4. IL PROGETTO DI UNA MORALE SOCIALE1

Scopo di questa semplice nota è di esplorare il terreno sul quale dovrà svilupparsi la nostra ricerca collettiva. Siccome dalla fondazione del nostro movimento il problema è alquanto mutato, e così la metodologia di approccio e di ricerca, dirò innanzitutto qualcosa su di esso e sulle ragioni del cambio di fronte attuato con questa pubblicazione.

A. Il problema

In ambiente cristiano ci si è figurati spesso il problema della morale sociale come se fosse la costruzione di una dottrina coerente destinata a colmare un vuoto tra la predicazione cristiana da un lato e, dall’altro, i giudizi e le decisioni di carattere tecnico riguardanti l’ordinamento della società, considerata principalmente dal punto di vista della società industriale. Per adempiere a questa funzione di intermediario, la morale sociale doveva prevedere tre tappe o tre livelli.

1. L’etica sociale della Bibbia. Sotto questo titolo si raggruppavano gli «insegnamenti sociali» tratti dai profeti, dalla predicazione di Gesù e degli apostoli. La teologia biblica era incaricata di ricavare dall’esegesi un sistema coerente di precetti validi in ogni tempo.

2. La dottrina sociale della Chiesa. Con questa si possono intendere i sistemi successivi, configurati nel Medioevo, all’epoca della Riforma o nella modernità, in vista di fondere i princìpi precedenti con i principali concetti della filosofia sociale; si mutuavano così da Aristotele e dagli stoici i concetti di giustizia distributiva e commutativa, di città o di comunità umana; si riprendevano nel Medioevo le differenti nozioni di diritto naturale e di diritto sociale che si sono succedute fino all’epoca di Rousseau; dai filosofi del XVIII secolo si prendeva a prestito la nozione moderna di contratto; Hegel forniva infine a tutti i contemporanei i concetti «storici» di alienazione, dialettica, razionalità, fattività, ecc. Quella che chiamiamo dottrina sociale della Chiesa ha rappresentato, da parte cattolica, un tentativo continuamente fallito e continuamente ripreso di rivitalizzare i concetti medievali con dei concetti moderni di varia origine, mentre da parte protestante si è lavorato più spesso sulla base di concetti presi a prestito dalla Riforma, dal kantismo e dal neokantismo, e dalla fase hegeliana e posthegeliana della filosofia sociale. Le teologie liberali hanno creato degli amalgami molto significativi di questi diversi concetti fino ai nostri giorni.

3. Il confronto dei sistemi globali. Questa terza tappa della morale sociale rappresenta uno sforzo di criteriologia, ossia di discernimento coerente, a livello dei sistemi: socialismo e capitalismo; liberalismo e collettivismo. Ad essa è stato attribuito di frequente il titolo di «morale sociale», unificando sotto tale giudizio le tre tappe che stiamo percorrendo: questo discernimento è consistito spesso in un’arte del «male minore»; ed esprime in effetti l’arte del moralista, vale a dire un esercizio del giudizio pratico, quanto di più vicino alla realtà e alla pratica sociale ma a livello dell’ideologia del sistema. Più in là comincia infatti il giudizio di circostanza, in funzione delle situazioni concrete e degli impegni particolari.

Per molti dei nostri contemporanei è ancora questo lo schema che rappresenta la morale sociale del cristianesimo, e cioè un documento di pensiero, di giudizio e di azione nel quale si ritrovano concatenati i tre progressivi punti di vista che abbiamo appena percorso. Se l’operazione fosse possibile, non ci sarebbe soluzione di continuità tra la predicazione cristiana e l’impegno politico-sociale, essendo del tutto attuata la congiunzione sul piano teologico, filosofico e ideologico.

La domanda preliminare che dobbiamo porci è la seguente: il nostro compito sarebbe oggi quello di migliorare, di ammodernare, di rendere più coerente questo genere di dottrina? O bisogna rinunciarvi del tutto?

