2. LA CITTÀ È FONDAMENTALMENTE IN PERICOLO LA SUA SOPRAVVIVENZA DIPENDE DA NOI*1
A che titolo un filosofo può intervenire oggi nella vita pubblica? Con quale scopo? Con quali mezzi?
In materia di politica non possiamo aspettarci da un filosofo un discorso realmente dimostrativo. Conviene innanzitutto liberarsi dall’illusione che possa esistere una politica scientifica: il marxismo-leninismo si è rivelato colpevole, e non solo fallace, proprio nel far credere che potesse esistere un socialismo scientifico. Il genere di conoscenza che possiamo raggiungere in questo ambito non appartiene all’ordine del sapere scientifico.
Certamente esistono delle «scienze politiche», ma si tratta di discipline essenzialmente descrittive che studiano, ad esempio, il funzionamento dei regimi costituzionali o i comportamenti elettorali. Le loro ricerche non mirano assolutamente a elaborare una conoscenza realmente scientifica dei princìpi e dei meccanismi di potere, cosa che è a rigore impossibile.
Tuttavia questo non significa affatto che il discorso politico sia consegnato all’arbitrio. In uno dei saggi di Lectures I2 , ho proposto di collocarlo al livello retorico; non si tratta di un modo per screditarlo, anzi, al contrario, in questo livello si risollevano le sorti di argomenti che, senza elevarsi al piano della dimostrazione, della prova logica o scientifica, non scadono in quello della sofistica, in cui si cerca di estorcere l’accordo altrui tramite l’adulazione o l’intimidazione. Tra dimostrare e sedurre c’è spazio per argomenti probabili oppure, se si preferisce, verosimili o semplicemente plausibili. A questo livello, la persuasione viene ricercata per mezzo di una discussione regolata. Credo dunque che esista una buona retorica, e che il discorso politico possa collocarsi a questo livello.
Questo collegamento tra la retorica e la discussione, però, non risponde ancora alla domanda: a che titolo un filosofo può oggi intervenire nella discussione politica?
Se si riconosce che la democrazia è il regime politico basato su una discussione pubblica a cui partecipa il maggior numero possibile di cittadini, la sua domanda è al contempo una domanda sulla democrazia. Detto ciò, occorre innanzitutto interrogarsi sulle poste in gioco di una tale discussione pubblica, ed è in questo che la filosofia può intervenire.
Per quanto mi riguarda ho cercato di distinguere, nella discussione pubblica, le poste in gioco più vicine da quelle a medio termine e a lungo termine.
Per capire in cosa consistano le poste in gioco più vicine si parta da questa idea: le società industriali avanzate possono essere considerate degli operatori di distribuzione. Ma troppo spesso si dimentica che distribuiscono beni eterogenei: alcuni sono beni di mercato (redditi, patrimoni, servizi, ecc.), altri sono beni che non possono essere né comprati né venduti (educazione, sanità, sicurezza, impiego pubblico, cittadinanza, ecc.). Vi è quindi una pluralità di beni qualitativamente differenti tra i quali non è possibile individuare nessuna priorità che si imponga di per sé come un’evidenza assoluta o come un ordine delle cose.
Il primo obiettivo dell’intervento del filosofo può perciò essere quello di fare acquisire la consapevolezza dell’esistenza di questa situazione: i beni da distribuire sono eterogenei e nella scelta delle priorità non vi è nessun ordine che si impone.
La scelta deve essere quindi oggetto di una discussione: quale ordine di priorità risulta preferibile alla maggior parte delle persone in una data società? Un compito di chiarificazione che mi sembra spetti al filosofo consiste nel far comprendere la natura di tale scelta e delle sue poste in gioco.
Ma questo è soltanto un primo livello del suo intervento…
Infatti. Il secondo livello, vale a dire quello delle poste in gioco medie o intermedie, consiste nel comprendere secondo quali princìpi viene impostata la scelta di ciò che è preferibile. Si incontrano quindi dei termini fortemente sovraccarichi di ideologia: giustizia, libertà, uguaglianza, fraternità… Alcuni rappresentanti della filosofia analitica hanno considerato queste nozioni come irrevocabilmente corrotte dall’ideologia e ritengono che la riflessione filosofica dovrebbe estrometterle dalle proprie preoccupazioni. Io non condivido questa posizione.
