2.

CORPO E TEMPO. I LUOGHI DI VITA

Il termine etica vuol dire che con questo nome
si pensa il soggiorno dell’uomo.

Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo

La pietra e la parola: costruire e raccontare

Lyotard destabilizza la pretesa del progetto architettonico quale modo per far emergere la crisi di una razionalità ultimativa e totalizzante. Nell’ottica di giustificare lo specifico della configurazione architettonica, quale messa in forma del bisogno di abitare, Paul Ricœur interviene invece a più riprese sulla vicinanza tra il tempo del racconto e lo spazio del costruire, mutando e integrando il registro: al movimento che dal tempo conduce allo spazio affianca infine quello capovolto. Architettura e narratività segue il primo movimento. Sembra a prima vista che il costruire e il raccontare non si possano conciliare, perché un «abisso» separa la pietra della costruzione, lo spazio fisico, dalla leggerezza e dalla mobilità del tempo, ossia del racconto e della parola. Infatti, «il racconto fa parte della sfera del linguaggio, dei segni parlati e scritti, della composizione letteraria; l’architettura della sfera del materiale, delle forme visibili, del costruire tra terra e cielo. Allo stesso modo il racconto si sviluppa nel tempo, innalzato al rango di tempo raccontato; l’edificio si dispiega e si erige nello spazio, trasformato in spazio costruito» (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 64).

Fosse così fino in fondo, come si spiega allora che un testo antico di fondazione della città (Uruk in Mesopotamia) metta la parola nel cuore del costruire? Nell’Epopea di Gilgameš, la città costruita, con i suoi muri e suoi giardini, abbraccia al proprio interno il boschetto sacro dove si custodisce, in un contenitore in rame, il tesoro, ossia lo scritto (N.K. Sandars, 1986, pp. 85, 144-145). Il muro e la parola. Il mattone e lo scritto. Anche della città sarà possibile parlare come di un «testo», anche il testo diventa una città. Il libro è edificato. La biblioteca è turrita (cfr. M. Butor, 1982).

Inconciliabili in apparenza, il costruire e il raccontare, lo spazio e il tempo, presentano invece ciascuno al proprio interno una duplicità di significati che li apre l’uno all’altro. C’è infatti lo spazio geometrico e lo spazio dei luoghi di vita; e c’è il tempo fisico della misura e il tempo vissuto dell’anima: non tutto dello spazio sta sul lato della geometria, e non tutto del tempo su quello del cronometro. Lo spazio vissuto dei luoghi di vita diventa tempo: è spazio temporalizzato, per cui anche le pietre hanno un tempo, anche l’architettura, anche la città costruita. Sull’altro versante, quello della parola e del tempo, si può dire che anche il racconto si spazializza nel suo distendersi narrativo: «Racconto e costruzione operano una stessa sorta di iscrizione, l’uno nella durata, l’altra nella durezza del materiale» (P. Ricœur, 2003, p. 211). E Luce Irigaray, in La via dell’amore, sembra quasi chiosare a distanza, con qualche riserva: «Per ancorare la sua durata» l’uomo «si ormeggia a ciò che è fatto ancora di materia» (L. Irigaray, 2008, p. 95).

Tra l’edificare e il raccontare non scorre soltanto una similitudine che tiene a distanza, ma una vera e propria compenetrazione, un «intrigo». Per lo spazio costruito, soprattutto, la sua qualifica di luogo di vita si sovrappone e si interpone alle sue «proprietà geometriche» (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 64)*. Le parole del costruire e quelle del narrare si confondono allora; e si scambiano. Il tempo tende a costruirsi, a edificarsi: è il passaggio dalla parola quotidiana alla sua configurazione in un racconto. Lo spazio tende, per contrasto, a raccontarsi: nella città i luoghi del progetto architettonico sono anche luoghi della memoria, che non è solo tempo, ricordo dell’anima, ma anche spazio visibile. Nella compenetrazione tra l’edificare e il raccontare, né spazio né tempo saranno più puri: per entrambi, spazio e tempo saranno «misti». La memoria che riesce a prendere la consistenza della pietra è «la gloria dell’architettura». Nel fare architettonico si ritroverà infatti «la dialettica della memoria e del progetto».

Il rapporto che tanto il racconto quanto l’architettura intrattengono con la vita risulta al tempo stesso di radicamento e di elevazione: radicamento nel bisogno quotidiano ed esistenziale che fa dell’umano un essere che parla e che abita, elevazione per l’innalzamento che questo bisogno riceve attraverso la forma che gli viene data. Il passaggio dalla semplice parola alla letteratura e dal semplice abitare al costruire corrisponde così a un vero e proprio «salto di qualità» (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 65).

