macrone non rispose, si limitò a sollevare appena il mento facendo scoppiare il greco in una fragorosa risata. Gli altri centurioni interruppero la loro tranquilla chiacchierata e si voltarono verso di loro. Il greco sollevò le mani in un gesto di scuse.

«Mi spiace, veramente, mi spiace. È solo che questo atteggiamento mi è talmente familiare. Voi soldati siete convinti che l’espansione dell’impero, l’annessione di nuove province ai possedimenti territoriali dell’imperatore, dipenda unicamente da voi».

«È vero», annuì Macrone. «Le cose stanno così».

«Ah sì? E dove sareste voi adesso senza il mio aiuto? Come farebbe il vostro superiore laggiù ad acquistare provviste? E soprattutto, perché pensate che gli Atrebati siano così ben disposti nei confronti di Roma?»

«Non lo so e non mi interessa, ma mi aspetto che tu me lo dica comunque».

«Felice di farlo, centurione. Molto prima che il primo legionario romano facesse vedere la sua faccia nell’angolo meno civilizzato di questo nostro mondo, un mercante greco come me aveva già rapporti commerciali con questi locali. Abbiamo imparato la loro lingua, i loro usi e costumi e abbiamo fatto conoscere loro i prodotti dell’impero. Il più delle volte non vedevano l’ora di mettere le mani sui prodotti della civiltà, sulle cose che per noi erano banali e che loro invece consideravano oggetti di prestigio. È nato in loro un desiderio che noi abbiamo nutrito fino a trasformarlo in bisogno. Quando siete arrivati voi, questi barbari erano già parte integrante dell’economia imperiale. Ancora qualche generazione, e vi avrebbero implorati di farli diventare una vostra provincia».

«Idiozie! Sono solo idiozie!», rispose Macrone, puntando un dito contro il greco, spalleggiato dagli altri centurioni. «L’espansione dell’impero dipende solo dalla spada e dal coraggio di brandirla. Quelli come te diffondono unicamente ciarpame tra questi stolti per poterne trarre profitto. Le cose stanno così e basta».

«Ovvio che lo facciamo per profitto. Per quale altro motivo rischiare i pericoli e le privazioni di una vita del genere?». Diomede sorrise nel tentativo di alleggerire il tono della discussione. «Volevo solo sottolineare i benefici per Roma dei nostri commerci con queste popolazioni. Se quelli come me hanno contribuito, seppur in minima parte, a spianare il terreno per le legioni conquistatrici di Roma, la nostra soddisfazione è incommensurabile. E mi scuso se questa mia modesta ambizione ti offende in qualche modo, centurione. Non ne avevo intenzione».

Macrone annuì. «Va bene, allora. Scuse accettate».

Diomede fece un sorriso radioso. «E se dovessi cambiare idea sulla torque…».

«Greco, se la nomini ancora, giuro che ti…».

«Macrone!», gridò Ortensio, il centurione anziano.

Macrone distolse immediatamente lo sguardo da Diomede e si mise sull’attenti. «Signore?»

«Taglia corto con le chiacchiere e metti in formazione i tuoi uomini. Lo stesso vale per tutti voi. Ci muoviamo».

Mentre i centurioni si affrettavano verso le proprie unità urlando ordini, gli abitanti del villaggio caricarono velocemente la carne di manzo sul retro di uno dei carri. Non appena la colonna fu formata, Ortensio fece cenno agli esploratori della cavalleria di mettersi in cammino e poi diede l’ordine di avanzare anche alla fanteria.

Le espressioni turbate degli Atrebati testimoniavano eloquentemente il terrore di essere di nuovo abbandonati a loro stessi, e il capovillaggio implorò Diomede perché persuadesse la coorte a rimanere. Il greco aveva ricevuto ordini precisi, così presentò le sue scuse educatamente, ma con fermezza, e si affrettò dietro a Ortensio. Quando la Sesta Centuria, con compiti di retroguardia, uscì marciando dal villaggio alle spalle dell’ultimo carro, Catone provò vergogna ad abbandonare quella povera gente mentre i druidi e i loro scherani durotrigi continuavano con le loro scorrerie lungo la frontiera.

