CAPITOLO DIECI

Nella flebile luce, il centurione Ortensio non era altro che una sagoma scura, quasi scontornata, mentre guardava all’interno del pozzo con le mani appoggiate sul parapetto di pietra. Macrone e i suoi uomini si tenevano indietro, quanto più distante potevano da eventuali spiriti dei morti. Diomede se ne stava seduto, solo, con la schiena contro il muro annerito di un edificio. Teneva la testa chinata in avanti, il viso affondato tra le braccia, il corpo tormentato dal dolore.

«La sta prendendo un po’ male», mormorò Figulo.

Catone e Macrone si scambiarono un’occhiata. Entrambi avevano visto il groviglio di corpi mutilati che riempiva il pozzo fin quasi all’orlo. Considerate le dimensioni del villaggio, lì dentro dovevano esservi centinaia di cadaveri. La cosa che faceva più orrore a Catone era che non era stato risparmiato nessun essere vivente. Nel groviglio di cadaveri, oltre che donne e bambini, c’erano anche cani e pecore. I razziatori avevano voluto mettere bene in chiaro quale destino sarebbe toccato a quelli che si schieravano dalla parte di Roma. Di fronte alla terribile scena, il giovane optio era raggelato dall’orrore e dalla disperazione quando i suoi occhi erano caduti sul viso di un bambino, poco più che un neonato, adagiato in posizione scomposta in cima al cumulo. Da sotto una folta capigliatura biondo paglia, un paio di incredibili occhi azzurri fissavano terrorizzati verso l’alto. La bocca era rimasta aperta mettendo in vista i minuscoli dentini bianchi. Era stato ucciso con un colpo di lancia al petto, la maglia di lana grezza che indossava aveva un macchia scura di sangue rappreso. Catone era indietreggiato da quella fossa comune, si era voltato e, dopo essersi accucciato, aveva vomitato.

In quel momento, a distanza di mezz’ora, era intirizzito e si sentiva sfiancato dallo stesso profondo dolore che prova chiunque sia testimone, per la prima volta, del lato oscuro della vita. Da quando aveva iniziato la carriera militare con le aquile – poco più di un anno prima – la morte violenta era sempre stata una presenza costante. Era passato così poco tempo, rifletté. L’esercito era riuscito a indurirlo senza che lui se ne fosse pienamente reso conto, ma di fronte all’ecatombe dei druidi del culto della Luna Nera, Catone si sentì ancor più divorato dall’orrore e dalla disperazione. Mentre la sua mente tentava di farsi una ragione di azioni che oltraggiavano ogni forma di civiltà, sentì montare dentro di sé un incontenibile impulso alla vendetta selvaggia contro gli esecutori di quell’eccidio. L’immagine di quel bambino gli attraversò la mente ancora una volta, e istintivamente Catone strinse e torse la mano sull’impugnatura della spada. In quel momento, quegli stessi druidi tenevano nelle loro mani una famiglia romana, condannata senza dubbio a subire lo stesso destino toccato agli abitanti di Noviomagus.

Macrone notò tale movimento. Per un istante fu quasi tentato di dare una pacca paterna sulla spalla dell’optio nel tentativo di confortarlo. Si era abituato alla presenza costante di Catone e tendeva a dimenticare che il ragazzo non aveva ancora molta esperienza dell’assoluta brutalità della guerra. Gli rimaneva difficile credere che il goffo topo di biblioteca presentatosi con tutte le altre reclute scarmigliate in Germania era lo stesso giovane ufficiale sfregiato che in quel momento stava in piedi accanto a lui. Il ragazzo si era già meritato la sua prima decorazione per la sua audacia: la lucida falera gli scintillava ora sull’armatura. Coraggio e intelligenza erano in lui qualità indubbie e, se fosse sopravvissuto abbastanza a lungo alla dura vita delle legioni, lo aspettava un futuro brillante. Rimaneva però ancora poco più che un ragazzo, incline a un sofferto esercizio di autocoscienza di cui Macrone non riusciva proprio a capacitarsi. Proprio come non riusciva a capire la profondità di alcuni suoi momentanei stati d’animo, quando sembrava chiudersi in se stesso e annodarsi volutamente in un impenetrabile groviglio di pensieri.

Macrone si strinse nelle spalle. Se quel ragazzo avesse smesso di pensare così tanto, la vita gli sarebbe sembrata molto più facile. Macrone concedeva poco tempo all’introspezione: la considerava una distrazione che gli impediva di fare ciò che era necessario. Meglio lasciarla agli oziosi intellettuali di Roma. E prima Catone lo avesse capito, più felice sarebbe stato.

Figulo stava ancora commentando con disapprovazione la vergognosa ostentazione emotiva di Diomede. «Maledetti greci! Fanno di tutto un dramma. Troppe tragedie e poche commedie nei loro teatri, ecco qual è il loro problema».

