1. ARCHITETTURA E NARRATIVITÀ1
Dato che mi è stato affidato il tema della memoria, comincerò spiegando come si collegano memoria e narratività.
Adotto la definizione più generale di memoria – tratta da un breve testo di Aristotele intitolato per l’appunto Della memoria e della reminescenza2, che riprende delle notazioni del Teeteto3 platonico riguardanti l’eikôn, l’‘immagine’: «Rendere presente l’assenza», «rendere presente l’assente». Adotto anche la distinzione tra due assenti: l’assente come mero irreale, vale a dire l’immaginario, e l’assente-che-è-stato, il precedente, l’anteriore, il proteron. Per Aristotele è quest’ultima la tipologia di assente che contraddistingue la memoria: fare memoria è rendere presente l’assenza-cheè-stata. Ai due estremi della storia dell’Occidente si riscontra una forte complicità di pensiero tra gli Antichi – con questo concetto dell’assenza resa presente e dell’anteriorità – e un motivo di Heidegger a cui tengo molto, nonostante la mia distanza dalla sua idea dell’essere-per-la-morte: l’idea che occorra sdoppiare il nostro concetto di passato in ciò che egli chiama il passato, il Vergangen, e ciò-che-è-stato, il Gewesen. Nello stesso tempo si rende giustizia alla definizione degli Antichi poiché il precedente-resopresente è grammaticalmente sottolineato due volte: non è più, ma è stato. E mi sembra che la gloria stessa dell’architettura sia rendere presente non tanto ciò che non è più, ma ciò che è stato attraverso ciò che non è più.
La narratività
Per quanto riguarda la narratività, durante alcuni studi di una decina d’anni fa (in Tempo e racconto4 ), mi era parso che la memoria si rapportasse contemporaneamente al linguaggio e ad alcune opere attraverso il racconto, attraverso il mettere-in-racconto. Il passaggio dalla memoria al racconto si realizza in questo modo: ricordarsi, sia privatamente che pubblicamente, equivale a dichiarare che «io ero là». Il testimone dice: «Io c’ero». E questo carattere dichiarativo della memoria si inscrive in testimonianze, in affermazioni, ma anche in un racconto attraverso il quale io dico agli altri ciò che ho vissuto.
Nella mia riflessione seguo quindi due presupposizioni: da un lato rendere presente l’anteriorità che è stata e dall’altro lato metterla in opera attraverso il discorso, ma anche attraverso un’operazione fondamentale di messa-in-racconto che identifico con la «configurazione».
Vorrei innanzitutto istituire un’analogia o, meglio, ciò che a prima vista sembra essere soltanto un’analogia: uno stretto parallelismo tra architettura e narratività, in cui l’architettura sarebbe per lo spazio ciò che il racconto è per il tempo, vale a dire un’operazione «configurante»; un parallelismo tra costruire, vale a dire edificare nello spazio, e raccontare, cioè intrecciare nel tempo.
Nel corso dell’analisi mi domanderò se non sia legittimo andare oltre l’analogia fino a delinearla come un vero e proprio intreccio, un intrico tra la «configurazione» architettonica dello spazio e la «configurazione» narrativa del tempo. In altri termini, si tratta di incrociare lo spazio e il tempo attraverso il costruire e il raccontare. Questo è l’obiettivo della ricerca: intersecare la spazialità del racconto con la temporalità dell’atto architettonico per mezzo dello scambio, in certo qual modo, di spazio-tempo nelle due direzioni. Al termine, seguendo la temporalità dell’atto architettonico, si potrà così ritrovare la dialettica della memoria e del progetto nel cuore stesso di questa attività. E nell’ultima parte della mia riflessione mostrerò soprattutto come il mettere-in-racconto proietti nel futuro il passato ricordato.
Tempo raccontato e spazio costruito
Tornando all’analogia tra architettura e narratività bisogna dire che in proposito non vi è nulla di evidente poiché sembra esserci un abisso a separare il progetto architettonico inscritto nella pietra, o in qualsiasi altro materiale duro, dalla narratività letteraria inscritta nel linguaggio: il primo si collocherebbe nello spazio, la seconda nel tempo. Da un lato il racconto offerto alla lettura, dall’altro la costruzione tra il cielo e la terra offerta alla visibilità, data a vedere. All’inizio lo scarto o l’«abisso logico» tra tempo raccontato e spazio costruito sembra essere notevole. È possibile tuttavia ridurlo progressivamente, sostando comunque ancora all’interno del parallelismo, se si considera che né il tempo del racconto né lo spazio dell’architettura si riducono a delle semplici frazioni del tempo universale e dello spazio geometrico.
