3.

ARCHITETTURA E VULNERABILITÀ

La città si dà a vedere e a leggere, a un tempo.
PAUL RICŒUR, La memoria, la storia, l’oblio

Vulnerabilità e rovina. Storia e minaccia

Fare sintesi, mettere in forma, rendere intelligibile, contestualizzare e intertestualizzare: sono le opere della configurazione architettonica dell’abitare dell’umano. Tuttavia, quanto più avanza la complessità della configurazione tanto più si avvertono grandezze e pericoli di questo atto, genialità e baratri incombenti.

Denunciando l’assenza di una risposta definitiva all’angoscia dell’abitare, Lyotard invita a verificare l’intenzione del gesto architettonico, indebolendolo nella sua pretesa. Pur difendendolo quale risposta dell’intelligenza al bisogno umano di abitare, anche in Ricœur la vittoria sull’effimero resta provvisoria. La dialettica tra innovazione e tradizione, e quella tra distruzione e ricostruzione, rendono esplicita questa provvisorietà.

La configurazione architettonica dell’abitare si distende sempre tra una tradizione e un’innovazione del costruire perché, sebbene creativo, l’atto di costruire non è mai isolato: è ogni volta un nuovo atto configurante all’interno di un contesto urbano già costruito, che porta con sé la traccia di tutte le altre storie del costruire, e di tutte le storie di vita iscritte. Difatti, «come tutti gli scrittori scrivono “dopo”, “contro” o “secondo”, tutti gli architetti si misurano con una tradizione consolidata»; e anche:

La lotta contro l’effimero acquista così una nuova dimensione: non più contenuta nel singolo edificio, ma nel rapporto degli edifici tra di loro. Infatti occorre parlare anche di distruggere e di ricostruire. Non si è distrutto solo per odio dei simboli di una cultura, ma anche per negligenza, per disprezzo, per misconoscimento, per sostituire qualcosa che non piaceva più con ciò che suggerisce o impone il nuovo gusto. Ma al tempo stesso si è anche pietosamente ristrutturato, conservato e ricostruito, a volte in modo identico, come nell’Europa dell’Est dopo le grandi distruzioni delle guerre del XX secolo – penso a Dresda. L’effimero non si trova soltanto dalla parte della natura, a cui l’arte sovrappone la sua durezza e la sua durata, ma anche su quella della violenza della storia, e minaccia dall’interno il progetto architettonico considerato nella sua dimensione «storica» (P. Ricœur, 1998a, p. 48; cfr. P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 69).

Il costruire come risposta all’abitare è di per sé una lotta contro l’effimero: un proteggere rispondendo al bisogno dell’abitare. La storicità del costruire, l’intertesto cittadino, sospinge però verso una nuova dimensione di questa lotta. La costruzione della città non è mai soltanto un gesto singolo, un costruire per se stessi. È, piuttosto, un costruire insieme. Costruire insieme sfonda ogni singolo progetto verso altri progetti, che sono al tempo stesso diversi e contestuali, differenti e comuni. Fa anche incontrare con una nuova dimensione dell’effimero: non più soltanto la vita minacciata che chiede riparo, bensì la violenza stessa della storia. Mentre il costruire dona durezza alla durata, spazio al tempo, non mette al riparo dalla violenza della storia. Non solo da quella violenza che distrugge ciò che si è costruito – pensiero che va in questo caso alle devastazioni belliche del Novecento, al tema della «rovina» architettonica in qualche modo parallela alla distruzione degli archivi della storia, della sua stessa memoria (cfr. P. Ricœur, 2003, pp. 234 e sgg.; cfr. D. Hoffmann-Axthelm, in AA.VV., 1996, vol. I, pp. 56-60). Bisogna spingersi a dire che la violenza penetra lo stesso gesto architettonico fattosi storia: nella storicità del costruire non ci sarà solo un’architettura minacciata, ma pure un’architettura che minaccia.

Attraverso il tema della vulnerabilità, l’architettura e l’urbanistica restituiscono anch’esse il senso della fragilità dell’umano e della responsabilità nei suoi confronti. Pensieri che riguardano la condizione umana come tale, da sempre aperta alla propria fragilità, o, con Jonas, la sopravvivenza stessa dell’uomo sulla Terra impegnato nell’avventura tecnologica, e dove pure ricorrono le stesse dimensioni che strutturano la città, il tempo e lo spazio, perché «la responsabilità in età tecnologica va così lontano quanto le nostre possibilità nello spazio e nel tempo e nelle profondità della vita» (P. Ricœur, 1998b).

