4.
ITINERANZA. ERRANZA. SRADICAMENTO
Bisogna dunque fare il cordoglio della comprensione
totale
e ammettere che nella lettura delle nostre città
vi è qualcosa di inestricabile.
PAUL RICŒUR, Architettura e narratività
Costruire per costruire tuttavia non basta
per abitare.
Una cultura del vivente deve accompagnare ciò che non cresce da
sé.
LUCE IRIGARAY, La via dell’amore
Cordoglio e itineranza: esequie alla comprensione totale
La città non si presta a letture semplici, impedisce la totalizzazione dello sguardo e allude a un’unità plurale, a una mediazione sempre imperfetta che si manifesta anche nel lutto per la fine della comprensione totale, a favore dell’itineranza.
Il motivo dell’itineranza costituisce un’inclusione esplicita tra Architettura e narratività (1996, vol. I; 1998a) e Urbanizzazione e secolarizzazione (1967) dove, osservata nel suo dinamismo accelerato, la città «può essere descritta come un contesto di migrazione interna». Per quanto gli interessi sottolineino in questo caso la mobilità sociale della città secolarizzata, con fenomeni quali l’immigrazione o la distanza sempre più accentuata tra i luoghi di abitazione e quelli di lavoro, il senso dell’itineranza emerge nettamente: sia per il fatto che la vita nella città assomiglia sempre più a un «viaggio» molteplice e generalizzato, sia per l’esigenza espressa che questa «itineranza» appartenga ai modi della «speranza» piuttosto che a quelli di un vagare senza più ritrovarsi, di uno «spaesamento», di un puro errare nella città.
Ricœur fornisce anche i prototipi sociali, per così dire, di questa itineranza nella città: da un lato i migranti, che oscillano tra sradicamento e adattamento, e per i quali «la mobilità è finalmente liberante, ma al prezzo di notevoli sofferenze»; dall’altro lato invece i «privilegiati» per i quali «la mobilità assume spesso la forma del viaggio e delle vacanze». Il turista e l’immigrato incarnano la mobilità accelerata di una città itinerante. «Nomadismo», in ogni caso, e «sradicamento», che si leggono nella città e sugli occhi che la guardano, ma in modo ben differente nel primo e nel secondo caso. Tutto questo movimento interno alla città contemporanea viene già chiamato, oltre che «viaggio» e «itineranza», una «de-familiarizzazione» (P. Ricœur, 1967, p. 328; cfr. pp. 335, 340; cfr. G. Simmel, 1995): proprio come in Architettura e narratività.
Cordoglio della comprensione totale, quindi, a favore dell’«itinerranza» nella città, come è sempre scritto – ma solo lì, e proprio in corsivo nel suo primo apparire – nella versione di Architettura e narratività (1996) presentata alla Triennale di Milano, che sta «a metà strada tra l’erranza e lo spirito domestico. Con l’itinerranza lo spazio e il tempo sono integrati l’uno nell’altro in quello che Bachtin aveva ben definito «cronotopo». E per la terza volta si impone l’idea di possibile: in che cosa un mondo (Welt) si distingue da un semplice ambiente (Umwelt), in quello che noi proiettiamo come Terra abitata nella quale potremmo dispiegare i nostri possibili più propri? È l’ambiente dell’identità narrativa e dell’itinerranza» (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 72; per il concetto di cronotopo e M. Bachtin, cfr. E. Calvi, 1991; per il concetto di luogo-tempo, cfr. P. Nora, 1996, a cui Ricœur dedica, anche in connessione con lo spazio vissuto, un’ampia sezione in P. Ricœur, 2003, pp. 574-587, cfr. p. 578, nota 120).
Nel ricordo del suo «elogio dell’itineranza» incluso in La memoria, la storia, l’oblio (cfr. P. Ricœur, 2003, p. 210; originale del 2000: p. 186), Ricœur non ripete l’espressione della Triennale di Milano. Su di essa richiamano l’attenzione l’architetto Pietro Derossi, e il filosofo Pier Aldo Rovatti che commenta così: «Con lo strano vocabolo “itinerranza”, vengono intrecciate nella forma dell’intrigo e del paradosso, l’elemento dell’abitare come stare e l’elemento dell’abitare come continuo errare» (P.A. Rovatti, 2000, p. 68; cfr. P. Derossi, 2000, p. 27). L’architettura narrativa, a sua volta, reinterpreta l’itineranza quale trasmigrazione delle funzioni solite e uso improprio dei luoghi, come «seduzione antica del nomadismo» (cfr. P. Derossi, in AA.VV., 1996, vol. II, p. 13; sull’abitare viaggiando, cfr. E. Calvi, 1991).