A dire il vero, non è dipeso da noi che questo progetto sia esploso in frantumi.

1. Una migliore esegesi e una migliore teologia biblica hanno reso pressoché impossibile la ricerca di princìpi «universali» fondati sulla Scrittura: la critica biblica ci invita piuttosto a ricollocare nel loro giusto contesto, e a comprendere secondo la loro propria intenzione, nozioni quali il regno di Dio, la giustizia, la legge, l’alleanza ecc.; inoltre, non potendo derivarne dei princìpi e dei valori eterni, è diventato sempre più difficile, se non addirittura impossibile, mescolare la proclamazionekèrygma con dei concetti di filosofia politica e sociale.

2. Le metafisiche che supportavano questo discorso filosofico-teologico sono per la maggior parte crollate, oppure sono diventate esse stesse problematiche e non sopravvivono se non al modo di un’interrogazione aperta: non è possibile tenere lontana la morale sociale dalla cosiddetta crisi della metafisica e dal processo di demolizione e di ricostruzione nel quale è oramai impegnata.

3. Le ideologie che servivano spesso da livello intermediario sono esse stesse in crisi: siamo in una fase di riflusso ideologico su tutti i fronti; e si capisce perché, dal momento che l’ideologia è sovente il rifugio delle frasi vuote, degli alibi e delle menzogne. Ma c’è qualcosa di più grave: la società globale fa sempre meno ricorso alla proiezione di mire lontane e di ideali, e risolve sempre di più i suoi problemi sulla base della tecnicità presente. Nella società industriale gli interventi efficaci sono diventati essenzialmente un affare di specialisti, i quali non ragionano a partire dai grandi princìpi, ma sulla base di un empirismo ragionevole. I sistemi globali ereditati dal periodo ideologico – capitalismo, socialismo – sono trattati come delle strutture, dei dati di fatto, all’interno dei quali delle comunità hanno il compito di vivere e di sopravvivere: il problema è quello di mettere a punto dei meccanismi regolatori che permettano a quei sistemi di funzionare empiricamente nella maniera più coerente, ponendosi così ciascuno al riparo sia dalle crisi interne sia dalle azioni di rottura esercitate dall’esterno dal sistema rivale.

Il grande progetto di una morale sociale sistematica e coerente è così esploso in frantumi. La teologia biblica è riportata sul lato dell’esegesi, e si sente sempre più estranea all’elaborazione di princìpi immortali: si preoccupa piuttosto di rischiarare il senso dei comportamenti concreti degli uomini della Bibbia e di discernere il valore di testimonianza e di segno insito negli avvenimenti e nelle istituzioni del passato biblico. All’estremo opposto troviamo una tecnicità sempre più neutra e sempre più diffidente verso i princìpi, i valori, gli ideali. Il declino delle ideologie scava un po’ di più il vuoto tra i «segni» biblici e le «tecniche» di regolazione applicabili ai meccanismi economici e sociali.

Questa è la congiuntura che domina la nostra attuale ricerca. Che cosa fare in una tale situazione? Non credo ci si trovi più – o non ci si trovi ancora – nell’epoca delle grandi sintesi. Una costruzione totale e coerente sarebbe oggi un inganno. La sola via oggigiorno aperta è quella di un metodo per approssimazione e convergenza. Da un lato occorre cercare i punti discontinui, mutevoli, variabili secondo i tempi, in cui la predicazione si inserisce nella realtà sociale; dall’altro lato occorre partire dalle ricerche degli specialisti, che vertono su dei punti ben determinati – come il lavoro, l’impresa, l’informazione ecc. – e cercare non tanto di inserirli in un sistema, in una summa, quanto di mettere in risalto le loro affinità implicite con ciò che vi è di più concreto, e di più storico, nell’insegnamento biblico. In breve, occorre mettere in contatto diretto il concreto biblico con il concreto sociale.

B. Punti di incrocio

Partirei dai due punti estremi e opposti dove l’intento dell’azione risulta quanto mai chiaro.