«Quell’uomo ha perso la sua famiglia», disse a voce bassa Macrone. «Quindi fagli un favore, chiudi quella tua bocca schifosa prima che ti senta».

«Sì, signore». Figulo attese un istante e poi si allontanò con aria indifferente, come se cercasse qualcos’altro su cui concentrarsi mentre la centuria rimaneva in attesa di ulteriori ordini.

Ortensio aveva visto abbastanza e raggiunse Macrone con passo spedito.

«Un bel pasticcio là dentro».

«Già».

«Meglio ordinare ai tuoi uomini di riempirlo di terra. Non abbiamo tempo per una sepoltura adeguata. E ad ogni modo, non conosco le usanze locali».

«Potreste chiedere a Diomede», suggerì Macrone. «Dovrebbe saperlo».

Si voltarono entrambi verso la guida greca. Diomede aveva risollevato la testa e stava guardando in direzione del pozzo, tremante e con il viso contorto dal dolore.

«Non ne sono sicuro», rispose il centurione Ortensio. «Non ora, almeno. Mi prenderò cura io di lui mentre voi vi occupate del pozzo».

Macrone annuì, poi ebbe un altro pensiero. «E a proposito del bottino che ha scoperto il mio optio

«In che senso?».

Catone alzò gli occhi, infastidito dall’incapacità del centurione di comprendere la portata della sua scoperta. E prima che potesse lanciarsi in una spiegazione non richiesta, Macrone intervenne.

«L’optio ritiene che i razziatori abbiano intenzione di tornare a recuperare la refurtiva».

«Ah sì, la pensa così?». Ortensio lanciò un’occhiata torva in direzione del giovane optio, sdegnato che un soldato così giovane e di poca esperienza potesse avere la presunzione di capire le intenzioni del nemico.

«Altrimenti quale potrebbe essere il motivo di nasconderlo in quel modo, signore?»

«E chi lo sa… magari è un’offerta ai loro dèi».

«Non penso proprio», rispose tranquillamente Catone.

Ortensio si accigliò. «Se hai qualcosa da dire, meglio che tu la dica come si deve, optio», gli rispose bruscamente.

«Certo, signore». Catone si mise sull’attenti. «Era solo mia intenzione suggerire che, a mio avviso, i razziatori hanno messo da parte la refurtiva che pensavano di poter trasportare con sé una volta che si fossero ritirati nel territorio dei Durotrigi. Tutto qui, signore. Oltre al fatto che potrebbero ripassare di qui in qualsiasi momento».

«In qualsiasi momento, eh?», gli fece il verso Ortensio. «Ne dubito. Se hanno un minimo di buonsenso, adesso se ne staranno già ben rintanati al sicuro a casa loro».

«In ogni caso il ragazzo potrebbe non avere tutti i torti», disse Macrone. «Dovremmo lasciare una postazione di guardia su un’altura».

«Macrone, non sono nato ieri. Me ne sto già occupando. Gli esploratori stanno tenendo d’occhio tutte le vie di accesso al villaggio e, se qualcuno si avvicinerà, verrà avvistato molto prima che possa trasformarsi in una minaccia per noi. Con questo, non penso che i razziatori siano ancora là fuori».

Aveva appena smesso di parlare quando nell’oscurità risuonò il rumore di zoccoli di cavallo. I tre ufficiali si voltarono e solo qualche istante dopo al centro del villaggio arrivò al galoppo un esploratore. Tirò le redini e smontò su un fianco.

«Dov’è il centurione Ortensio?»

«Quaggiù. Vieni a rapporto!».

L’uomo lo raggiunse di corsa, salutò e fece un profondo respiro. «Una colonna di uomini in avvicinamento, signore! A due miglia circa».

«Da quale direzione?».

L’esploratore si voltò e puntò un dito verso est, oltre un canalone tra due colline, dove un sentiero si snodava lungo la costa.

«Quanti sono?»

«Duecento, forse di più».

«Bene. Cosa sta facendo il tuo decurione?»

«Ha riportato la squadra al riparo degli alberi sulla collina vicina. Tranne due uomini, che non sono a cavallo. Stanno tenendo d’occhio la colonna».

«Bene». Ortensio annuì soddisfatto e congedò l’esploratore. «Vai e riferisci al decurione di rimanere nascosti. Invierò appena possibile un messaggero con i miei ordini».

Il soldato tornò di corsa al cavallo mentre Ortensio si voltava verso i suoi ufficiali. Si sforzò di abbozzare un sorriso.

«Bene, giovane Catone. A quanto sembra, potresti averci visto giusto. E se è così, quei bastardi dei druidi e dei loro amici troveranno una bella sorpresa».