Penso al contrario che sia possibile progredire efficacemente nella distinzione dei differenti significati di questi termini. Un secondo compito della chiarificazione filosofica consiste nel dipanare i significati multipli e talvolta intricati di questi concetti depositari di una lunga storia, nel far riemergere i loro diversi aspetti e mostrare in cosa si differenziano e, a volte, si sovrappongono (per esempio, il concetto di libertà può sovrapporsi in parte al concetto di uguaglianza). I discorsi politici utilizzano quotidianamente questi termini senza la consapevolezza che in essi si affiancano molteplici elementi talvolta incompatibili tra loro.
Qual è l’ultimo livello, ossia la posta in gioco più lontana dell’intervento del filosofo?
È quello che riguarda l’orientamento generale, la scelta globale delle nostre società – come, ad esempio, la scelta di una crescita e di un consumo illimitati. In questo caso, l’azione del filosofo non può limitarsi semplicemente a una chiarificazione dei concetti: l’analisi deve essere necessariamente accompagnata da una scelta, da una preferenza intima in favore della quale il pensatore si schiera personalmente. In effetti, concetti fondamentali come quelli di giustizia, di uguaglianza, di libertà, ecc. hanno un contenuto intellettuale tale da poter costituire l’oggetto di analisi teoriche. Ma d’altro canto il loro significato assume valore soltanto se vi si aderisce per intima convinzione. È per questo che se ne parla in termini di «valori».
Questi valori esisterebbero dunque solo grazie a una fede in essi?
Non è così semplice. Non si può dire che i valori siano inventati da coloro che vi credono. Lo statuto dei valori è in effetti molto particolare e difficile da comprendere: gli uomini politici se ne dimenticano troppo spesso quando fanno riferimento ai «valori repubblicani» o ai «valori della democrazia», come se queste espressioni fossero di per sé chiare e non sollevassero nessuna difficoltà.
La nozione di valore ha uno statuto particolare per due motivi. In primo luogo, combina in modo singolare l’oggettività e la soggettività: da un lato un valore si impone a qualcuno con una certa autorità, come un elemento ereditato per tradizione, e in questo senso è provvisto di oggettività; dall’altro lato il valore non esiste realmente se non perché vi si aderisce, come se l’essere convinti della sua validità fosse anche la condizione della sua effettiva esistenza.
In secondo luogo, i valori si collocano a metà strada tra le convinzioni durevoli di una comunità storica e i continui ripensamenti richiesti dai cambiamenti di epoca e di circostanze, con l’emergere di nuovi problemi come quelli ambientali, dell’applicazione delle tecnologie biologiche al controllo della vita, dell’economia su scala mondiale, ecc.
Per illustrare questa seconda particolarità dei valori, si può fare riferimento a ciò che vede un passeggero dal finestrino di un treno: il paesaggio scorre, ma non tutti i piani scorrono alla medesima velocità; gli orizzonti lontani scivolano lentamente mentre le scarpate vicine passano a gran velocità. Dal mio punto di vista, i valori sono in una posizione intermedia e specifica, della quale nei dibattiti attuali ci si dimentica troppo spesso: i dogmatici confidano con eccessiva tranquillità nell’immobilità dell’orizzonte; i nichilisti sottolineano con troppa facilità la scomparsa istantanea di ciò che appare in primo piano e la fragilità dei valori. Ritengo al contrario che le grandi categorie direttive del politico si collochino a metà strada tra questi due estremi: non passano in un battito di ciglia, ma si inseriscono in un lungo periodo; d’altro canto sono anche essenzialmente corruttibili e per rispondere alle mutazioni molto rapide della nostra storia devono essere continuamente riattualizzate.
Significa che ne siamo responsabili?