Il tempo del racconto interviene nel punto di rottura e di sutura tra il tempo fisico e il tempo psichico, descritto da sant’Agostino nelle Confessioni5 come «dilatato», come distensione dell’anima tra ciò ch’egli definiva «il presente del passato» – la memoria –, «il presente del futuro» – l’attesa – e «il presente del presente» – l’attenzione. Il tempo del racconto è quindi una combinazione tra il tempo vissuto e quello degli orologi, tempo cronologico inquadrato dal tempo del calendario, che si porta dietro tutta l’astronomia. Alla base del tempo narrativo si trova questa combinazione tra il semplice istante, che è una frattura nel tempo universale, e il presente vivo in cui non c’è che un presente: l’adesso.
Allo stesso modo lo spazio costruito è una sorta di commistione tra i luoghi di vita che circondano il corpo vivente e uno spazio geometrico a tre dimensioni nel quale tutti i punti sono luoghi qualsiasi. Si potrebbe dire che anch’esso è contemporaneamente ricavato dallo spazio cartesiano – lo spazio geometrico in cui tutti i punti possono essere dedotti a partire da altri punti grazie alle coordinate cartesiane – e dal luogo di vita, spazio umano. Così come il presente è il fulcro del tempo narrativo, il luogo è il fulcro dello spazio creato, costruito.
Mi baso dunque su questo doppio radicamento, su questa parallela inscrizione in un tempo misto e in uno spazio misto. Come griglia di analisi propongo la successione delle tre fasi già percorse in Tempo e racconto e che avevo collocato sotto il titolo molto antico di mimesis – ri-creazione, rappresentazione creatrice: si parte dalla fase denominata «prefigurazione», in cui il racconto è inserito nella vita quotidiana, nella conversazione, senza ancora distaccarsene per produrre forme letterarie; segue poi la fase di un tempo veramente costruito, un tempo raccontato, che costituirà il secondo momento logico, vale a dire la «configurazione»; terminerò infine con ciò che, a livello della lettura e della rilettura, ho chiamato «rifigurazione».
Per quanto concerne il costruire, seguirò un movimento parallelo per mostrare come si possa passare da un momento, da uno stadio di «prefigurazione», collegato all’idea, all’atto di abitare – c’è qui una risonanza heideggeriana (abitare e costruire)6 –, a un secondo stadio più evidentemente interventistico – l’atto di costruire –, per giungere infine al terzo stadio della «rifigurazione»: la rilettura delle nostre città e di tutti i nostri luoghi d’abitazione.
Si può quindi affermare che al primo stadio l’abitare è il presupposto del costruire, al secondo il costruire si fa carico dell’abitare, ma tutto questo perché l’ultima parola sia lasciata a un abitare riflessivo, un abitare che recuperi la memoria del costruire. Questa è la linea di sviluppo dell’itinerario di riflessione proposto.
La «prefigurazione»
Nella fase della «prefigurazione» il racconto è praticato ben prima di essere messo in forma letteraria dai racconti degli storici, dalla finzione letteraria, dall’epopea alla tragedia, fino al romanzo moderno. La «prefigurazione» è quindi il «radicamento» del racconto nella vita, nella forma della conversazione ordinaria: in questa fase il racconto è coinvolto nella nostra presa di coscienza più immediata. Hannah Arendt, in Vita activa. La condizione umana7 , ne ha proposto una definizione molto semplice: la funzione del racconto è rivelare «il chi dell’azione». In effetti, quando vogliamo presentarci a un amico cominciamo proprio dal raccontargli una breve storia – «ho vissuto in questo modo, in quell’altro» – così da identificarci, nel senso di farci conoscere per chi siamo o per chi crediamo di essere. L’entrare in contatto che caratterizza il vivere insieme comincia, in sostanza, proprio con lo scambiarci racconti di vita. E questi racconti acquistano senso soltanto in uno scambio di memorie, di vissuti e di progetti.
A questo livello di pre-comprensione, il parallelismo tra la pratica del tempo e quella dello spazio è decisamente notevole. Prima ancora di ogni progetto architettonico, l’uomo ha costruito perché ha abitato. A questo proposito è inutile domandarsi se l’abitare preceda il costruire, perché si può dire innanzitutto che vi è un costruire correlato al bisogno vitale di abitare. Occorre quindi partire dall’insieme abitare-costruire, salvo dare la priorità al costruire sul piano della «configurazione» e, forse, di nuovo all’abitare nel momento della «rifigurazione», dato che il progetto architettonico ridisegna proprio l’abitare, che poi andremo a rileggere.