1. A un estremo mi sembra si possa affermare che l’umanità è oggi l’unico soggetto della Storia. La Scrittura parla dell’uomo come di un essere generico: la creazione, la caduta, la redenzione riguardano l’uomo; Tu l’hai creato appena inferiore a un Dio, ecc. (cosa che non deve farci dimenticare che la Scrittura parla anche delle nazioni e dei popoli, degli individui che nomina, che chiama per nome: ci torneremo più avanti). Ma noi siamo la prima epoca che può dare un contenuto e un senso a questo progetto. Il destino dell’umanità come un unico soggetto è la figura che prende forma attraverso tutti i nostri dibattiti sulla fame nel mondo, sulla minaccia atomica, sulla decolonizzazione, sulla ricerca di un ordine mondiale e, forse più di ogni altra cosa, su quella che Perroux chiama l’«economia generalizzata». Però questa unità dell’umanità non si fa da sola, non funziona come una macchina cibernetica che si corregge o si ripara da sé: un grande scopo che si persegue attraverso ciò che chiamerei la patologia di questo essere generico. Ne conosciamo i segni. Nella stessa epoca in cui pensiamo l’umanità, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Alcune grandi potenze pretendono di regolare le sorti del mondo attraverso la spartizione delle influenze. Nazionalismi disgregatori si consolidano e si infiammano. Le ideologie, per riflusso, fanno a pezzi la razionalità economica al livello dei grandi scambi internazionali. L’economia mondiale dei bisogni è frenata dalle rivalità e dalle politiche di prestigio. Penso dunque che la nostra azione e il nostro pensiero sociale debbano concentrare la loro attenzione sulla volontà di far prevalere i bisogni dell’umanità considerata come un tutto: tale è il valore includente verso tutti i progetti particolari.

2. All’altro estremo, vedo un compito diverso: personalizzare al massimo le relazioni che nella società industriale diventano astratte, anonime, inumane. Occorre allora affrontare la morale sociale dal lato opposto, dove a contare sono le azioni concrete a partire da piccoli gruppi efficaci. La lotta contro la disumanizzazione, nei grandi complessi urbani, negli ospedali psichiatrici, negli ospizi per anziani, ecc., ci fornisce il modello di quella che si può chiamare un’«azione personalizzante». Come il precedente, anche lo scopo di questa azione costituisce un’utopia: che ciascun uomo si realizzi pienamente. Riprenderei volentieri la sentenza di Spinoza: «Più conosciamo le cose singolari, più conosciamo Dio». Per conto mio, una morale sociale non parte da un sistema, ma da un paradosso, e riguarda due cose opposte: la totalità umana e la singolarità umana. Le voglio entrambe. La loro realizzazione completa e non contraddittoria sarebbe il regno di Dio; è da lì che la morale sociale riceve la sua duplice motivazione, comunitaria e personalista.

3. A partire da questa iniziale polarità ci si può orientare nell’intervallo? Che cosa c’è tra l’umanità considerata come un tutto e la persona singolare? La questione è strana: tutto il sociale si distende tra questi due poli. Non bisogna lasciarsi obnubilare dal giudizio a livello ideologico: l’esercizio di un giudizio critico a livello dei sistemi sociali globali (capitalismo, socialismo, ecc.) è legittimo a condizione di non separare mai l’ideologia alla quale essi fanno appello e la pratica effettiva dei rapporti reali tra uomini reali. Così, importa discernere non tanto il diritto astratto di proprietà quanto il potere reale e il suo esercizio da parte di gruppi reali. Dobbiamo inoltre mettere sempre in comparazione solo ciò che è effettivamente comparabile e non, ad esempio, la forma reale di un sistema con la forma ideale dell’altro. Bisognerebbe, da questo punto di vista, riprendere tutte le nostre analisi sul socialismo per individuare esattamente il livello del nostro giudizio. I sistemi devono essere valutati molto concretamente in funzione del loro duplice intento: verso l’umanità totale e verso la persona singolare.

