CAPITOLO VENTOTTO
Mentre Catone sfrecciava giù per il pendio erboso, il vento gli mugghiava nelle orecchie e il cuore gli martellava in petto. Appena qualche istante prima risalivano tranquillamente un sentiero poco battuto; ora invece il fato gli stava offrendo una seppur pallida possibilità di salvare la famiglia del generale, e Catone era in balia del folle, esaltante terrore dello scontro imminente. Guardando avanti, notò che la vista della fortezza era nascosta dagli alberi che costeggiavano il sentiero. A mezzo miglio da lì, il carro avanzava pesantemente sulle solide ruote di legno, trainato da un paio di ispidi pony. I due druidi alla guida del carro erano ignari dei cavalieri in avvicinamento, e se ne stavano seduti ben dritti sulla panca con il collo teso e ansiosi di avvistare le fortificazioni della Grande Fortezza. Alle loro spalle, sul pianale del carro, una coperta di pelle celava i prigionieri. Mentre gli zoccoli dei cavalli colpivano violenti il terreno sotto di lui, a Catone sembrò impossibile che i druidi non li avessero notati e implorò ogni divinità disposta ad ascoltarlo affinché non li facesse scoprire ancora per un po’. O almeno per il tempo necessario a impedire ai druidi di lanciare i loro cavalli al galoppo e mettere in allerta i compagni che erano andati avanti.
Gli dèi, però, sembravano ignari di quel piccolo dramma umano, o cospiravano crudelmente a favore dei druidi. Il compagno dell’auriga, infatti, guardò d’un tratto indietro e si alzò di scatto dal sedile, urlando e indicando i Romani che si avvicinavano. Con un potente schiocco che riecheggiò netto all’aria aperta, l’auriga diede un colpo di frusta sulla groppa dei cavalli e il carro sbandò pesantemente in avanti, mentre l’asse cigolava. L’altro druido ricadde sul sedile, si portò le mani ai lati della bocca e iniziò a gridare; i compagni, però, erano ormai riparati dalla curva della fila di alberi e le urla dell’uomo si persero nell’aria.
Catone nel frattempo gli era arrivato talmente vicino da riuscire a distinguere le fattezze di entrambi i druidi al di sopra della criniera sventolante del suo cavallo; e vide che l’auriga aveva capelli grigi ed era sovrappeso, mentre il compagno era un ragazzo dalla carnagione chiara, magro e visibilmente tirato in viso. Lo scontro sarebbe stato molto rapido. Con il favore del fato, i quattro avrebbero liberato gli ostaggi e fatto immediatamente dietrofront, allontanandosi dalla fortezza molto prima che i druidi a cavallo potessero chiedersi come mai il carro stesse impiegando tanto a raggiungerli. Spronati freneticamente dall’auriga, i loro destrieri sfrecciavano sempre più veloci, trascinandosi dietro il carro che sobbalzava sul sentiero dissestato e puntando dritto verso la curva di alberi in direzione del ponte. Gli inseguitori erano a poca distanza da loro, e spronavano i cavalli con la schiuma alla bocca.
Alle sue spalle Catone udì improvvisamente un grido acuto dovuto al panico: si voltò e vide il cavallo di Boudicca rovinare a terra, le zampe posteriori che si agitavano convulsamente in aria prima di colpire il collo dell’animale. Scaraventata in avanti, Boudicca abbassò istintivamente la testa e si raggomitolò completamente prima di colpire terra. Urlando, rimbalzò su zolle di erba. I suoi compagni frenarono. Il cavallo di Boudicca si contorceva a terra, con la schiena spezzata e le zampe anteriori che tentavano invano di risollevare la parte posteriore del corpo. Boudicca aveva vomitato in una pozzanghera e, sebbene malferma, si stava rialzando.
«Lasciatela stare!», urlò Macrone, spronando di nuovo il suo destriero al galoppo. «Prendiamo quel maledetto carro prima che sia troppo tardi!».