Influenzati dalla psicanalisi, alcuni autori vedono nel «circondare» l’origine dell’atto architettonico e nell’«inglobare» la funzione originale dello spazio architettonico: paradiso perduto, la matrice materna offre in effetti il suo involucro al desiderio umano, ma proprio come paradiso perduto. Dalla culla alla camera, al quartiere, alla città sarebbe possibile seguire il cordone ombelicale reciso. Questo cordone è stato tuttavia reciso alla nascita, e la sola nostalgia impedirebbe di vivere. Aperture e distanze hanno rotto l’incantesimo già al momento dell’ingresso all’aria aperta, con la quale ormai non resta che negoziare. Non si abbandona tuttavia il livello vitale e, in questo senso, pre-architettonico, se si caratterizza il costruire-abitare che emerge dal mondo della vita – dal Lebenswelt – con una varietà di operazioni che richiamano l’artificio architettonico: proteggere l’habitat con un tetto, delimitarlo con pareti, regolare i rapporti tra esterno e interno attraverso un gioco di aperture e chiusure, rappresentare con una soglia il superamento dei confini, indicare attraverso una specializzazione delle parti dell’habitat, in piano e in altezza, l’assegnazione a luoghi distinti delle varie attività della vita quotidiana, anzitutto la veglia e il sonno, attraverso uno studio appropriato, anche se sommario, di luci e ombre.
Non è tutto: non abbiamo ancora sottolineato dovutamente le operazioni del costruire che racchiudono l’atto del dimorare, del fermarsi e dell’installarsi che gli stessi nomadi non disdegnano, atto di un vivente già nato, lontano dalla matrice, alla ricerca di un sito all’aria aperta. Non abbiamo ancora menzionato le operazioni di circolazione, dell’andare e del venire, che comportano attività complementari a quelle finalizzate a fissare una dimora: il cammino, la strada, la via, la piazza fanno parte del costruire, nella misura in cui gli atti che guidano fanno anch’essi parte integrante dell’atto di abitare. L’abitare è fatto di ritmi, di arresto e di movimento, di stanziamenti e di spostamenti. Il luogo non è soltanto il vuoto in cui stabilirsi, come sosteneva Aristotele (la superficie interna dell’involucro), ma è anche l’intervallo da percorrere. La città è il primo involucro di questa dialettica tra dimora e dislocazione.
Dato che la casa e la città sono contemporanee nel costruire-abitare primordiale, il bisogno di architettura e quello di urbanistica nascono simultaneamente: come lo spazio interno dell’abitazione tende a differenziarsi, così lo spazio esterno dell’andare e del venire tende a specializzarsi in funzione delle attività sociali diversificate. A questo proposito, è impossibile individuare uno stato «naturale» dell’uomo: l’uomo cosiddetto «primitivo» si incontra sempre lungo la linea di frattura e di sutura tra natura e cultura.
Che ne è stato del parallelismo tra narratività e architettura in questa fase della «prefigurazione»? Quali segni di rinvio del racconto pre-letterario allo spazio abitato è possibile individuare? Innanzitutto, ogni storia di vita si svolge in uno spazio di vita. L’iscrizione dell’azione nel corso delle cose equivale a segnare lo spazio di avvenimenti che ineriscono alla disposizione spaziale delle cose. Ancora, e soprattutto, il racconto di conversazione non si limita a uno scambio di memorie, perché risulta essere coestensivo a percorsi che vanno di luogo in luogo. In precedenza si è richiamato Proust: la chiesa di Combray ne è, in qualche modo, il monumento di memoria. Ciò che Hannah Arendt chiamava «spazio pubblico di apparizione» non è solo uno spazio metaforico di parole scambiate, ma uno spazio materiale e terreno. Inversamente, sia esso spazio di stanziamento o spazio di circolazione, lo spazio costruito consiste in un insieme di gesti, di riti per le principali interazioni della vita. I luoghi sono posti in cui succede, accade qualcosa, in cui dei cambiamenti temporali seguono dei tragitti effettivi lungo intervalli che separano e ricollegano tra loro i luoghi: ho tenuto presente l’idea di cronotopo elaborata da Bachtin, composta dal topos, il ‘luogo’, il ‘sito’, e dal chronos, il ‘tempo’. Quel che viene delineandosi nella mia esposizione, e nella nostra storia, è proprio questo spazio-tempo raccontato e costruito: è proprio ciò che intendo mostrare. E, in questo caso, ho adottato l’idea sviluppata da Evelina Calvi nel suo saggio Tempo e progetto. L’architettura come narrazione8 .