Come affrontare adesso in modo «cristiano sociale» le unità piccole e medie quali l’impresa, il ramo industriale, la pianificazione, il mercato comune, ecc.? Questo è il punto fondamentale del problema sociale, anche se risulta il più difficile. Intravedo soprattutto degli interrogativi: fino a che punto la tecnicità e l’automaticità delle regolazioni economico-sociali escludono un giudizio morale? Che presa può avere il giudizio morale? Quando lo formuliamo, a chi lo indirizziamo, chi lo comprende, chi può riceverlo e applicarlo? La domanda sul punto d’inserzione si pone qui in modo serio: su che cosa si può far forza? Infatti rischiamo a turno o di aumentare gli automatismi e la loro neutralità rispetto a ogni giudizio morale o, al contrario, di ignorare per ingenuità moralista i determinismi sociali sui quali si può intervenire. Mi pare che il problema si concentri sulla nozione di centro di decisione: delle considerazioni etiche si possono applicare nel punto in cui si prende la decisione. Le scelte del pianificatore mettono così in gioco una concezione dell’uomo, dei suoi bisogni, della sua destinazione.

Bisognerebbe vedere fino a che punto è possibile spingere una riflessione innescata dalla polarità enunciata in precedenza, che aspira insieme all’umanità totale e alla persona singolare. Fino a che punto possiamo ricavarne un criterio sicuro? Diremo ad esempio che il bene è contemporaneamente ciò che aumenta la comunicazione e che moltiplica le responsabilità? Sarebbe l’espressione, a livello medio, dei due progetti che abbiamo individuato alle due estremità dell’azione umana. Nel passato non abbiamo forse detto che la ricchezza è dannosa perché lacera la comunità, perché lega e isola? Le condizioni di un giudizio morale in materia sociale sarepertantobbero da ricercare pertanto non al livello della tecnicità, bensì delle motivazioni: che uomo vogliamo creare? Che uomo creiamo effettivamente? È con interrogativi di questo tipo che possiamo orientarci in modo critico nella riforma dell’impresa, nella pianificazione, nell’unificazione europea, ecc. Più che ai sistemi semplicemente addotti o pretesi, la domanda sull’uomo che si desidera e che si plasma conduce a porre maggiore attenzione alle relazioni effettive tra gli uomini.

C. Ricerche convergenti

Anche se non ci permettono di distinguere un progetto d’insieme, invece di migliorare una dottrina ingannevole – la quale è contestabile nel suo fondamento e contestata di fatto nella realtà –, dobbiamo piuttosto coordinare delle ricerche precise che siano l’espressione di una particolare competenza in un settore ben delimitato.

1. Teologia biblica. Un primo insieme, relativamente chiuso ma ben definito, è costituito dalla teologia biblica contemporanea di cattolici e protestanti, dove ciò che vi è di più valido non è – paradossalmente – la riflessione astratta sull’etica sociale dei profeti, del sermone della montagna, o delle lettere di Paolo. Nella Bibbia non ci sono princìpi o ideali nel senso di una morale teorica, ma imprecazioni, racconti, parabole, esortazioni, promesse, lodi che occorre comprendere secondo il loro senso proprio e nel loro contesto storico. Ad essere i più istruttivi per l’azione sono finalmente gli studi più concreti, più specifici, sul regno, il nuovo uomo, il mondo, il peccato, la legge, la vita secondo la carne e la vita secondo lo spirito. Siamo sicuri di trovarvi il nostro bene perché la Bibbia non conosce l’individuo nell’accezione della coscienza moderna, e si rivolge invece a un uomo che è sempre interpellato in quanto persona situata in una comunità concreta: nella Scrittura, infatti, non c’è distinzione tra morale privata e morale sociale e, per questo motivo, riceviamo ragguagli a proposito di ogni situazione concreta. Sarebbe quindi vano cercare nella Scrittura dei princìpi divini che dovrebbero poi permetterci di dedurre altri princìpi profani. L’articolazione da cercare è di un altro ordine: a livello della motivazione, dell’esemplarità e dell’analogia, il che è altra cosa rispetto a una deduzione astratta.