Nel frattempo i druidi avevano guadagnato parecchio terreno sugli inseguitori. Il carro sfrecciava a velocità folle ed era arrivato ormai ad appena qualche centinaio di passi dal ponte. Di lì a poco sarebbe stato perfettamente visibile dalla fortezza e dagli altri druidi che l’avevano preceduto. Con un calcio violento al fianco del cavallo, Catone si lanciò al galoppo alle spalle del centurione, affiancato da Prasutago. Correvano paralleli al sentiero per tenersi lontani dai solchi traditori: davanti a sé riuscivano a vedere i lembi di pelle legati sul retro del carro. Il druido più giovane si voltò a guardarli con espressione spaventata.
Subito dietro la curva spuntò la mole gigantesca della fortezza; Catone incitò il cavallo in un ultimo disperato tentativo e in un istante bruciò la distanza con il carro. Le enormi e possenti ruote di legno di quercia gli schizzarono fango in faccia. Catone sbatté le palpebre, afferrò l’impugnatura della spada e, mentre la sfoderava, la lama stridette. Davanti a lui Macrone si era affiancato all’auriga e stava deviando il proprio cavallo sulla linea di corsa degli animali che tiravano il collo. Questi ultimi, nitrendo terrorizzati, cercarono di fermarsi ma furono scaraventati in avanti dallo slancio del carro che sopraggiungeva sobbalzando dietro di essi. Catone tenne la spada abbassata su un fianco, pronto a colpire. Accostandosi al sedile dell’auriga, notò di sfuggita un movimento fulmineo mentre il giovane druido gli si scaraventava addosso. Ricaddero entrambi al suolo. Per l’impatto Catone rimase senza respiro, accecato per un istante da un lampo di luce quando la sua testa colpì terra. Riacquistata la vista, si trovò la faccia del giovane druido che gli ringhiava a meno di una spanna dalla sua. Poi, mentre un rivolo di bava gli colava dai denti macchiati, il druido emise un rantolo e a occhi sgranati ricadde in avanti.
Catone spinse via da sé il corpo esanime e vide l’elsa della sua spada affondata nel tessuto nero del mantello del druido. Nessuna traccia della lama, solo una macchia scura che si allargava attorno all’elsa. La lama si era conficcata nelle viscere del druido, penetrando gli organi vitali al di sotto della cassa toracica. Con una smorfia, Catone rotolò e si rialzò in piedi, strattonando poi violentemente indietro l’impugnatura. Con un rivoltante rumore di risucchio, la lama lentamente si sfilò e l’optio si voltò immediatamente in cerca del secondo druido.
Questo, però, era già morto: riverso sulla copertura di pelle del carro, perdeva fiotti di sangue da una ferita alla gola che Prasutago gli aveva aperto con la sua lunga spada celtica. Il guerriero iceno nel frattempo era sceso da cavallo e stava già slacciando i nodi che tenevano chiuso il retro della copertura. Dall’interno del carro giunse il grido smorzato di un bambino. L’ultimo nodo si sciolse e Prasutago aprì i lembi del telo infilando poi la testa all’interno. L’aria fu squarciata da grida.
«Va tutto bene!», urlò Boudicca in latino, risalendo di corsa il sentiero. Disse qualche parola infuriata a Prasutago nella loro lingua e poi lo spinse da parte. «Va tutto bene. Siamo qui per portarvi in salvo. Catone, vieni qui! Queste persone devono vedere la faccia di un romano».
Infilò di nuovo la testa sotto il telo e cercò di parlare in tono tranquillo. «Ci sono due ufficiali romani con noi. Siete in salvo».
Catone raggiunse la parte posteriore del carro e guardò nell’oscurità dell’interno. Vide una donna seduta china su se stessa, con le braccia attorno alle spalle di un bambino e di una ragazzina di poco più grande, con gli occhi terrorizzati e gonfi di lacrime. Gli abiti che indossavano erano stati un tempo di ottima qualità, ma ora erano sudici e a brandelli. Avevano l’aspetto di comuni mendicanti da strada, rannicchiati e spaventati.