La «configurazione»
Il secondo stadio del racconto, che definisco «configurazione», è quello in cui l’atto di raccontare si svincola dal contesto della vita quotidiana per addentrarsi nella sfera della letteratura, dapprima tramite la scrittura e poi attraverso la tecnica narrativa: cosa corrisponda sul lato del costruire a questa elevazione del racconto dalla vita quotidiana al livello della letteratura lo vedremo poi. Mi limiterò, in primo luogo, ad analizzare i tratti principali del racconto letterario per cercarne in seguito l’equivalente.
Prendo in considerazione tre idee che costituiscono peraltro una progressione nell’atto del raccontare.
La prima, già evidenziata in una precedente analisi, è la messa-in-intrigo (ciò che Aristotele definiva mythos, dove si privilegia la parte ordinata rispetto a quella fantastica): consiste nel creare una storia a partire dagli avvenimenti, nel raccoglierli in una trama – operazione che in italiano è felicemente traducibile con il termine intreccio (la tresse). Questo intreccio consente di riunire non soltanto degli avvenimenti ma anche degli aspetti dell’azione, e in particolare dei modi di produrla, con delle cause, delle ragioni di agire e anche delle casualità. Paul Veyne, nella sua descrizione della storia, raggruppa queste tre nozioni: causa, motivo o ragione, e casualità. Tutto ciò è contenuto nell’atto di fare-racconto. Si tratta quindi di trasformazioni regolate. In effetti, si può dire che un racconto trasforma una situazione iniziale in una situazione finale attraverso degli episodi: è quindi in atto una dialettica – di cui si vedrà l’interessante parallelismo con il costruire – tra la discontinuità di qualche cosa che accade all’improvviso e la continuità della storia che prosegue attraverso questa discontinuità; per questo ho adottato l’idea di un rapporto tra concordanza e discordanza. Ogni racconto contiene una sorta di concordanza-discordanza: può darsi che il racconto moderno accentui la discordanza a dispetto della concordanza, ma questo avviene sempre all’interno di una certa unità, se non altro perché vi è sempre una prima e un’ultima pagina del romanzo. Per quanto il romanzo moderno sia decostruito, c’è sempre una prima e un’ultima parola.
Dopo la messa-in-intrigo, la seconda idea è quella dell’intelligibilità: o, meglio, della conquista dell’intelligibilità, dato che i racconti di vita sono per loro natura confusi. Ho tenuto presenti le analisi di un giudice tedesco, il quale, confrontandosi con dei clienti, alcuni querelanti e altri accusati, ha constatato il carattere inestricabile delle storie. Aveva dato al suo libro il titolo Enchevêtrés dans des histoires, che il mio amico Jean Greisch ha tradotto con Empêtrés dans des histoires (Impigliati nelle storie)9 .
La narratività è quindi un tentativo di chiarificazione dell’inestricabile: in questo consiste la funzione dei modi narrativi, delle tipologie di intreccio. Di conseguenza l’oggetto della narratologia è tutto ciò che riguarda l’assetto del processo, l’artificio del raccontato. Questa scienza del racconto è possibile soltanto nella misura in cui sia stata effettuata una prima operazione riflessiva su ciò che succede, sugli avvenimenti, attraverso la messa-in-intrigo ma anche attraverso quegli archetipi di intreccio che sono le modalità narrative.
La terza idea è infine quella dell’intertestualità. La letteratura consiste precisamente nel mettere uno accanto all’altro e nel confrontare tra loro dei testi distinti gli uni dagli altri ma collegati da relazioni potenzialmente molto complesse nel tempo – d’influenza, ecc., ma anche di presa di distanza –, nella genealogia della scrittura o anche nella contemporaneità. Nella classificazione in ordine alfabetico di una biblioteca quel che colpisce di più è quanto possa contrastare la vicinanza di due libri. Spesso anche la città ha questa natura: una grande intertestualità che può diventare talvolta un grido d’opposizione.
Nel racconto moderno tutte le operazioni sempre più raffinate si innestano su questa intertestualità. L’introduzione dei cosiddetti «tropi» – le tipologie di stile, l’ironia, la derisione, la provocazione, e quindi la possibilità non solo di costruire, ma anche di decostruire – rappresenta, al limite, una modalità di utilizzo puramente ludica del linguaggio che, lontano dalle cose, celebra se stesso. In particolare il nuovo romanzo, una sorta di laboratorio di sperimentazione, che, allontanandosi – forse troppo – dalle costanti note del racconto, è divenuto esplorativo.