2. Le ricerche sull’uomo nella società industriale danno vita a un secondo gruppo di studi particolari che, per quanto non possa affatto venire dedotto dal precedente, ritengo ne sia il più vicino. All’interno si scorgono almeno quattro sottogruppi.

a) L’uomo e il lavoro. Gli studi migliori sono stati fatti, o sono ancora in corso, proprio in questo ambito. Si tratta in realtà di un insieme di ricerche molto discontinue, e che presuppongono per di più dei punti di vista differenti, ma ciò nonostante costituiscono un gruppo di convergenza. Partendo dal polo biblico e patristico ci si concentra sul significato del lavoro umano, mentre a partire dal polo tecnologico si studiano l’evoluzione del lavoro nelle società industriali, gli effetti della meccanizzazione e della frantumazione, il loro rapporto con la condizione del lavoratore dipendente, la gestione dell’impresa, il tempo libero. A questo proposito, il concetto di civilizzazione del lavoro è servito da «copertura» per degli studi validi, che esplorano le connessioni tra la teologia, l’etica, la sociologia e la tecnologia. Nel punto di confluenza di queste ricerche possono nascere degli elementi di giudizio; e penso se ne ricavino già alcuni criteri circa le condizioni in cui il lavoro rimane sensato, prima fra tutte l’impressione appunto che le questioni di senso e di non senso del lavoro siano oggi altrettanto importanti quanto quelle che riguardano la giustizia e l’uguaglianza. Anche in questo caso non bisogna tuttavia partire dall’astratto, ma dal concreto biblico e dal concreto umano.

b) L’indagine sui bisogni umani. L’uomo non persegue ciò che fa, ma ciò che desidera. In questa prospettiva i problemi di finalità sono affrontati con profitto. Anche in questo caso gli studi più concreti sono quelli che partono dai bisogni insoddisfatti nel pianeta (come il problema della fame nel mondo, ecc.), ossia dalla presa di coscienza dei bisogni nelle circostanze particolari della società industriale. Questo studio è sempre concreto poiché il bisogno umano muta a seconda dei regimi di appropriazione, delle sollecitazioni sociali (la pubblicità), dei valori tradizionali: una società in espansione non stimola allo stesso modo di una società stabile. Queste ricerche concrete possono essere abbinate a delle ricerche più teoriche sulla gerarchia tra bisogni vitali, bisogni personali, bisogni culturali, bisogni spirituali. In questo secondo sottogruppo di convergenza bisogna quindi mettere in conto anche l’esame delle finalità delle società moderne. A che cosa mirano: al benessere, all’autonomia delle persone? – e cosa significano adesso piacere, soddisfazione?

Qual è l’idea implicita della felicità? I regimi globali hanno lo stesso scopo? E, più radicalmente, anche la società industriale ha uno scopo o è invece un concatenamento di mezzi senza fini? Non ci si imbatte qui soltanto in problemi di valori – giustizia, libertà –, ma nella questione stessa della presenza o dell’assenza del senso. L’uomo moderno manca forse più di senso che di giustizia.

Questi studi permettono di sgomberare il campo dai tentativi poco felici di redigere dei cataloghi dei diritti dell’uomo – libertà, uguaglianza, ecc. –, che sono una proiezione arbitraria, in un dato momento, delle soddisfazioni raggiunte e delle rivendicazioni imminenti. Non bisogna di certo impegnarsi nel perfezionamento di questo catalogo.