«Pomponia», disse Catone con un tono rassicurante. «Sono un optio della Seconda Legione. Vostro marito ci ha inviati a cercarvi. Questo è il mio centurione».
Poi si fece da parte mentre Macrone si avvicinava. Il centurione fece un cenno a Prasutago perché tenesse d’occhio il sentiero in direzione della fortezza.
«State bene?». Macrone guardò la donna e i suoi due figli. «Bene! muoviamoci allora, prima che quei bastardi tornino indietro».
«Non posso», disse Pomponia. Sollevando un lembo del mantello mostrò un piede nudo incatenato, all’altezza della caviglia, a un anello di ferro sul pianale del carro.
«E i bambini?».
Pomponia scosse la testa.
«Bene. Bambini, intanto uscite dal carro così posso lavorare sulla catena di vostra madre».
I piccoli, però, si strinsero ancor più alla mamma.
«Andate, fate come vi dice», li esortò dolcemente Pomponia. «Queste persone sono qui per aiutarci a tornare da vostro padre».
La ragazzina strisciò con aria esitante sulle sudice tavole fino al fondo del carro e scivolò fuori tra le braccia di Boudicca. Il maschietto, invece, affondò la faccia contro la madre e serrò ancor più le piccole mani a pugno tra le pieghe del mantello. Macrone si accigliò.
«Sentimi, ragazzino, non abbiamo tempo per queste assurdità. Esci subito da qui!».
«Così non otterrai niente», mormorò Boudicca. «Il bambino è già abbastanza spaventato».
Tenendo la ragazzina poggiata su un’anca, Boudicca tese una mano al bimbo che, con una leggera spinta della madre, seppur riluttante si fece aiutare a scendere dal carro. Si avvinghiò alla gamba di Boudicca guardando inquieto Catone e Macrone.
Il centurione salì sul carro e iniziò a esaminare il ceppo alla caviglia.
«Dannazione! È stato bloccato con un cavicchio di ferro, non c’è serratura».
Per rimuovere il resistente cavicchio metallico che teneva chiuso il ceppo era necessario uno speciale strumento appuntito. Macrone estrasse la spada e appoggiò con cautela la punta contro un’estremità del cavicchio. Pomponia osservò allarmata e si ritrasse istintivamente.
«Dovrete rimanere ferma».
«Tenterò, ma fai attenzione, centurione».
Macrone annuì e gradualmente prese a spingere sull’estremità del cavicchio. Non ottenendo alcun risultato, aumentò la pressione, facendo attenzione a tenere sempre la punta della spada sulla testa del cavicchio. I muscoli del braccio si tesero e Macrone digrignò i denti mentre tentava di liberare la donna. La punta della spada scivolò e si conficcò nel pianale del carro con un rumore sordo, mancando per un pelo il piede sporco di Pomponia.
«Scusatemi, adesso riprovo».
«Fai in fretta, ti prego».
Un urlo di Prasutago richiamò l’attenzione di Catone. Il guerriero iceno stava tornando al carro al galoppo e farfugliava velocemente qualcosa. Boudicca annuì.
«Dice che stanno tornando. Sono in quattro. A cavallo a passo d’uomo».
«A che distanza si trovano?», chiese Catone.
«Circa un quarto di miglio dal ponte».
«Non abbiamo molto tempo, allora».
«Sto facendo il possibile per liberarla», borbottò Macrone facendo di nuovo pressione con la punta della spada. «Ecco! Sono sicuro che si sta allentando».
Catone raggiunse rapidamente la parte anteriore del carro, rimise il corpo del druido grasso in posizione seduta e gli incuneò la frusta tra le gambe. Poi fece cenno a Prasutago di portare quello più giovane tra gli alberi. L’iceno si chinò sul corpo e senza nessuna fatica se lo sollevò in spalla. Passò davanti ai piccoli cavalli del carro e lanciò il cadavere tra gli arbusti al margine della foresta.
«Nascondi i cavalli! Dov’è quello di Boudicca?»
«È morto», rispose lei. «La caduta gli ha spezzato la schiena e ho dovuto lasciarlo indietro».