Esattamente, ma secondo un’accezione nuova e particolare dell’idea di responsabilità che dobbiamo al filosofo Hans Jonas. Fino ad ora si attribuiva la responsabilità a qualcuno soltanto per atti passati dei quali era riconosciuto essere l’autore e che potevano quindi venirgli imputati. All’opposto, Hans Jonas, neprincipio Il principio responsabilità3 , elabora l’idea di una responsabilità rivolta al futuro lontano: ci è affidato qualcosa di essenzialmente fragile; l’oggetto della responsabilità – afferma Jonas – è minacciato in quanto tale, che si tratti della vita o dell’equilibrio del pianeta.
Ma si tratta anche della città. La città è fondamentalmente in pericolo. Come è stato sottolineato da Hannah Arendt, la sua sopravvivenza dipende da noi. In effetti nessun sistema istituzionale si mantiene nel tempo senza il sostegno di una volontà di vivere insieme, che è in atto ogni giorno anche se ce ne dimentichiamo. Se viene a mancare questa volontà, tutta l’organizzazione politica crolla molto rapidamente – il nostro secolo ce ne ha forniti molteplici esempi, in particolare in occasione di grandi sconfitte.
Ritiene che la crescente indifferenza verso la vita politica nasconda questo rischio?
Si potrebbe essere tentati di trattare questa forma di astensionismo con indulgenza. Negli Stati Uniti parecchi cittadini, e tra questi molti studenti, si dispensano dal partecipare alla cosa pubblica in quanto sono convinti che le loro istituzioni abbiano un’esistenza sufficientemente solida. È un errore: la città non esiste mai grazie alla sola inerzia del suo sistema istituzionale. Hannah Arendt distingue acutamente l’autorità dal potere: l’autorità dipende da un sistema istituzionale che fa sempre riferimento a un passato, a delle istituzioni più antiche le quali non possono che «aumentare» il potere. Il potere, al contrario, è in un certo senso istantaneo: esiste qui ed ora, fintanto che noi lo vogliamo insieme. L’oggetto della nostra responsabilità è proprio il dare continuità e rinnovare questo volere.
Responsabilità soltanto politica o anche morale? Le due sono separabili?
Queste due responsabilità sono indissociabili, ma ancora una volta in un senso particolare. Ciò che caratterizza l’ambito politico non è né l’etica né la morale – la cui distinzione non ha importanza in questo contesto – ma l’esistenza di mediazioni istituzionali. Il politico sorge nel momento in cui una comunità storica si organizza al fine di acquisire la capacità di prendere delle decisioni collettive. Il «voler vivere insieme» viene trasposto su un nucleo istituzionale che è più forte rispetto a ciascuno: l’esistenza dello Stato si basa quindi su una sorta di disappropriazione degli individui. Questo spossessamento è fondativo, e in tal senso necessario, ma nel contempo genera le forme specifiche del male politico. Il politico, infatti, è predisposto a dei mali caratteristici per il fatto stesso che sembra capace di esistere al di sopra di noi o, al limite, contro di noi. In quanto puro fenomeno di potere può perciò corrompersi, indipendentemente dalla sua base sociale ed economica.
Per questo il politico deve rimanere sotto sorveglianza. Merita qui di essere sottolineata l’eredità del pensiero liberale: conviene diffidare degli abusi del politico e vigilare nel controllo, dividendolo contro se stesso, mettendo in gioco dei contro-poteri contro il potere stesso. Su questo punto Montesquieu è stato più chiaro di Rousseau. Ai mali specifici del politico deve rispondere una terapeutica appropriata.
I benefici connessi all’istituzionalizzazione del «volere politico» comporterebbero quindi come contropartita il rischio di assoggettamento o di dominio incontrollato.
Sì. E quest’ultimo può assumere forme in apparenza moralmente neutre. Al giorno d’oggi, ad esempio, deleghiamo agli esperti le decisioni riguardanti i problemi economici, finanziari, fiscali, ecc.: ci viene detto infatti che questi settori sono diventati talmente complessi che occorre affidarsi ai giudizi di coloro che hanno competenza in materia. Con questo, in realtà, si realizza una sorta di espropriazione del cittadino: la discussione pubblica si trova così catturata e monopolizzata dagli esperti.