Dimorare, errare, smarrirsi
In ogni caso, l’itineranza nella città evoca, e amplifica, il doppio movimento dello stare e dell’andare già osservato a proposito del corpo proprio, e della casa. Può darsi che esso conservi un’altra memoria di Heidegger in merito all’abitare – che riecheggia pur sempre Costruire abitare pensare –, quella che gioca tra dimorare e vagabondare, del tipo:
Se consideriamo il verbo abitare in senso lato ed essenziale, allora esso denota il modo con cui i mortali adempiono al loro errare: dalla nascita alla morte, sulla terra e sotto il cielo. Ovunque sia, l’errare resta l’essenza dell’abitare come lo stare tra terra e cielo, tra nascita e morte, tra gioia e dolore, tra opera e parola. Se con questo molteplice tra indichiamo il mondo, esso diventa la casa inabitata dei mortali. Le singole dimore, i villaggi, le città, sono comunque opere di architettura che radunano al di dentro e all’intorno il molteplice tra. Gli edifici avvicinano la terra all’uomo, quale paesaggio abitato, e pongono allo stesso tempo la vicinanza del dimorare insieme sotto la vastità del cielo (M. Heidegger, 1957, p. 13; in C. Norberg-Schulz, 1984, p. 19).
Il richiamo all’itineranza connesso con il cordoglio della comprensione totale porta senz’altro con sé, almeno come vaga assonanza, altre istanze heideggeriane, che interpretano l’esistere dell’umano come un esporsi mondano che si situa all’incrocio tra raccoglimento e apertura, tra dimora e movimento. Il dimorare e l’aprirsi non riguardano solo l’alternanza di raccoglimento e di dislocazione. Dalla loro tensione sgorga infatti un’«etica originaria».
Heidegger avverte che «il termine etica vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo». Sempre Heidegger riprende, ricordandosi di Eraclito, una dialettica tra ciò che è «solito» e ciò che è «insolito», perché, come «dice lo stesso Eraclito: “Il soggiorno (solito) è per l’uomo l’ambito aperto per il presentarsi del dio (dell’in-solito)» (M. Heidegger, 1995, p. 93; cfr. pp. 92 e sgg.). Solito e insolito, familiare e de-familiare: la dimora dell’uomo come itineranza verso un’alterità che non è del tutto estranea.
Jean-Luc Nancy replica, commentando, in questo modo: «L’ethos deve essere pensato come soggiorno», dove «il soggiorno è il “ci” in quanto aperto. Il soggiorno è, quindi, molto più una condotta che una dimora (oppure, dimorare è innanzitutto una condotta, la condotta dell’essere-ilci» (J.-L. Nancy, 1996, p. 36). La dimora e l’esser-ci: l’etica è un soggiornare aperto, e il dimorare è una condotta. Tutto un linguaggio andrebbe allora ripreso e fors’anche rivisitato (cfr. P. Sloterdijk, 1999), per accorgersi dei fili sparsi che si annodano a ricongiungere tra di loro il dimorare e l’essere vicini, l’abitare e l’aprirsi all’altro.
Oppure, il cordoglio può indirizzarsi a favore dell’auspicio sollevato da Ricœur con Walter Benjamin e la sua Parigi, a chiusura del testo pubblicato sulla rivista «Urbanisme», di diventare i «perditempo dei luoghi della memoria», i perdigiorno della città come il flâneur di Benjamin, che «cerca rifugio nella folla. La folla è il velo attraverso il quale la città familiare appare al flâneur come fantasmagoria» (P. Ricœur, 1998a, p. 51; cfr. W. Benjamin, 1995, pp. 145 e sgg.): osservatori cinici e insieme affascinati, pellegrini instancabili, della città e della sua vita.