L’elevazione è anche un distacco, la messa in ordine anche un discutere: narrazione e architettura si distaccano dall’«ingenuità» del quotidiano; mettono in ordine quel che nella vita si presenta come «confuso» dandogli intelligibilità e significato; discutono infine la separazione, la solitudine, l’immediatezza stessa degli atti della vita guadagnando un livello di storicità e di intertestualità, dove il parlare e il costruire vengono sottratti all’ultima tentazione di un loro uso strumentale per essere richiamati infine a una dimensione «ludica», celebrativa – alla possibilità di sperimentare sempre nuove forme, e di decostruire le forme già date tanto ai racconti quanto alle costruzioni.

Il corpo e il luogo: lo spazio vissuto

L’intreccio tra la spazialità del costruire e la temporalità del racconto viene proposto da Ricœur in entrambi i sensi di marcia. Diventa allora interessante registrare cosa succede quando si comincia dallo spazio, anziché dal tempo, come avviene in La memoria, la storia, l’oblio, dove si opera una sorta di inversione. Come se, dopo tanta insistenza sul racconto del tempo, avanzasse, in rivalsa, il racconto dello spazio: nella stessa opera Ricœur si sofferma inoltre su Pierre Nora e la sua invenzione dei «luoghi di memoria», con la coscienza precisa dell’«alleanza apparentemente contraddittoria di due termini, di cui l’uno allontana e l’altro avvicina» (P. Ricœur, 2003, pp. 586-587).

Il rovesciamento dal tempo allo spazio come punto di partenza di un discorso sulla dimora dell’umano può darsi non abbia connessioni dirette con le riletture critiche di Martin Heidegger, per via del primato assegnato al tempo nell’analisi dell’esistenza. Pur tuttavia, l’esigenza avvertita infine da Ricœur di non far dipendere del tutto il discorso sullo spazio da quello sul tempo raccontato, si allinea proprio con queste riletture tese a rivalutare l’originalità umana dello spazio, e di cui in Heidegger stesso vi sarebbero già i segnali: con Didier Franck (citato da Ricœur in Sé come un altro), per il quale Essere e tempo di Heidegger «naufraga sul problema della carne», ossia sull’umanità già umana dello spazio vissuto, del corpo proprio (cfr. D. Franck, 2006, p. 183; l’originale è del 1988); o con Peter Sloterdijk, il quale fa presente che il legame principale nell’evoluzione della specie umana non è quello tra essere e tempo, ma piuttosto quello tra essere e spazio (cfr. P. Sloterdijk, 1999). Nel rovesciamento della prospettiva e nel tentativo di far sgorgare il discorso sullo spazio dallo spazio stesso, dalla sua umanità, è quindi in gioco molto di più che un cambio di impostazione: viene a galla semmai il problema stesso del modo, umano, di essere.

Adesso, «nel nostro punto di partenza, noi abbiamo la spazialità corporea e ambientale inerente al richiamo del ricordo»: «I ricordi, quello di aver abitato in quella casa di quella città, oppure quello di aver viaggiato in quella parte del mondo, sono particolarmente eloquenti e preziosi; essi tessono, a un tempo, una memoria interna e una memoria condivisa tra i più vicini: in questi ricordi-tipo lo spazio corporeo è immediatamente collegato con lo spazio dell’ambiente, frammento di terra abitabile, con i suoi percorsi più o meno praticabili, i suoi ostacoli diversamente superabili». Partire con lo spazio impone di affrontare il lavoro di una «fenomenologia del “posto” o del “luogo”», suggerita da Edward S. Casey (P. Ricœur, 2003, p. 208; cfr. E.S. Casey, 1993; M. Vitta, 2008, pp. 112 e sgg.): mentre ripropone l’intimo rapporto tra lo spazio vissuto e il tempo della memoria, conduce al luogo preciso e insostituibile dove questo può dirsi, rappresentato dal mio corpo.

Il corpo è il mio spazio, il mio posto nel mondo, a partire dal quale tanto l’atto di situarsi quanto quello di spostarsi prendono senso. Un posto che non è però assicurato in anticipo, così che alla sua ricerca incessante si accompagna il terrore di non trovarlo mai. E proprio su «queste alternanze di quiete e movimento si innesta l’atto di abitare, che ha le sue polarità: risiedere e spostarsi, ripararsi sotto un tetto, entrare da una porta e uscire fuori. Pensiamo qui all’esplorazione della casa, dalla cantina al granaio, in La poetica dello spazio di Gaston Bachelard» (P. Ricœur, 2003, p. 209; cfr. G. Bachelard, 1999).