«Tre cavalli…». Catone raggelò per il panico. «Noi siamo in sette. In due su un cavallo va bene, ma in tre?»
«Dovremo tentare», rispose decisa Boudicca, dando una stretta rassicurante ai bambini. «Nessuno verrà abbandonato. Come va con la catena, Macrone?»
«Non si muove, maledizione! Il cavicchio è troppo piccolo». Macrone scese dal retro del carro. «Rimanete ferma lì, Pomponia. Torno tra un istante. Dunque…». Guardò lungo il sentiero, socchiudendo gli occhi per vedere meglio nella luce del crepuscolo. Quattro figure scure si stavano dirigendo verso lo stretto ponte sulla fragile intelaiatura. «Dovremo prima occuparci di loro. E poi fare un altro tentativo con la catena. Taglierò quella maledetta stanga, se sarà necessario. Adesso nascondiamoci tutti tra gli alberi. Seguitemi».
Macrone condusse Boudicca e i bambini lontano dal carro, nel folto della foresta. Scavalcarono il corpo disteso del giovane druido e si accovacciarono vicino ai cavalli che Prasutago aveva legato al tronco di un pino.
«Tenete pronte le spade», disse a bassa voce Macrone. «Dietro di me».
Con Catone e Prasutago, raggiunse un punto a quindici miglia dalla parte anteriore del carro, e i tre si accovacciarono in attesa dell’arrivo dei druidi. I piccoli pony attaccati al carro erano fermi e silenziosi come il cadavere del loro padrone seduto sul sedile. I tre attesero i primi rumori dell’avvicinamento dei druidi. Poi si udì lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli sulle assi del ponte.
«Aspettatemi per fare la prima mossa», sussurrò Macrone. Poi, vedendo l’espressione perplessa di Prasutago, abbozzò una frase più semplice. «Io combattere prima, poi venire voi. Capito?».
Prasutago annuì e Macrone si rivolse a Catone.
«Bene, cerchiamo di essere rapidi e precisi. Dobbiamo farli fuori tutti. Nessuno deve scappare e dare l’allarme».
Qualche istante dopo i druidi avvistarono il carro e diedero una voce. Non ricevendo risposta, chiamarono di nuovo. Il silenzio li fece insospettire. Giunti a circa un centinaio di passi, fermarono i cavalli e si mormorarono qualcosa.
«Maledizione!», sibilò Macrone. «Non la berranno».
Il centurione fece per alzarsi, ma Catone ebbe l’ardire di bloccarlo con una mano.
La sfacciataggine di quel gesto da parte dell’optio sbalordì talmente Macrone da lasciarlo immobilizzato quel tanto che bastava per sentir ridere i druidi. Poi i cavalieri proseguirono. Catone strinse la presa sull’impugnatura della spada e si tese, pronto a scattare dietro Macrone e attaccare il nemico. Attraverso l’intreccio dei rami più bassi, l’optio riusciva a vedere i druidi che si avvicinavano in fila lungo il sentiero. Al suo fianco, Macrone imprecò: non sarebbero mai riusciti ad abbandonare quel nascondiglio senza attirare la loro attenzione.
«Lasciatemi l’ultimo», bisbigliò.
Il primo dei druidi superò il punto in cui erano nascosti e urlò qualcosa al guidatore del carro, forse prendendolo in giro. Prasutago ridacchiò alla battuta dell’uomo e Macrone gli mollò una gomitata.
Il secondo druido passò proprio mentre il suo capo chiamava di nuovo l’auriga a voce molto più alta di prima. A quel rumore, uno dei pony si spaventò e cercò di indietreggiare. Il carro fece una leggera rotazione e, sotto gli occhi dei tre in agguato, il corpo dell’auriga si inclinò lentamente di lato e cadde a terra sul sentiero.