Itineranza ancora come situazione cittadina, evocata in La memoria, la storia, l’oblio: situazione di quell’essere che non è né solo natura né solo artificiale, né solo casa né solo città. Condizione dell’umano in bilico tra l’itinerare e l’errare, perché «la città suscita anche passioni più complesse che non la casa, nella misura in cui offre uno spazio di spostamento, di avvicinamento e di allontanamento. Vi ci si può sentire smarriti, erranti, sperduti, mentre di contro i suoi spazi pubblici, le sue piazze ben denominate invitano alle commemorazioni e alle riunioni ritualizzate» (P. Ricœur, 2003, p. 211).
Nella città si può passeggiare, ma ci si può anche perdere. L’itineranza rimane vicino alla possibilità dell’erranza. L’augurio di Ricœur rivolto agli architetti e agli urbanisti in occasione della Triennale di Milano deve quindi cambiare. Allora si trattava di un augurio di felicità: «Felice l’architetto che suscita l’itinerranza tra le vestigia divenute testimonianze rese alle storie di vita inscritte nei luoghi della vita!» (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 72). Adesso si tratta di un augurio contrario: che il costruire e il pianificare non confondano tra loro l’itineranza con l’erranza negativa, il vivere nella città con lo smarrirsi: che il «nomade urbano» non diventi un «disorientato» (cfr. G.-H. de Radkowski, 2002; M. Cacciari, 2008, pp. 50 e sgg.).
Di fronte alla molteplicità dei criteri di giustificazione poi – molteplicità delle città nell’unica città –, il senso dell’itineranza si conferma e si amplia, perché, nel confronto e nello scontro dei criteri che ispirano il riconoscimento all’interno delle diverse città, è come se la città stessa si mettesse in movimento, come se la città diventasse itinerante: si passeggia e ci si perde nella città, si passeggia e ci si perde tra le diverse città dell’unica città.
Sull’orlo dei precipizi. Resistenze, contestazioni
Lyotard mette in guardia su quanto di metafisico rimane inscritto nel progetto architettonico, quando questo equivale alla promessa/pretesa di una risposta ultimativa «all’angoscia ontologica dell’abitare»: promessa/pretesa di negazione di un resto, di un fuori, rispetto all’atto stesso configurante. Di un’alterità.
Attraverso la corrispondenza tra il configurare narrativo e quello architettonico, Ricœur dilata invece e dà risalto in senso più classico al momento progettuale quale risposta formale all’abitare, che fa entrare nel ritmo del prefigurare, del configurare e del rifigurare. Solo che, come in un video incapace di tenere ferme le parole appena scritte, che cominciano a cadere e a sgretolarsi come in una pioggia di meteoriti, man mano che ci si addentra nel gesto a cui viene assegnata la responsabilità di dare forma all’abitare dell’umano, aumentano anche gli scarti e le fratture, le messe in discussione – come se il progetto realizzato diventasse, nel suo essere abitato e al tempo stesso contestato, un testimone controvoglia del fallimento implicito fin dall’inizio nella promessa/pretesa di rispondere una volta per tutte all’angoscia dell’abitare di cui parla Lyotard.
Un abisso separa la razionalità del progetto architettonico dal vissuto dello stesso: dalla sua ricettività. Tra prefigurare, configurare e rifigurare non passa un ordine di successione cronologica. Il costruire si radica nel mondo della vita, nell’abitare che affianca fin dall’inizio; ma l’abitare replica al costruire, forse lo mette anche sotto processo: oltre che di «aspettative» dell’abitare nei confronti del costruire, in La memoria, la storia, l’oblio Ricœur ritorna a parlare – con ulteriore rafforzamento – di «resistenze» e perfino di «contestazioni» (P. Ricœur, 2003, p. 210). Altro abisso che si scopre, tra l’abitare della prima ora, dove le parole e la vita si vogliono anche ingenue e irriflesse, confuse – quell’abitare che non si distingue ancora dal costruire –, e l’abitare che risponde e che sollecita nuovamente la costruzione. Che la discute e la contesta.