L’essere e i luoghi

In riferimento al corpo proprio, l’itineranza diventa condizione umana. Partire direttamente dallo spazio offre il vantaggio di distogliersi per un momento dal «gioco didattico» dei parallelismi per radicare tanto l’architettura quanto l’urbanistica, la casa e la città, nell’esperienza quotidiana: che solo qui, tuttavia, prende il nome preciso di un’esperienza del corpo proprio. L’abitare si radica nel corpo vissuto o proprio: modo peculiare e insostituibile di essere al mondo, che spingerebbe verso una «ontologia del “luogo”» quale continuazione di «questa odissea dello spazio, di volta in volta vissuto, costruito, percorso, abitato» (P. Ricœur, 2003, p. 215; Ricœur rinvia a P. Amphoux, 1996, e ad A. Berque, P. Nys, 1997). Il discorso sul luogo dell’uomo inizia lì dove è il suo corpo.

Il «linguaggio ordinario», allora, che «conosce espressioni quali ubicazione e spostamento», rinvia più precisamente a «esperienze vive del corpo proprio, che postulano di essere dette all’interno di un discorso prima che nello spazio euclideo, cartesiano, newtoniano, come Merleau-Ponty insiste nella Fenomenologia della percezione», e questo per un motivo invincibile: «Il corpo, questo qui assoluto, è il punto di riferimento sia del là, vicino o lontano, dell’incluso o dell’escluso, dell’alto o del basso, della destra o della sinistra, dell’avanti e del dietro, sia altrettanto di dimensioni asimmetriche che articolano una tipologia corporea» (P. Ricœur, 2003, p. 209). Il corpo non è solo nello spazio e nel tempo: esso abita spazio, e abita tempo. (cfr. M. Merleau-Ponty, 1972, La spazialità del corpo proprio e la motilità, pp. 151-203). Spazio e tempo del corpo decidono per me dello spazio e del tempo del mondo.

Prima ancora che con lo spazio geometrico, l’esperienza quotidiana del corpo proprio definisce un rapporto con la parola perché è ciò che permette l’apertura al mondo. Riferendosi a Il visibile e l’invisibile di Merleau-Ponty, Lyotard affida al corpo una doppia possibilità di linguaggio: sia per il corpo che «si unisce al mondo, che fa parte di esso, che lo fa e ne è fatto», sia nel caso contrario del «corpo che si ritira dal mondo, nella notte di ciò che ha perduto per nascere ad esso». In entrambi i casi si tratta «di un idioma, di un modo assolutamente singolare, intraducibile, di decifrare ciò che accade. Il punto di vista, il punto d’ascolto, il punto di tatto, il punto di aroma attraverso il quale i sensibili mi attaccano non è trasferibile nello spazio-tempo». Intraducibile dunque in termini spaziali, l’esperienza del corpo proprio, «questa singolarità della risonanza, si chiama “esistenza”. Nel linguaggio essa è sospesa ai deittici io, questo, ora, là, ecc. e si segnala attraverso di essi» (J.-F. Lyotard, 1987, p. 105).

Il corpo proprio in quanto spazio vissuto appartiene già all’universo della parola e del tempo, è già espressivo. La sua espressività discende da una centratura assoluta rispetto a cui tutto il resto si rapporta; e tuttavia centratura in perenne bilico, distesa tra sosta e spostamento, tra alto e basso, tra dentro e fuori. Tra centro e decentramento. L’atto di costruire si rapporta al centro mobile dell’esistenza – centro di un mondo –, allo spazio vissuto del corpo proprio: già parola, già espressione, già tempo. Già dimora e già oltrepassamento.

La casa e la città: «naturale» e «artificiale»

Nelle due versioni di Architettura e narratività, Ricœur articola invece l’altro movimento, quello che scopre la temporalità dello spazio costruito a partire dalla configurazione del racconto: movimento che è, al tempo stesso, di radicamento e di contestazione rispetto al quotidiano. Si tratta infatti di una messa in forma, di un dare intelligibilità.