Riassumendo, l’atto di «configurazione» possiede una triplice ossatura: da una parte l’intreccio, che ho definito come «la sintesi dell’eterogeneo»; dall’altra l’intelligibilità, il tentativo di rischiarare l’inestricabile; infine il confronto tra più racconti posti l’uno accanto all’altro, per contrasto o in sequenza che sia, vale a dire l’intertestualità.
La «configurazione» del tempo attraverso il racconto letterario è una buona guida per interpretare la «configurazione» dello spazio attraverso il progetto architettonico. Tra i due atti poetici esiste molto più di un semplice parallelismo, perché si tratta di esibire la stessa dimensione temporale e narrativa del progetto architettonico. All’orizzonte di questa ricerca c’è, come già accennato, la manifestazione di uno spazio-tempo in cui i valori narrativi e quelli architettonici si scambiano. Per maggior chiarezza espositiva, si seguirà la stessa progressione dell’analisi precedente, partendo dal primo livello del fare narrativo, attraverso l’intrigo, fino al livello riflessivo dell’autocelebrazione del logos, dell’atto poetico nel momento ludico, passando attraverso i livelli dell’intertestualità e della razionalità narratologica. Seguendo questo asse verticale si vedrà il parallelismo rinserrarsi fino al punto in cui sarà legittimo parlare di narratività architettonica.
Al primo livello, quello del fare architettonico parallelo alla messa-inintrigo, il tratto principale dell’atto «configurante», cioè la sintesi temporale dell’eterogeneo, trova il suo corrispettivo in una sintesi spaziale dell’eterogeneo. Si è osservato che la plastica dell’edificio compone tra loro diverse variabili relativamente indipendenti: le cellule di spazio, le forme, le superfici limite. Il progetto architettonico mira a creare oggetti in cui questi differenti aspetti trovino un’unità sufficiente: concordanza discordante, «regolarità irregolari», che fanno in qualche modo esitare l’ordine. Un’opera architettonica è dunque un messaggio polifonico che si presta a una lettura al tempo stesso inglobante e analitica. Per l’opera architettonica vale lo stesso discorso fatto per l’intreccio che, come si è visto, non raggruppa solo avvenimenti, ma anche punti di vista, sotto forma di cause, motivi e coincidenze. L’intreccio era quindi sul punto di essere trasposto dalla dimensione temporale a quella spaziale attraverso la produzione di una quasi simultaneità delle sue componenti. La reciprocità tra il tutto e la parte, e la circolarità ermeneutica dell’interpretazione che ne risultava, trova un’esatta corrispondenza nelle reciproche implicazioni delle componenti dell’architettura.
D’altro canto, il racconto offre il suo modello di temporalità all’atto di costruire, di configurare lo spazio. Non è sufficiente dire che l’operazione del costruire richiede tempo: occorre aggiungere che ogni nuovo edificio presenta nella costruzione (al tempo stesso atto e risultato dell’atto) la memoria pietrificata del suo stesso costruirsi. Lo spazio costruito è tempo condensato.
Questo incorporare il tempo nello spazio si fa ancora più manifesto se si considera il lavoro simultaneo di «configurazione» dell’atto del costruire e dell’atto dell’abitare: le funzioni abitative sono continuamente «inventate» – nei due significati del termine (trovare e creare) – in contemporanea alle operazioni costruttive inscritte nella plastica dello spazio architettonico. Si può dire che l’atto di abitare e la costruzione risultante dall’atto di costruire si plasmano nello stesso tempo. Il reciproco rinvio delle funzioni abitative e delle formazioni costruttive consiste in un movimento o in una catena di movimenti dell’intelligenza architettonica investita nella mobilità dello sguardo che percorre l’opera. Dal racconto all’edificio, è la stessa coerenza discordante che occupa la mente del narratore e quella del costruttore che si appella – come si dirà più avanti – alla mente del lettore dei segni inscritti.
Il secondo parallelo al livello della «configurazione» riguarda l’intelligibilità, il passaggio dall’inestricabile al comprensibile. È infatti l’iscrizione che trasferisce nello spazio l’atto «configurante» del racconto, l’iscrizione di un oggetto che dura grazie alla sua coesione, alla sua coerenza (narrativa, architettonica). Se la scrittura conferisce durata alla cosa letteraria, la durezza del materiale assicura durata alla cosa costruita. Duratadurezza: un’assonanza ormai evidenziata e commentata più volte. Si può passare quindi a un secondo livello, già riflessivo in rapporto al fare sorpreso all’opera, per prendere coscienza della portata della vittoria provvisoria sull’effimero implicata dall’atto di costruire.