Crepe dunque, incertezze, che portano in evidenza le ferite dello spazio che si fa tempo, e del tempo che si fa spazio. Ferite quasi insanabili nel rapporto tra la città e l’umano. Fratture, ancora, che lasciano in qualche misura intravedere come nel gioco ritmato del prefigurare, del configurare e del rifigurare, che si rifrangono confondendosi tra la sponda del tempo e quella dello spazio, tra la spazialità del racconto e la temporalità dei luoghi, avanzi in sofferenza, come in un calvario, proprio quel mondo della vita: un mondo che si trova tanto prima quanto dopo il costruire e che, in definitiva, non è né prima né dopo se non per la sospensione dovuta a un magnifico gioco euristico capace come una spugna marina di assorbire e rilasciare percorsi sempre nuovi di lettura.
Il mondo della vita attraversa tutto del racconto e tutto dell’architettura, tutto della parola e tutto della città. Collocandosi anzi nel punto di vista della rifigurazione, là dove il soggetto entra nella narrazione e l’abitare replica al costruire – là dove sorgono risposte e repliche, resistenze e contestazioni –, non si è nemmeno più del tutto sicuri cosa sia talora più ingenuo e confuso, quasi banale e poco meditato: se il mondo della vita o tutti quegli atti di configurazione che tentano di metterlo in forma.
Il costruire rimanda all’abitare. Ma l’abitare discute il costruire. La vita non è per forza di cose più vita dopo il costruire, l’abitare non necessariamente più degno. Abissi nell’abisso: la città che fa incontrare vulnerabilità impensate; le violenze della storia che coinvolgono la costruzione e la pianificazione della città; le attese che non coincidono con i bisogni; la patologia urbana; l’itinerare, l’errare e lo smarrirsi.
L’urbano e l’umano
La città e la vita sono contestuali. Si costruisce mentre si vive e si vive mentre si costruisce: la domanda di architettura e quella di urbanistica nascono insieme, al punto che un essere «naturale» dell’uomo risulta introvabile: l’umano
«si lascia incontrare sempre lungo la linea di frattura e di sutura tra la natura e la cultura» (P. Ricœur, 1998a, pp. 45-46; cfr. P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 66).
Abitare e costruire, natura e cultura: lungo la linea di frattura e di sutura si incontrano il sociale e il politico. Se si parte con la diagnostica epocale, con l’etica e la politica, s’incontra giocoforza la città. E se si legge la città nel suo essere storicità e intertestualità, nuova vulnerabilità ancora, spazio di compromissione, si incontrano il sociale e il politico: lungo le ferite, sull’orlo dei precipizi.
Lyotard fa presente che un certo postmodernismo in architettura rischia di rimanere moderno, nonostante l’abbandono della fondazione ultima, perché «un film che denuncia violentemente i mali che l’architettura e l’urbanistica hanno prodotto relativamente alla domanda dell’abitare può certamente essere ancora modernista». Infatti, un certo postmodernismo «sa che la promessa è un’illusione, evoca il passato moderno come un fantasma, ne fa la satira, richiede pluralismo contro l’universalismo, è per il locale contro la totalità. Progetta l’inversione del progetto modernista. Ma progetta ancora, come il modernismo» (J.-F. Lyotard, 1996, vol. I, p. 54).
Vengono allora in mente altre associazioni, di solito meno frequentate, dove si è invitati a riflettere fin dall’inizio sul tipo di pensiero a cui si affida la messa in forma dell’abitare, la costruzione stessa della città: nella pretesa di essere la risposta intelligente all’abitare mostra la brutalità del suo progetto, che sarà al tempo stesso indifferente e omologante.
L’edilizia fa mostra di sé proprio all’inizio di quella parte della Dialettica dell’Illuminismo che Max Horkheimer e Theodor W. Adorno dedicano all’industria culturale, là dove si presenta una tesi sulla civiltà attuale: essa conferisce «a tutti i suoi prodotti un’aria di somiglianza». L’«edilizia» si distende tra il costruire e il pianificare: centri cittadini con i «palazzi monumentali» che si assomigliano sempre più in ogni parte del mondo e che «rappresentano la pura razionalità priva di senso di grandi cartelli internazionali», periferie usa e getta, e «progetti urbanistici» che anziché preservare la libertà dell’umano la rinchiudono in «cellule edilizie», in «piccole abitazioni igieniche». Tutto questo documenta «lo schema» di una cultura che mette in scena «la falsa identità di universale e particolare» (M. Horkheimer, T.W. Adorno, 1997, pp. 122-123).