Per Lyotard non c’è una risposta definitiva all’angoscia umana dell’abitare, così come Derrida sente l’esigenza di pensare in modo più libero l’architettura senza sottometterla all’abitare. Derrida è consapevole che l’architettura è «sempre stata interpretata come abitazione, o come l’elemento dell’abitazione – abitazione per gli esseri umani o abitazione per le divinità –, il luogo dove le divinità e le persone sono presenti o si raccolgono o vivono, ecc.». E riconosce senza dubbio che «questa è un’interpretazione molto profonda e potente», ma ha lo svantaggio di sottomettere il costruire «a un valore che può essere messo in discussione». Derrida denuncia che una simile impostazione si può criticare e che essa proviene da Heidegger, dove «tali valori sono connessi con la questione del costruire, con il tema diciamo, del mantenere, conservare, proteggere, ecc.». In Heidegger prevale la conservazione mentre in Derrida la domanda: a cosa equivale «un’architettura non semplicemente subordinata a questi valori di abitazione, di abitare, e di proteggere la presenza delle divinità e degli esseri umani. Sarebbe possibile?» (J. Derrida, 2008, p. 143).

Per Ricœur, al contrario, il costruire risponde all’abitare in quanto l’uomo non abita perché costruisce, ma costruisce perché abita: così Heidegger in Costruire abitare pensare a cui Ricœur allude (P. Ricœur, 1998a, p. 45; cfr. M. Heidegger, 1976-80, pp. 96-108, 125-138; cfr. T. Paquot, 2005; T. Paquot, M. Lussault, C. Younès, 2007). In ogni caso, tra il costruire e l’abitare si crea una tensione della quale bisognerà verificare la tenuta ultima di ciò a cui aspira.

Il costruire traffica dunque con il mondo della vita attraverso operazioni artificiali. E l’esito sarà una trasformazione, o meglio un’estraneazione dello spazio rispetto a se stesso, dal momento che il costruire trasforma lo spazio fisico in luogo dell’abitare. Nella città degli uomini il «vuoto» non sarà più quello di Aristotele – spazio vuoto –, che serve per essere occupato, per il fissarsi di qualcosa. Nella città degli uomini il vuoto sarà anche «l’intervallo da percorrere», snodo tra il «riparo» (la protezione) e la «dislocazione» (per il concetto di dislocazione, cfr. B. Goetz, 2000).

Per l’umano, la casa e la città, il bisogno di abitare e quello di costruire sono contestuali. La costruzione della città diversifica socialmente ciò che tende a differenziarsi già all’interno della dimora, ossia nel «costruire-abitare primordiali». Il risultato è formidabile perché, dal punto di vista della corrispondenza ancestrale tra la casa e la città, tra la vita e l’artificio, tra l’abitare e il costruire, anche su questo lato urbano «diventa introvabile uno stato “naturale” dell’uomo» (P. Ricœur, 1998a, pp. 45-46; cfr. P. Ricœur 1996, vol. I, p. 66; cfr. P. Sloterdijk, 1999). L’umano è cittadino.

Il rapporto tra la città e l’artificio era posto in rilievo fin da Urbanizzazione e secolarizzazione dove, dopo aver precisato che la «rappresentazione collettiva che l’uomo elabora è parte integrante del “fenomeno” città tanto quanto la sua realtà», e inseguendo l’«immagine della città contemporanea» e secolare, Ricœur arriva a dire che questa «città è l’artificio assoluto»: si rende così esplicito il rapporto tra la città e il prometeismo, tra la tecnica e la condizione umana (P. Ricœur, 1966, pp. 293-294).

Ogni costruire rimanda a un abitare, e ogni abitare domanda un costruire. Non c’è uno stato naturale dell’uomo che non sia già aperto all’artificiale del costruire. E non c’è neppure uno stato puramente artificiale dell’umano, dal momento che ogni costruire si innesta nel mondo della vita: «A questo proposito è inutile domandarsi se l’abitare preceda il costruire, perché si può dire innanzitutto che vi è un costruire correlato al bisogno vitale di abitare. Occorre quindi partire dall’insieme abitare-costruire, salvo dare la priorità al costruire sul piano della “configurazione” e, forse, di nuovo all’abitare al momento della “rifigurazione”, dato che il progetto architettonico ridisegna proprio l’abitare» (P. Ricœur, 1998, p. 45; cfr. P. Ricœur, 1996, p. 66).

Le operazioni dell’artificio architettonico sono per un verso modi di aderire al livello vitale dell’esistenza: così è per la delimitazione del dentro e del fuori, per l’annuncio dei limiti e insieme del loro sfondamento; per l’aprire e per il chiudere; per il ritmo che, articolando tra loro nei rispettivi ambienti il giorno e la notte, si dà tanto alla vita quanto alla luce nelle scansioni di intensità e diffusione. Per un altro verso tutte le operazioni architettoniche sono «atti di un vivente già vivo»: il dimorare, l’arrestarsi, il fissarsi – comune ad ogni uomo, anche nomade –; il muoversi e il circolare, il fluidificare. Si «assiste così alla nascita simultanea del bisogno di architettura e del bisogno di urbanistica, essendo la casa e la città contemporanee nel costruire-abitare primordiale» (P. Ricœur, 1998a, p. 45). L’edificare e il mettere in rapporto si trovano già iscritti nell’abitare dell’uomo su questa Terra.