Al primo stadio di riflessione, la temporalità riguarda la storia della composizione architettonica. Non si tratta tuttavia della storia scritta a posteriori sull’architettura, ma della storicità conferita all’atto «configurativo» dal fatto che ogni nuovo edificio sorge in mezzo a edifici già costruiti che presentano lo stesso carattere di sedimentazione dello «spazio» letterario. Come il racconto ha il suo equivalente nell’edificio, così il fenomeno dell’intertestualità corrisponde all’insieme di edifici già esistenti che contestualizzano la nuova costruzione. La storicità propria a questa contestualizzazione deve essere ancora una volta ben distinta da una storia retrospettiva. Si tratta della storicità dell’atto stesso di inscrivere un nuovo edificio in uno spazio già costruito che coincide largamente con il fenomeno della città, la quale deriva da un atto «configurante» relativamente distinto secondo il differenziarsi di architettura e urbanistica.
Il rapporto tra innovazione e tradizione si sviluppa al centro di questo atto di iscrizione. Come tutti gli scrittori scrivono «dopo», «secondo» o «contro», tutti gli architetti si misurano con una tradizione consolidata. E nella misura in cui il contesto costruito conserva la traccia di tutte le storie di vita che hanno scandito l’atto di abitare dei cittadini di un tempo, il nuovo atto «configurante» progetta nuovi modi di abitare che si inseriranno nel groviglio di quelle storie di vita concluse. La lotta contro l’effimero acquista così una nuova dimensione: non è più contenuta nel singolo edificio, ma nel rapporto degli edifici tra di loro.
Occorre infatti parlare anche di distruggere e di ricostruire. Non si è distrutto soltanto per odio dei simboli di una cultura, ma anche per negligenza, disprezzo o ignoranza, per sostituire qualcosa che non piaceva più con ciò che è suggerito o imposto dal nuovo gusto. Ma al tempo stesso si è altresì pietosamente ristrutturato, conservato e ricostruito, a volte in maniera identica, come nell’Europa dell’Est dopo le ingenti distruzioni delle guerre del XX secolo (si pensi a Dresda). L’effimero non si trova soltanto sul lato della natura, a cui l’arte sovrappone la sua durata-durezza, ma anche sul lato della violenza della storia, e minaccia dall’interno il progetto architettonico considerato nella sua dimensione «storica». In particolare alla fine di questo orribile XX secolo, con tutte le rovine ancora da integrare nella storia in corso (peraltro vi sono delle belle riflessioni di Heidegger sulla rovina, scritte prima della Seconda Guerra Mondiale sulla scia del romanticismo tedesco). Confrontando le idee di traccia, residuo e rovina, altre riflessioni condotte da alcuni interpreti del progetto architettonico in tono minore possono avvalersi dello spettacolo offerto a tutti dalla nuova precarietà, che la storia aggiunge alla vulnerabilità già comune a tutte le cose del mondo.
Passando ora a un livello più elevato di riflessione, l’architettura presenta una teorizzazione in tutto e per tutto paragonabile a quella in cui, sul lato del racconto, la razionalità si tramuta in gioco ragionevole e il racconto tende al ludico. Si può addirittura affermare che la composizione architettonica non ha mai smesso di stimolare la speculazione, mentre la storia interviene ora a livello di valori formali opponendo uno stile all’altro. Il fatto che la teorizzazione architettonica non si basi soltanto sull’atto del costruire, ma anche sul suo rapporto presuntivo con l’atto dell’abitare e con i bisogni ad esso connessi, conferisce alle questioni accademiche nel campo dell’architettura un carattere particolarmente drammatico. Delle dottrine tra loro in competizione si possono dunque fare due diverse letture.