Non si tratta di negare che esistono settori nei quali per risolvere i problemi sono necessarie competenze giuridiche, finanziarie o socio-economiche molto specializzate. Si tratta invece di ricordare anche, e con molta fermezza, che per quanto riguarda la scelta delle poste in gioco globali gli esperti non sono più compenti rispetto a ciascuno di noi. Occorre recuperare, dietro quei falsi misteri, la semplicità delle scelte fondamentali.
Nei settori richiamati all’inizio, questo equivale a definire delle priorità nella distribuzione dei beni molteplici e fra loro non sempre commisurabili, a chiarire i criteri generali che determinano queste scelte e, infine, a mettere in discussione l’orientamento globale della nostra civilizzazione. Mi sembra che in questo gli esperti stessi siano alla ricerca di chiarimenti e di consigli.
In ogni caso, non sono più qualificati di noi e le decisioni di fondo non possono spettare esclusivamente a loro. Il compito di un educatore politico è anche quello di re-immettere costantemente nel flusso della discussione pubblica ciò che viene monopolizzato abusivamente dagli specialisti.
Al giorno d’oggi, dopo il crollo delle grandi speranze rivoluzionarie, vi sono modelli capaci di sostituire quello della crescita e del consumo?
In un primo tempo, la morte delle ideologie può suscitare scoraggiamento o smobilitazione. Questo fenomeno, però, è superficiale e addirittura fittizio, in quanto noi attendiamo sempre qualcosa. Come ha affermato il filosofo Koselleck, la coscienza storica degli individui o delle comunità si regge sul contrasto tra un orizzonte di attesa nel quale ci proiettiamo e uno spazio d’esperienza nel quale siamo radicati. Che cosa significa questo per noi europei?
L’Europa ha la fortuna di essere intessuta di molteplici tradizioni: eredità giudaica e cristiana, greca e latina, umanesimo rinascimentale e della Riforma, progetto illuministico e socialismi del XIX secolo. Nessuna di queste tradizioni è sfuggita alla critica, ma al tempo stesso nessuna si è veramente esaurita né totalmente compiuta: occorre ripensarle in funzione delle nuove esigenze della Storia, poiché una tradizione è viva soltanto se fornisce spunti d’innovazione, se rappresenta una risorsa da reinterpretare e non un’eternità rappresa.
Abbiamo alle spalle così tanti progetti incompiuti, così tante promesse ancora non mantenute, da poter costruire un futuro attraverso la rivivificazione di queste molteplici eredità. Per uno strano paradosso, le utopie più forti possono derivare soltanto da ciò che nelle nostre tradizioni è rimasto incompiuto e che permane come una risorsa di significato, come una riserva di senso. Le utopie future non possono sorgere dal nulla, e non potrebbero nemmeno derivare direttamente dal passato: ma sarebbero senza forza se non recuperassero ciò che non si è ancora esaurito di questo molteplice passato.
Per esempio?
Al giorno d’oggi l’idea di perdono, d’origine teologica, ha delle implicazioni politiche straordinarie! Non dobbiamo confinarla soltanto nell’ambito delle relazioni interpersonali. Il cancelliere Brandt che si inginocchia a Varsavia, o Václav Havel che scrive al presidente tedesco per chiedere perdono per ciò che i cechi hanno compiuto nei Sudeti tra il 1945 e il 1948, sono gesti che mi sembrano avere una notevole importanza per la costruzione della dimensione culturale e spirituale dell’Europa. Dobbiamo diventare capaci di scambiare le nostre memorie nazionali o etniche e di esercitare gli uni verso gli altri sia la volontà di non dimenticare, sia quella di perdonare, vale a dire di liberare la memoria altrui dal peso della colpevolezza!
* Intervista di Roger-Pol Droit.