«Signore?»

«Sì, Catone».

«Deve pur esserci qualcosa che possiamo fare per questa gente». Macrone scosse la testa. «Niente. Perché me lo chiedi? Cosa vorresti che facessimo?»

«Potremmo lasciare alcuni uomini. Una centuria a proteggerli».

«Una centuria in meno indebolirebbe troppo la coorte. E poi, dove andremmo a finire? Non possiamo certo lasciare una centuria in ogni villaggio che attraversiamo. Siamo già in pochi».

«E allora delle armi», suggerì Catone. «Potremmo lasciargli alcune armi di riserva che abbiamo nei carri».

«Non possiamo, ragazzo. Potrebbero sempre servirci. E in ogni caso non saprebbero neanche come usarle. Sarebbe solo uno spreco. Il discorso è chiuso. Ci aspetta una lunga marcia oggi. Risparmia il fiato per quella».

«Sì, signore», replicò tranquillamente Catone, abbassando gli occhi per evitare gli sguardi contrariati degli abitanti del villaggio che si trovavano vicino alla porta d’ingresso.

Per il resto della giornata, la Quarta Coorte avanzò a fatica lungo il sentiero fangoso in direzione sud, verso il mare e un piccolo insediamento commerciale adagiato sulle rive di uno dei canali che si riversavano in un ampio porto naturale. Diomede conosceva bene quel centro: aveva contribuito lui stesso a costruirlo la prima volta che era approdato in Britannia, molti anni fa. Ora era la sua casa. Noviomagus, questo era il nome con cui il villaggio era noto, si era sviluppato molto rapidamente, richiamando tutta un’allegra torma di commercianti, mandatari e rispettive famiglie. A detta di Diomede, per tutti quegli anni forestieri e locali avevano convissuto in relativa armonia. Da quando, però, i Durotrigi si erano messi a razziare il loro territorio, gli Atrebati avevano iniziato a puntare il dito contro i forestieri, a loro giudizio colpevoli di aver provocato i druidi della Luna Nera e i loro seguaci. Oltre alla sua stessa famiglia, a Noviomagus Diomede aveva molti amici ed era preoccupato per la loro incolumità.

Mentre la coorte marciava, un sole debole tracciava il suo basso arco in un cielo grigio. Quando, sul finire della giornata l’oscurità iniziò a infittirsi, dalla testa della colonna giunse un grido improvviso. Gli uomini sollevarono gli occhi dal sentiero sul quale li avevano tenuti fissi fino a quel momento, piegati dalla stanchezza e dal peso della sarcina sulle spalle. Lungo il sentiero si avvicinava al galoppo un gruppo di esploratori provenienti dalla cima di una collina. In coda alla colonna della coorte si udì distintamente la voce del centurione Ortensio che dava l’ordine di fermarsi.

«Ci sono problemi», disse senza agitarsi Macrone mentre osservava gli esploratori che facevano rapporto a Ortensio. Il comandante della coorte annuì e poi congedò gli uomini, quindi si voltò verso la colonna e urlò: «Ufficiali, venite avanti!».

Catone si tolse la furca dalle spalle e la depose a terra, poi s’incamminò spedito dietro Macrone, con un formicolio lungo la schiena dovuto all’eccitazione.

Non appena tutti i suoi centurioni e optiones furono schierati presso di lui, Ortensio li ragguagliò dell’accaduto.

«Noviomagus è stata attaccata. Ciò che ne rimane si trova oltre quella collina», disse indicando con un pollice sopra la propria spalla. «Gli esploratori riferiscono di non avere notato alcun movimento, dunque sembrerebbe che non vi siano sopravvissuti».