Secondo la prima lettura, le preoccupazioni formali che prevalgono in un certo stile o in una certa scuola devono essere rapportate a quel che lo strutturalismo rappresenta in narratologia, e perciò al formalismo, con il rischio che le preoccupazioni ideologiche del costruttore prevalgano sulle aspettative e sui bisogni che derivano dall’atto di abitare. La storia sedimentata delle forme culturali si può leggere soprattutto nella «configurazione» della città, attraverso il suo spazio urbano organizzato in modo rappresentativo. La monumentalità assume allora il suo significato etimologico principale, per cui monumento è sinonimo di documento. Ora, questa prima lettura non si limita a interpretare delle «configurazioni» sedimentate del passato, ma si proietta anche verso il futuro dell’arte di costruire, verso ciò che merita a pieno titolo la definizione di progetto architettonico. In un passato recente, infatti, da cui gli attuali costruttori si sforzano di prendere le distanze, i membri del Bauhaus, i fedeli di Mies van der Rohe, di Le Corbusier, hanno pensato la loro arte di costruttori in relazione con i valori di civiltà ai quali aderivano, in funzione del ruolo che attribuivano alla loro arte nella storia della cultura.
In base alla seconda lettura, il formalismo concettuale trova il suo limite nelle rappresentazioni che i teorici si fanno dei bisogni delle popolazioni. In un certo senso questa preoccupazione è sempre esistita, ma in un passato non troppo remoto venivano prese in considerazione soltanto le attese di una determinata categoria di abitanti (prìncipi, dignitari religiosi, a seguire i grandi borghesi) e il bisogno di fastosa esibizione delle istituzioni dominanti. L’epoca contemporanea si contraddistingue certamente per la presa di coscienza delle necessità delle masse, della folla, che anch’esse a loro volta guadagnano in visibilità, ma sotto il segno della dignità più che della gloria. Non si giunga tuttavia alla conclusione che questo approccio al progetto architettonico sia meno ideologico del precedente: troppo spesso, infatti, a influenzare la speculazione sulla destinazione dell’architettura non è il bisogno di abitare delle suddette masse ma la rappresentazione che se ne costruiscono i «competenti» – e i grattacieli ne sono il segno. Questo spiega la reazione contraria di coloro che auspicano un ritorno all’architettura pura, svincolata da ogni sociologia e da ogni psicologia sociale, vale a dire da ogni ideologia. Ci si trova quindi di fronte a una rivendicazione simile a quella avanzata dai teorici del nuovo romanzo, tramite la celebrazione del linguaggio per se stesso, dove le «parole» si dissociano irreversibilmente dalle «cose» e la rappresentazione lascia spazio al gioco. Narratività e architettura seguono dunque dei corsi storici simili.
La «rifigurazione»
Concludo con alcune riflessioni su ciò che nelle mie categorie letterarie ho chiamato «rifigurazione», e di cui vorrei mostrare il parallelo sul lato dell’architettura. Con questa terza componente, che corrisponde alla lettura sul lato del racconto, l’avvicinamento tra racconto e architettura si fa ancora più stretto, fino al punto in cui il tempo raccontato e lo spazio costruito si scambiano i loro significati.
Mettendosi in un primo tempo dalla parte del racconto, bisogna dire che esso conclude il suo percorso non nell’ambito del testo scritto, ma nel suo confronto diretto con il lettore, protagonista dimenticato dallo strutturalismo. Questo spostamento d’accento dalla scrittura alla lettura lo dobbiamo all’estetica della ricezione, inaugurata da H.R. Jauss e dalla scuola di Costanza: la negazione della referenzialità tipica dei teorici che seguono De Saussure viene così compensata dal riconoscimento della dialettica tra scrittura e lettura. Si tratta infatti proprio di dialettica: ripreso e assunto nell’atto di leggere, il testo dispiega la sua capacità di chiarire o d’illuminare la vita del lettore. Possiede la facoltà di scoprire, di rivelare ciò che è nascosto, il non-detto di una vita sottratta all’esame socratico, ma al tempo stesso anche la facoltà di trasformare l’interpretazione banale fatta dal lettore secondo il declivio della quotidianità. Rivelare (secondo un senso della verità a cui Heidegger ci ha reso sensibili), ma anche trasformare, ecco cos’è in grado di fare il testo al di là di se stesso.
Questa dialettica è passibile tuttavia di una duplice interpretazione, dato che il lettore giunge al testo con le proprie aspettative: queste aspettative sono esaminate e confrontate con le proposizioni di senso del testo durante la lettura, che può attraversare tutte le fasi, dalla ricezione passiva, o perfino coatta (Madame Bovary, la lettrice di cattivi romanzi!), fino alla lettura reticente, ostile, collerica, prossima al rifiuto scandalizzato, passando per la lettura attivamente complice. Tengo a sottolineare che grazie a questa lettura agonistica l’intertestualità si lascia incontrare come una grande sfida: quello che per il creatore era un problema di posizionamento rispetto ai suoi pari, per l’appassionato diventa un problema di lettura plurale, polemica. Si vede già quale apertura si produca così, dalla parte del possibile, nella comprensione di sé.