c) Proprietà e socializzazione. Un terzo sottogruppo si colloca bene sotto il titolo Proprietà e socializzazione, preso in prestito da Economia e umanesimo. L’era industriale ha imposto delle modificazioni profonde al regime di proprietà individualista che ha preso forma agli inizi del XIX secolo. Le unità di produzione hanno assunto delle dimensioni collettive, conferendo ai loro detentori un potere economico esorbitante. Il fenomeno universale della socializzazione altera profondamente e complessivamente il regime dell’appropriazione privata. Che cosa ne consegue per l’uomo? Di nuovo, si può procedere solo mettendo insieme una riflessione su alcuni princìpi quali il diritto di utilizzo dei beni materiali per il sostentamento che compete a ogni uomo, o il primato della comunità sugli interessi individuali e dei gruppi (e così via); e, dall’altra parte, lo studio dell’evoluzione dei regimi giuridici nel mondo. Vengono infine delle ricerche concrete sull’esercizio del potere, i gruppi di pressione, i gruppi gestionali, gli organizzatori, ecc.

d) Tecnica e tecnologia. Essendo la prima società storica in cui la tecnica è il fenomeno predominante, si pone un problema specifico che la riguarda. Il carattere dominante della tecnica rende necessaria una riflessione della quale non si vedono a tutt’oggi i tratti coerenti. Ancora una volta, bisogna procedere per convergenze: da un lato una riflessione sul progetto d’insieme di una società che si concepisce come sfruttamento della natura e dominio della vita e dello psichismo; da un altro lato uno studio concreto attinente fenomeni quali la trasformazione del lavoro umano, l’industrializzazione del tempo libero e la cultura di massa.

3. Un terzo gruppo di ricerche è costituito dalla critica dei sistemi sociali globali: capitalismo, socialismo. Lo metto in terza posizione per rimarcare che la morale sociale non si limita a una criteriologia dei sistemi (il socialismo è meglio del capitalismo perché…). La critica non costituisce un problema unico, ma un insieme di problemi: da una parte c’è l’ideologia dei sistemi, vale a dire il modo in cui si sono rappresentati teoricamente nel pensiero dei loro fondatori, dei loro apologeti, dei teorici; dall’altra parte c’è la pratica dei sistemi, che porta a chiedersi ad esempio quali siano gli effettivi rapporti sociali in un regime capitalista piuttosto che socialista. Un giudizio sui sistemi deve tener conto di questa dialettica tra la teoria e la pratica, e quindi connettere le considerazioni sulla persona e sulla comunità con le strutture e le ideologie particolari. Le discussioni astratte sul diritto di proprietà, la giustizia distributiva, il profitto, la regolazione attraverso i bisogni anziché i servizi, o viceversa, non devono essere separate dalla loro interazione con le situazioni determinate: le monografie sui regimi particolari devono sempre correggere le dissertazioni sulle dottrine.

Un sottogruppo di problemi sembra oggi distinguersi: qual è il vero ruolo del regime sociale globale nelle società industriali? Esiste un problema della società industriale in quanto tale (problema di Raymond Aron)? Questa società crea una convergenza più grande rispetto alle divergenze dei sistemi, e a quale livello? Tali convergenze potrebbero infine venire imputate agli effetti di aggiustamento reciproco dei diversi sistemi gli uni verso gli altri, cioè a effetti di sincretismo – se così si può dire –, dal momento che una dose di liberalismo è stata iniettata nel collettivismo e che il collettivismo moderno assorbe dosi crescenti di socializzazione? O sono invece l’effetto dell’industrializzazione in quanto tale? Queste domande si riallacciano evidentemente alle riflessioni fatte sulla tecnica.

4. Un quarto gruppo di ricerche, le più disperse e tuttavia le più importanti per l’azione quotidiana, riguarda le unità di produzione: queste ricerche sono centrate sull’impresa, dove il giudizio morale è più difficile da esercitarsi. Nel proseguire, sarà un onere inevitabile domandarsi qual è il punto di applicazione della riflessione morale. Che cosa significa riforma dell’impresa? Come può prevalervi l’umano? E cosa significa l’umano nell’impresa?

La morale sociale delimita un livello di giudizio piuttosto che un sistema già costituito o da costituire. È lo spazio di una riflessione variegata, multidimensionale, discontinua. La convergenza di studi concreti vale sempre di più che la falsa logica del sistema.