Catone lanciò un’occhiata alla guida greca, che si trovava a una certa distanza dagli ufficiali romani, e vide che fissava i propri piedi con la fronte aggrottata. Diomede serrò improvvisamente le labbra e Catone intuì che era prossimo alle lacrime. In un misto di compassione e imbarazzo di fronte al dolore privato di un altro uomo, Catone riportò di nuovo gli occhi su Ortensio mentre questi impartiva ordini alle truppe.

«La coorte si disporrà a falange appena al di sotto della sommità della collina; valicheremo la cima e poi procederemo giù per il pendio in direzione del villaggio. Una volta che saremo a breve distanza da Noviomagus, darò l’ordine di fermarsi. A quel punto la Sesta Centuria entrerà nell’insediamento». Si voltò verso Macrone. «Dai solo un’occhiata veloce in giro e poi torna a riferire».

«Sì, signore».

«Presto farà buio, ragazzi. Non abbiamo tempo per allestire un accampamento, dunque saremo costretti a ricostruire alla meglio le strutture difensive dell’insediamento e ad accamparci lì per la notte. E adesso al lavoro».

Gli ufficiali tornarono alle rispettive centurie e richiamarono i propri uomini. Una volta che i soldati si furono disposti in riga, Ortensio urlò l’ordine di creare la formazione. I soldati della Prima Centuria si aprirono a destra, ruotando poi su loro stessi e disponendosi su una doppia linea. Le altre centurie fecero lo stesso, estendendo l’allineamento sulla sinistra. La centuria di Macrone fu l’ultima a mettersi in posizione; non appena il soldato che chiudeva il fianco destro si trovò spalla a spalla con la Quinta Centuria, Macrone diede l’ordine di arresto. La coorte fu fatta fermare per qualche istante perché i soldati formassero ranghi ordinati, poi fu impartito l’ordine di avanzare. A quel punto, la doppia fila di uomini iniziò a risalire il leggero pendio e ne superò la cima. Davanti a loro si stendeva in lontananza il mare, grigio e agitato. Più vicino, c’era un ampio porto naturale dal quale si dipartiva un largo canale verso l’entroterra, fino al punto in cui si trovava l’insediamento. Una brezza gelida ne increspava la superficie. Nessuna nave era ancorata in vista, e si scorgeva solo qualche piccola barca tirata a riva. I soldati erano in trepidazione per ciò che avrebbero trovato oltre la collina: quando il terreno iniziò a digradare, apparvero le macerie di Noviomagus.

I razziatori avevano distrutto tutto quello che avevano potuto senza avere fretta. Laddove un tempo c’erano state case e capanne, ora non rimanevano altro che desolati scheletri di legno anneriti. Tutt’attorno i resti carbonizzati di muri e tetti. Gran parte della palizzata perimetrale era stata divelta e gettata nella trincea. L’assenza di fumo indicava che erano trascorsi già alcuni giorni da quando i Durotrigi avevano messo a ferro e fuoco il villaggio. Tra le rovine non si muoveva nulla, neanche un animale. Il silenzio era rotto solo dal verso dei corvi al riparo in una macchia vicina. Su entrambi i fianchi della coorte, gli esploratori della cavalleria si aprirono a ventaglio in cerca di eventuali nemici.

Scendendo in direzione dell’insediamento, il tintinnio degli equipaggiamenti dei legionari parve a Catone innaturalmente rumoroso. Mentre si concentrava per rimanere al passo con gli altri, impresa non da poco data la sua andatura lenta, esaminò il terreno circostante il villaggio, attento a qualsiasi segno che potesse indicare un’imboscata. Alla debole luce, il gelido paesaggio invernale si riempiva di ombre cupe, e Catone serrò la presa sull’impugnatura dello scudo.

«Fermi!», urlò Ortensio, alzando al massimo la voce per farsi udire al di sopra del rumore del vento. Gli uomini in formazione si arrestarono e rimasero immobili per un istante, in attesa del secondo ordine. «Deporre i fardelli!».