Per quanto riguarda il costruire abbiamo incontrato, nello stesso tempo, la possibilità di leggere e di rileggere i nostri luoghi di vita a partire dal nostro modo di abitare: la forza del modello della lettura è grande al fine di rivalutare l’atto di abitare. Nel momento della «prefigurazione», abitare e costruire sono stati praticamente la stessa cosa, ed era impossibile stabilire quale dei due precedesse l’altro. Nel momento della «configurazione», il costruire ha avuto la meglio sotto forma di progetto architettonico, al quale si è potuto rimproverare un’inclinazione a misconoscere i bisogni degli abitanti o a proiettare questi bisogni in una loro rappresentazione mentale.
È ora di parlare dell’abitare come risposta, o perfino come reazione al costruire, sul modello dell’atto antagonista della lettura. Affinché un progetto architettonico venga compreso e accettato non basta infatti che sia ben pensato e ritenuto razionale. Ogni pianificatore dovrebbe allora essere consapevole che un abisso può separare le regole di razionalità di un progetto dalle regole di ricezione da parte di un pubblico – cosa valida d’altronde per ogni politica. Occorre dunque imparare a considerare l’atto di abitare come un centro non solo di bisogni ma anche di aspettative. E così può essere riproposto lo stesso ventaglio di risposte, dalla ricezione passiva, subìta, indifferente, fino alla ricezione ostile e corrucciata (anche per la Torre Eiffel, all’epoca!).
Abitare come replica del costruire. Come la ricezione del testo letterario comporta un tentativo di lettura plurale, di approccio paziente all’intertestualità, così l’abitare ricettivo e attivo implica una rilettura attenta dell’ambiente urbano, un riapprendimento continuo della giustapposizione degli stili, e quindi anche delle storie di vita di cui recano traccia tutti i monumenti e gli edifici. Fare in modo che queste tracce non siano soltanto dei resti, bensì delle testimonianze riattualizzate del passato che non è più ma che è stato, fare in modo che l’esser-stato del passato sia salvaguardato nonostante il suo non-essere-più: è quanto può la «pietra» che dura.
In conclusione, abbiamo ricostruito l’idea divenuta un po’ banale di «luogo di memoria», ma come composizione ragionata e riflessiva dello spazio e del tempo. A essersi assommate e conservate nei luoghi in cui sono inscritte sono in effetti memorie di epoche differenti. Questi luoghi di memoria richiedono inoltre un lavoro della memoria, nel senso in cui Freud oppone tale lavoro alla ripetizione ossessiva, definita «coazione alla ripetizione», dove è annullata la lettura plurale del passato e reso impossibile l’equivalente spaziale dell’intertestualità.
Stesso gioco, quindi, per la cosa costruita e per il testo letterario perché, in entrambi i casi, si agita un antagonismo tra i due tipi di memoria: per la memoria-ripetizione ha valore solo ciò che è ben conosciuto, mentre il nuovo risulta odioso; per la memoria-ricostruzione la novità deve essere accolta con curiosità e con la preoccupazione di riorganizzare l’antico per far posto al nuovo. Non si tratta, in altri termini, se non di de-familiarizzare ciò che è familiare e di familiarizzare il non-familiare. Vorrei concludere con questa lettura plurale delle nostre città, ma non senza aver detto che il lavoro di memoria (preferisco l’espressione «lavoro di memoria» a «dovere di memoria» dal momento che, essendo il lavoro di memoria un’esigenza di vita, non capisco perché mai la memoria dovrebbe essere un dovere) non è possibile senza un lavoro di lutto.
Ho fatto riferimento alle rovine dell’Europa della metà del secolo. Oltre che di monumenti andati distrutti, e di vite perdute, si tratta anche di epoche, perché si è smarrito il modo di comprendersi di allora: occorre dunque elaborare il cordoglio della comprensione totale e ammettere che nella lettura delle nostre città vi è dell’inestricabile. Le nostre città alternano la gloria e l’umiliazione, la vita e la morte, gli eventi fondatori più violenti e la dolcezza di vivere. Questa è la sintesi che è possibile fare della loro lettura.
L’ultima parola la lascio a Walter Benjamin, pensatore che ammiro profondamente. In Parigi, capitale del XIX secolo egli scrive: «Il flâneur cerca un asilo nella folla. La folla è il velo attraverso il quale la città familiare appare al flâneur come fantasmagoria»10. Dobbiamo essere i flâneur dei luoghi di memoria.