«Adesso!», urlò Macrone, scattando fuori dall’ombra e lanciando un grido di battaglia. Catone fece altrettanto, lanciandosi contro il secondo druido. Alla sua destra, Prasutago roteò la lunga spada disegnando un arco grigio e la scagliò contro la testa del suo druido. L’arma lo colpì con un rivoltante scricchiolio e l’uomo si accasciò sulla sella. Armato di gladio, Catone fece come gli era stato insegnato conficcandolo con forza nel fianco del suo bersaglio. All’impatto, il druido emise un rantolo esplosivo rimanendo senza fiato. Catone agguantò il mantello nero dell’uomo e lo strattonò violentemente a terra, dove gli sfilò la spada e gli squarciò rapidamente la gola.
Ignorando il rantolo gorgogliante dell’uomo in agonia, Catone si voltò, la spada pronta a colpire, e vide Prasutago dirigersi verso il loro capo. Sopravvissuto all’attacco diretto, il primo druido aveva sfoderato la spada e girato il cavallo. Con un colpo di tallone al fianco, lanciò il cavallo contro il guerriero iceno, che fu costretto a buttarsi di lato, schivando la spada. Il druido imprecò, diede un altro colpo di tacco e partì al galoppo verso Catone. L’optio però rimase immobile con il gladio alzato. Il druido ringhiò selvaggiamente di fronte alla temerarietà con cui quell’uomo si preparava ad affrontare con il corto gladio delle legioni la lunghissima spada del nemico.
Con il sangue che gli pulsava nelle orecchie, Catone fissò il cavallo lanciato al galoppo contro di lui e il cavaliere con il braccio armato sollevato per sferrare il colpo mortale. Quando avvertì il primo sbuffo dell’animale, Catone alzò di scatto il gladio e lo riabbassò conficcandoglielo tra gli occhi e scivolando via rapidamente. Il cavallo nitrì, accecato in un occhio e sofferente per la frattura dell’osso frontale. Si impennò, agitando le zampe anteriori e disarcionando il druido, e poi scappò nella piana, scrollando la testa e perdendo scure gocce di sangue.
Rimessosi in piedi, Catone bruciò la breve distanza tra lui e il cavaliere che tentava disperatamente di sollevare la propria arma. Con il clangore delle loro lame che cozzavano, parò il colpo e affondò la spada nel petto del druido. Terrorizzati dall’attacco, i due cavalli rimasti senza cavaliere fuggirono al galoppo nel buio.
Catone si voltò per controllare come se la stesse cavando Macrone con l’ultimo nemico. A circa trenta passi da lì, si stava combattendo uno scontro impari. Il druido si era ripreso dalla sorpresa dell’imboscata prima che Macrone fosse riuscito a raggiungerlo, e ora con la sua lunga spada stava sferrando colpi violentissimi contro il tozzo centurione, che aveva aggirato il carro per bloccargli la via verso il ponte.
«Datemi una mano!», urlò Macrone mentre sollevava la spada per parare un ennesimo colpo.
Prasutago stava già accorrendo in suo aiuto e Catone partì alle sue spalle. Prima che uno dei due potesse raggiungerlo, il centurione inciampò e cadde. Il druido ne approfittò per abbassare la lama e sferrargli il colpo, gettandosi direttamente su di lui per assicurarsi di non mancarlo. La lama si abbatté con un rumore sordo e rimbalzò sul cranio di Macrone. Senza un fiato, il centurione si accasciò in avanti e per un istante Catone lo fissò, immobile e terrorizzato.
L’urlo rabbioso di Prasutago lo strappò a quel momentaneo torpore e Catone si voltò verso il druido, deciso ad avere il suo sangue. Quello, però, ebbe sufficiente lucidità da non affrontare due nemici contemporaneamente e si rese conto di dover trovare rinforzi. Girò velocemente il cavallo e ripartì al galoppo verso la fortezza, chiamando a gran voce i compagni.
Rinfoderata la spada insanguinata, Catone si inginocchiò accanto al corpo immobile di Macrone.