I legionari deposero a terra le furcae e fecero cinque passi in avanti per allontanarsi dall’equipaggiamento personale. Nella mano destra stringevano ora solo il giavellotto, pronti a combattere.

«Sesta Centuria, avanzare!».

«Avanzare!», ripeté l’ordine Macrone, e i suoi uomini uscirono dallo schieramento, avvicinandosi all’insediamento di sbieco. Mano a mano che si approssimavano alle rovine annerite, Catone sentiva il cuore battergli sempre più veloce, e una scarica di nervosismo attraversava il suo corpo mentre si preparava ad affrontare un eventuale attacco improvviso. Appena oltre la trincea, Macrone fece arrestare la centuria.

«Catone!».

«Sì, signore!».

«Prendi con te le prime cinque sezioni ed entra attraverso la porta principale. Io guiderò le altre ed entrerò dal versante del mare. Incontriamoci al centro del villaggio».

«Sì, signore», rispose Catone, e un improvviso brivido di paura gli fece aggiungere: «Fate attenzione».

Macrone si fermò e gli lanciò un’occhiata sprezzante: «Cercherò di non prendermi una storta alla caviglia, optio. Questo posto è immobile come una tomba. L’unica cosa che ancora gira sono gli spiriti dei morti. E adesso muovetevi».

Catone lo salutò e si voltò verso le file dei legionari. «Prime cinque sezioni! Con me!».

Senz’altro indugio, si incamminò in direzione di ciò che rimaneva della porta principale, seguito dai suoi uomini che cercavano di stargli al passo. Un sentiero dissestato in leggera pendenza conduceva proprio all’enorme struttura di accesso in legno e al corridoio fortificato che un tempo proteggeva l’entrata. La porta era stata distrutta, selvaggiamente scardinata e fatta a pezzi. Catone si inoltrò con cautela tra i suoi resti scheggiati. Su entrambi i lati si aprivano i fossati difensivi che fiancheggiavano il tracciato curvo delle mura e della palizzata distrutta. I legionari lo seguivano in silenzio, con occhi e orecchie attenti a qualsiasi segnale di pericolo nell’atmosfera carica di tensione in cui erano immersi.

Superata la porta distrutta, la devastazione perpetrata dai Durotrigi si manifestò in tutta la sua evidenza. Il villaggio era una distesa di vasi e orci rotti, di abiti strappati e dei resti di tutto ciò che un tempo erano stati i beni materiali degli abitanti. Mentre i soldati si allargavano al suo fianco, Catone si guardò attorno, sorpreso di non vedere cadaveri in giro, neanche carogne di animali. Tranne piccoli mulinelli di cenere sollevati dalla brezza, in quel lugubre silenzio non si muoveva nulla.

«Disperdetevi!», ordinò voltandosi verso i suoi uomini. «Cercate ovunque. Individuate eventuali sopravvissuti. Tornate a rapporto una volta raggiunto il centro dell’insediamento!».

Armi in pugno, i legionari si avventurarono con cautela tra gli edifici distrutti, usando le punte dei giavellotti per sondare ogni cumulo di macerie. Catone rimase a guardarli avanzare per qualche istante, poi lentamente si incamminò egli stesso lungo la stradina ricoperta di cenere che dal portale conduceva nel cuore di Noviomagus. L’assenza di cadaveri lo inquietava. Si era preparato psicologicamente agli orrori che avrebbe visto, e non trovare traccia degli uomini e degli animali che erano lì vissuti era anche peggiore, tanto che l’immaginazione prese il sopravvento fino a fargli avere un terribile presagio. Si maledì furiosamente. Era possibile che i razziatori avessero colto gli abitanti di sorpresa e conquistato il villaggio senza necessità di combattere, portandosi poi via persone e animali come bottino. Era la soluzione più probabile, si convinse.

«Optio!», lo richiamò una voce poco distante. «Da questa parte!».