L’eterogeneo e l’intertestuale

L’artificialità non assoluta del gesto architettonico trova inoltre corrispondenza nella sua intima complessità: la messa in forma che avviene sia nel racconto sia nella costruzione è la compenetrazione di «atti poetici» che si aprono l’uno all’altro. L’atto di configurazione che attraversa entrambi «possiede una triplice membratura: da una parte la messa-in-intrigo, chiamata “sintesi dell’eterogeneo”; dall’altra parte l’intelligibilità, ossia il tentativo di rischiarare l’inestricabile; e infine il confronto di diversi racconti posti l’uno accanto all’altro, per contrasto o in sequenza che sia, vale a dire l’intertestualità» (P. Ricœur, 1987, p. 255; cfr. P. Ricœur, 2004a, pp. 17 e sgg.). Costruire e raccontare si corrispondono anche dal punto di vista del ritmo interno del loro differente gesto: messa-in-intrigo; dare intelligibilità; intertestualità.

La «sintesi spaziale dell’eterogeneo», caratteristica dell’architettura, è l’equivalente della messa-in-intrigo tipica del racconto (cfr. P. Ricœur, 1987, pp. 19 e sgg.): anche il costruire compone tra loro delle «variabili relativamente indipendenti» allo scopo di creare oggetti-edifici dotati di un’«unità sufficiente», perché «un’opera architettonica è un messaggio polifonico che si presta a una lettura che è a un tempo inglobante e analitica».

L’intelligibilità dell’atto architettonico si sforza anch’essa di districare l’inestricabile, e si rispecchia nell’incorporazione del tempo nello spazio: con il gesto architettonico la pietra della costruzione diventa durata, si fa tempo, progetto e memoria insieme. Anche il costruito parla, anche il costruito racconta: l’architettura è linguaggio. Durezza e durata, coesione e coerenza: l’arte narrativa e quella architettonica rappresentano entrambe, secondo la loro polarità specifica, una «vittoria provvisoria sull’effimero». Il progettare dell’architettura è un fare memoria, perché «lo spazio costruito è tempo condensato», cosa che diventa più chiara «se si considera il lavoro simultaneo di “configurazione” dell’atto del costruire e dell’atto dell’abitare: le funzioni abitative sono “inventate” – nei due significati del termine, ‘trovare’ e ‘creare’ – in contemporanea con le operazioni costruttive iscritte nella plastica dello spazio architettonico. Il reciproco rinvio delle funzioni abitative e di quelle costruttive consiste in un movimento o in una catena di movimenti dell’intelligenza architettonica» (P. Ricœur, 1998a, p. 48; cfr. P. Ricœur, 1996, vol. I, pp. 68-69). Ogni edificio è la memoria vivente del suo stesso costruirsi; il costruire rimanda inoltre di continuo all’abitare: crea quello che l’abitare in qualche modo ha già trovato.

Da ultimo, l’intertestualità della letteratura universale si riflette nella «storicità del costruire», da intendersi come la «storicità dell’atto stesso di iscrivere un nuovo edificio in uno spazio già costruito che coincide largamente con il fenomeno della città, che risalta da un atto “configurante” relativamente distinto secondo il differenziarsi di architettura e urbanistica» (P. Ricœur, 1998a, p. 48; cfr. P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 69). Come ogni nuovo racconto si inserisce nel fiume della letteratura, infatti, anche ogni edificio sorge a sua volta nel contesto di edifici già costruiti. Per questa via, il carattere storico e intertestuale del costruire architettonico entra in dialogo con l’urbanistica. Anche la città mette in intrigo, anch’essa cerca di rendere intelligibili le azioni più caotiche della vita spontanea, anche la città intreccia racconti dove il progetto razionale dello spazio costruito si fa tempo e memoria. Anche la città «spesso appartiene a questa natura di una grande intertestualità, che può diventare talvolta grido di opposizione» (P. Ricœur, 1998a, p. 47).

La città, proprio come il racconto, è un fenomeno intertestuale.

* Nella XIX Esposizione della Triennale di Milano l’avvicinarsi tra loro della pietra e della parola veniva posto in atto nella mostra, dove un narratore affiancava un architetto sul medesimo progetto architettonico che si trovava così detto due volte: per la mostra cfr. AA.VV., 1996, vol. I, pp. 102-133 (P. Derossi, p. 13; E. Calvi, pp. 92-99).