Di rimbalzo, sovvengono pure, quasi tra le righe, le note di Jürgen Habermas sullo stato dell’«odierno stile di abitazione cittadino» dove si perdono insieme tanto la sfera privata quanto quella pubblica, a cui conduce la «disposizione dei blocchi abitativi da parte dell’urbanistica moderna»: William H. Whyte individuava nella «situazione abitativa americana» il prototipo di una «versione civile di una vita di guarnigione». (J. Habermas, 2002, p. 182; cfr. W.H. Whyte, 1960, pp. 341 e sgg.). La città è una caserma.
Il mettere in forma non è neutro. Il rapporto tra l’abitare e il costruire è davvero complesso, edificare la città porta con sé altre ragioni rispetto alle attese di una vita. Questo mondo della vita, poi, sempre contestuale alla costruzione della città, non andrebbe anch’esso precisato meglio? Non andrebbero dette altre cose circa il rapporto tra la città e la vita, forse per presagire proprio quella «città della vita» che si cerca a fatica dentro la «città di pietra», che privilegia «gli aspetti fisico-formali», e la «città delle relazioni», che punta al «tessuto delle attività»? (C. Béguinot, 2008, pp. 78 e sgg.). E lo spazio vissuto che è anche tempo, quello spazio e quel tempo misti definiti dal nostro stesso corpo, in quanto proprio, vissuto, non si può spingere ancora più avanti fino a osservare il ribaltamento, a individuare l’urbanità del corpo, corpi tra corpi e corpi tra cementi, «corpi urbani»? (T. Paquot, 2006; cfr. I. Chambers, in AA.VV., 1996, vol. I, p. 61; F. Riva, 2007, cap. I). Ma è poi costruita davvero questa città, o non ci mette sempre di fronte a un’alternativa affettiva tra la corruzione di qualcosa che è già stato e l’anticipazione di qualcosa che deve ancora venire? (cfr. O. Mongin, 2005; M. Hénaff, 2008).
La città è sempre in eccesso, sempre al limite tra un modello di civilizzazione e la propria «inciviltà» (J.-L. Nancy, 2011). Complessità, certo, e complessità della complessità nella città degli uomini, cordoglio della comprensione totale, precarizzazione del comprendere, rifiuto, infine, della sintesi – ma forse anche un’intertestualità (e un pluralismo) differente: la stessa che non ha mai un livello troppo ingenuo o primitivo, perché coincide con il sorgere dell’umano in quanto umano di fronte all’altro uomo.
Abitare, coabitare
L’abitare allora è anche già un coabitare, cercare rifugio già un proteggersi insieme, parlare già un parlarsi: la città un compromettersi. Non è ancora una volta Heidegger che accenna, purtroppo senza precisare molto, alla «comunità degli uomini» mentre discute del costruire e dell’abitare? Del «costruire che è propriamente un abitare», dell’abitare che è «il modo con cui i mortali sono sulla Terra», e del «costruire come abitare» che si «dispiega nel costruire che coltiva e coltiva ciò che cresce; e nel costruire che edifica costruzioni» (Heidegger, 1976-1980, pp. 98-99).
Il corpo, ancora una volta, questo spazio-tempo, è da subito luogo di prossimità e di cura responsabile, ma anche spazio di ogni fatica e di ogni fastidio, di molta violenza, a cui non sono estranei per la loro rilevante parte né il costruire né il pianificare urbano. Il costruire sempre costruito e mai costruito. Sempre in qualche modo da ricostruire, perché «volendo costruire senza curarsi dell’altro, l’uomo si è espropriato anche di sé»: «Costruire per costruire tuttavia non basta per abitare. Una cultura del vivente deve accompagnare un’edificazione di ciò che non cresce da sé» (L. Irigaray, 2008, p. 97).
La città già da sempre città e non ancora, non del tutto, non abbastanza, città.
L’umano già da sempre umano e non ancora, non del tutto, non abbastanza, umano.
Il pensiero già da sempre pensiero e non ancora, non del tutto, non abbastanza, pensiero.
La morale già da sempre morale e non ancora, non del tutto, non abbastanza morale: etica, città, bene comune, socialità, contestazione, giustizia.
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