Catone accorse in quella direzione. Accanto alle macerie di un ovile in pietra, il legionario lo attendeva in piedi davanti a una grossa buca, coperta da una guaina di pelle. Il soldato ne teneva sollevato un lembo e puntava all’interno con il giavellotto.

«Qui, signore. Dovete vedere questo».

Catone gli si avvicinò e guardò nella buca. Era larga circa dieci piedi e profonda quanto un uomo in posizione eretta. La terra attorno all’imboccatura era smossa. Nella semioscurità, vide un cumulo di quarti di carne, decine di ceste di grano, alcuni pezzi di argenteria greca e qualche piccola cassa. Era chiaro che la buca era stata scavata solo di recente, con tutta probabilità per occultare il bottino che i razziatori erano riusciti a raccogliere. L’avevano poi ricoperta con una guaina per tenere lontani gli animali selvatici. Catone si sfilò lo scudo, si calò tra le casse e aprì la prima che gli capitò a portata di mano. Conteneva alcuni oggetti ornamentali celtici in argento e bronzo. Prese uno specchio e se lo rigirò tra le mani, ammirando l’eleganza delle decorazioni a spirale sul retro. Lo ripose nella cassa e osservò poi le torques, le collane, le coppe e le stoviglie varie, tutte della migliore fattura. Quasi nessuno di quei manufatti era stato utilizzato dagli abitanti di Noviomagus. Si trattava più probabilmente del frutto di baratti con le tribù locali, accumulato durante l’inverno per poi essere spedito in Gallia per rivenderlo a prezzi altissimi dai mandatari dei commercianti di Roma. Ora i Durotrigi si erano impossessati di quel tesoro e lo avevano nascosto, senza dubbio per poi recuperarlo al ritorno dalle scorrerie nel territorio degli Atrebati.

Catone trasalì quando capì meglio cosa ciò potesse significare. Riabbassò violentemente il coperchio della cassa e riemerse dalla buca.

«Trova gli altri e venite al centro del villaggio il più velocemente possibile. Io vado avanti a cercare il centurione. Muoviti!».

Catone si precipitò tra le macerie degli edifici carbonizzati, dei quali rimanevano in piedi solo le colonne di legno più robuste e i muri di pietra anneriti. Udì Macrone che urlava ordini e si diresse verso la sua voce. Riemergendo dalle mura di due degli edifici più grandi disposti attorno al centro di Noviomagus, lo trovò insieme ad alcuni suoi uomini accanto a quello che sembrava un pozzo coperto, del diametro di circa dieci piedi. Attorno all’imboccatura correva un parapetto di pietra alto fino alla cintola e il tutto era chiuso da un tetto conico in pelle di animale. Per qualche strano motivo, il tetto era stato lasciato intatto dai razziatori, ed era forse l’unica cosa che non avevano cercato di distruggere.

«Signore!», chiamò Catone mentre li raggiungeva. Macrone alzò gli occhi dal pozzo, con aria apparentemente distratta. Vedendo Catone, si raddrizzò e si mosse per raggiungerlo a grandi passi.

«Trovato qualcosa?»

«Sì». Facendo rapporto, Catone non riuscì a trattenere la sua eccitazione e il suo nervosismo. «Non lontano dalla porta, c’è un pozzetto con il bottino. Credo che abbiano intenzione di tornare qui. E forse potremmo tendere loro una trappola!».

Macrone annuì con aria solenne, apparentemente indifferente di fronte alla possibilità di tendere un’imboscata ai razziatori. «Capisco», disse.

Tutto l’entusiasmo di Catone nel voler continuare a raccontare della scoperta scemò davanti all’espressione stranamente impassibile apparsa sul viso del suo superiore.

«Cosa succede, signore?».

Macrone deglutì. «Hai trovato cadaveri?»

«Cadaveri? No, signore. In effetti è strano».

«Già». Macrone serrò le labbra e puntò un dito in direzione del pozzo. «Allora penso proprio che siano tutti lì dentro».