«Signore!». Lo afferrò per le spalle e se lo caricò sulla schiena, trasalendo alla vista della brutta ferita che aveva alla testa. La spada del druido era penetrata fino all’osso, asportando un grosso pezzo di scalpo. La faccia immobile di Macrone era una maschera di sangue. Catone gli infilò una mano sotto la tunica: il cuore batteva ancora. Prasutago si inginocchiò accanto a lui, scuotendo la testa impietosito.
«Forza, prendilo per i piedi e portiamolo al carro».
Stavano tornando verso il carro con il corpo esanime del centurione quando dagli alberi spuntò Boudicca con i bambini per mano. Quando vide il corpo di Macrone si fermò. Al suo fianco la ragazzina si ritrasse.
«Oh, no…».
«È vivo», grugnì Catone.
Lo deposero delicatamente sul pianale del carro mentre Boudicca recuperava un otre da sotto il sedile dell’auriga. Vedendo la ferita, la donna icena sbiancò, rimosse poi il tappo dell’otre e versò dell’acqua su quel sanguinolento scempio di pelle e capelli.
«Dammi la tua fascia da collo», ordinò a Catone. Quest’ultimo la sciolse velocemente e gliela porse. Con una smorfia, Boudicca riportò il lembo di pelle sul cranio di Macrone e legò stretto il tessuto attorno alla ferita. Poi sfilò la fascia dal collo di Macrone, già insanguinata, e legò anche quella. Il centurione, però, non riprendeva conoscenza. Catone ne sentiva il respiro debole, rantolante.
«Morirà».
«No!», disse inferocita Boudicca. «No. Mi hai sentito? Dobbiamo portarlo via di qui».
Catone si voltò verso Pomponia. «Non possiamo andarcene. Non senza voi e i vostri figli».
«Optio», disse dolcemente Pomponia, «prendi il tuo centurione e i miei bambini e parti prima che i druidi facciano ritorno».
«No». Catone scosse la testa. «Andremo via tutti».
La donna sollevò il piede incatenato. «Io non posso, ma tu devi portar via i miei bambini, ti imploro. Non c’è nulla che tu possa fare per me. Salva loro, almeno».
Catone si sforzò di guardarla dritto negli occhi e vi lesse tutta la sua disperata supplica.
«Dobbiamo andare», gli sussurrò Boudicca di fianco. «Dobbiamo andare. Il druido che è riuscito a fuggire porterà qui gli altri. Non abbiamo tempo, dobbiamo andare».
Il cuore di Catone precipitò in un abisso di disperazione. Boudicca aveva ragione. Se non mozzandole il piede, non c’era altro modo per poter liberare Pomponia prima del ritorno dei druidi.
«Potresti rendermi le cose più semplici», disse la romana con un cauto cenno della testa in direzione dei figli. «Ma prima portali via di qui».
L’optio si sentì gelare il sangue nelle vene. «Non state parlando seriamente, vero?»
«Certo che sì. O questo, o essere bruciata viva».
«No… non posso farlo».
«Ti prego», gli sussurrò la donna. «Ti imploro, per pietà».
«Andiamo!», li interruppe Prasutago quasi urlando. «Stanno arrivando! Veloce, veloce!».
Senza indugiare oltre, Catone sfoderò la spada e abbassò la punta sul petto di Pomponia. La donna chiuse gli occhi.
In quel momento, Boudicca spinse via la punta. «Non davanti ai bambini! Aspetta che li abbia messi in sella».
Troppo tardi, però. Il maschietto aveva capito cosa stava accadendo e sgranava gli occhi terrorizzato. Prima che Boudicca o Catone potessero reagire, si arrampicò sul retro del carro e si strinse alla madre. Boudicca riuscì ad afferrare la femmina per un braccio impedendole di fare altrettanto.
«Lasciatela stare!», urlò il bambino, le guance sporche rigate di lacrime. «Non la toccate! Non vi permetterò di far del male alla mia mamma!».
Catone abbassò la spada e mormorò: «Non posso farlo».
«Devi farlo», bisbigliò Pomponia al di sopra della testa del figlio. «Prendetelo, adesso!».
«No!», urlò il bambino, stringendosi ancor più forte al braccio di lei. «Non ti lascerò, mammina! Ti prego, mammina, non farmi portare via!».
Al di sopra del pianto del piccolo, Catone udì un altro suono: lontane grida provenienti dalla direzione della fortezza. Il druido sfuggito all’imboscata doveva aver raggiunto i compagni. Non c’era più tempo.
«Non lo farò», disse deciso Catone. «Prometto di trovare un’altra via di uscita».
«Quale altra via di uscita?», esplose Pomponia ormai in lacrime, perdendo alla fine il suo autocontrollo di donna patrizia. «Mi bruceranno viva!».
«No, non lo faranno, lo giuro. Sulla mia stessa vita. Vi libererò, lo giuro».
Pomponia scosse la testa disperata.
«Adesso datemi vostro figlio».
«No!», gridò il bambino, dimenandosi per non finire nelle mani di Catone.
«I druidi arrivano!», urlò Prasutago. Ormai tutti sentivano il rumore lontano degli zoccoli dei cavalli sul terreno.
«Prendi la ragazzina e vai!», ordinò Catone a Boudicca.
«Ma andare dove?».
Catone rifletté rapido, ricostruendo mentalmente la conformazione del territorio attraverso i ricordi del viaggio.
«Il bosco che abbiamo attraversato è a quattro o cinque miglia da qui. Dirigiti laggiù. Adesso!».
Boudicca annuì, afferrò la bambina per un braccio e si diresse tra gli alberi dove erano legati i cavalli. Catone chiamò Prasutago e indicò il corpo ancora immobile di Macrone.
«Tu prendi lui e segui Boudicca».
Il guerriero iceno annuì e prese Macrone tra le braccia.
«Con delicatezza!».
«Fidati di me, romano». Prasutago lanciò un’occhiata a Catone, poi si voltò e anche lui si diresse verso i cavalli con quel fardello, lasciando Catone da solo in piedi sul retro del carro.
Pomponia afferrò il figlio per un polso. «Elio, adesso devi andare. Sii bravo e fai come ti dico. Andrà tutto bene, ma tu devi andare».
«Non vado», singhiozzò il bambino. «Io non ti lascio qui, mammina!».
«Devi farlo». Tenendolo per il polso, Pomponia allontanò a forza il figlio da sé spingendolo verso Catone. Elio si dimenò freneticamente per liberarsi dalla presa. L’optio lo afferrò alla cintola e lo tirò delicatamente giù dal carro. La madre lo guardò con le lacrime agli occhi, consapevole che non avrebbe mai più rivisto il piccolo. Elio piangeva e si dimenava tra le braccia di Catone. Poco distante, si udì il suono martellante degli zoccoli sul legno, segno che i druidi avevano raggiunto il ponte. Boudicca e Prasutago, già in sella, aspettavano al margine del bosco. La ragazzina sedeva ammutolita davanti all’icena. Prasutago, tenendo saldamente il corpo del centurione con un braccio, tese le redini dell’ultimo cavallo a Catone, che lanciò in groppa il bambino e poi vi salì a sua volta.
«Via!», ordinò agli altri e partirono tutti lungo il sentiero, allontanandosi dalla fortezza. Catone si voltò per un’ultima occhiata al carro, consumato dal senso di colpa e dalla disperazione, e poi spronò il cavallo con un colpo di tallone.
Quando il cavallo scattò al galoppo, Elio si dimenò e riuscì a sfuggire alla presa di Catone. Rotolò via dal cavallo, si rialzò in piedi e corse di nuovo verso il carro con tutta la velocità che gli permettevano le sue piccole gambe.
«Mammina!».
«Elio! No! Torna indietro, ti prego!».
«Elio!», urlò Catone. «Torna qui!».
Ma fu tutto inutile. Il bambino raggiunse il carro, si arrampicò e si lanciò tra le braccia della madre in lacrime. Per un istante Catone girò il cavallo verso il carro, ma poco oltre vide del movimento lungo il sentiero.
Imprecò, poi diede uno strattone alle redini e si lanciò al galoppo dietro Boudicca e Prasutago.