Ma la vulnerabilità non coinvolge soltanto la condizione umana e la sopravvivenza della specie umana: «Si tratta anche della città. La città è fondamentalmente in pericolo. Come è stato sottolineato da Hannah Arendt, la sua sopravvivenza dipende da noi» (P. Ricœur, 1994b, p. 11). La città è in pericolo, la sua sopravvivenza dipende da noi. Un solo flash, un’intuizione, in cui la città viene risucchiata nel grande problema della vulnerabilità dell’umano e della responsabilità precisa che ne deriva. Flash e intuizione però puntuali, che fanno affacciare sul discorso della fragilità dell’umano anche questo suo essere né del tutto naturale né del tutto artificiale – questo suo essere città. Architettura e urbanistica non sono estranee né al pericolo né alla sopravvivenza della città: alla sua fragilità, alla sua responsabilità.

Innovazione, perciò, tradizione, costruzione; ma anche distruzione.

Architettura e ideologia

La storicità del costruire provoca un duplice effetto sull’architettura, e solleva pure qualche interrogativo sull’equivalenza semplice tra il gesto di configurazione e il dare intelligibilità. Per un verso la consegna a un nuovo tipo di vulnerabilità, diverso da quello condiviso con tutte le cose del mondo, dalla finitudine dell’essere: la città è precaria in un senso diverso, quello della distruzione e dell’autodistruzione. Per un altro verso la riporta alla propria storicità, vale a dire ai mutamenti di stile che costituiscono il livello esplicito della teoria architettonica.

La storia entra nell’architettura anche nel gioco «particolarmente drammatico» delle contrapposizioni e delle sovrapposizioni degli stili: corrisponde al momento ludico dell’intertestualità narrativa, dove avviene un lavoro di messa a distanza e di liberazione «grazie al gioco tra i diversi livelli temporali derivati dalla riflessività dell’atto configurante stesso» (P. Ricœur, 1987, p. 104; cfr. cap. III, I giochi con il tempo, pp. 103- 165). Di questo gioco si ripropongono però anche i limiti, dal momento che «l’esaltazione illimitata della dimensione ludica dell’arte di raccontare rischia infatti di trasformare la celebrazione del linguaggio nella sua

arrogante solitudine, in un passatempo futile» (P. Ricœur, 1996, vol. I, cap. 68). In questo spazio che si fa dramma, in questo tempo che lacera lo spazio, il costruire entra in lotta con se stesso. L’architettura si fa al tempo stesso dialogo e conflitto.

Il carattere particolarmente drammatico del confronto degli stili deriva dal fatto che nelle teorie architettoniche si schierano due rapporti dell’atto di costruire: con se stesso e le proprie pre-comprensioni, e con l’abitare, i suoi bisogni, e le sue aspettative. Conflitto di stili, perciò, ma altresì conflitto tra le diverse interpretazioni che si danno dei bisogni vitali dell’abitare.

Circa il rapporto con l’interpretazione del bisogno, soprattutto, le scuole si distinguono e le dottrine – e le pratiche – entrano in competizione, quasi a rimarcare dall’interno dell’architettura, nella discutibilità stessa dell’atto configurante, la provvisorietà della vittoria sull’effimero. Formalismo e funzionalismo architettonico sembrano dividersi proprio intorno all’interpretazione dell’atto del costruire quale risposta all’atto dell’abitare, da cui risulta più svincolato nel primo caso e più vincolato nel secondo. Ma in entrambi i casi il pericolo dell’ideologia, per Ricœur, bussa alla porta.

I bisogni. Formalismo e funzionalismo

Per l’architettura il formalismo concettuale è l’equivalente dello strutturalismo linguistico: le «preoccupazioni ideologiche» di chi costruisce prevalgono, e anche prevaricano, le «attese e i bisogni dell’atto dell’abitare». Ricœur rivolge al formalismo architettonico la stessa accusa di autoreferenzialità già rivolta a suo tempo allo strutturalismo linguistico, ossia di concepire il proprio atto a partire dalla propria coerenza interna: dalla visione ideale, dai «valori di civilizzazione», a cui aderisce in prospettiva, e quindi in «funzione del ruolo», assegnato alla propria arte, «nella storia della cultura». E solo qui si fanno dei nomi, che vengono ripetuti identici nelle due varianti di Architettura e narratività: il Bauhaus, Mies van der Rohe, Le Corbusier e i loro seguaci (P. Ricœur, 1998a, p. 49; cfr. P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 70; cfr. P. Derossi, in AA.VV., 1996, vol. I, p. 14; P. Derossi, 2000, pp. 27 e sgg.).

Nel testo presentato alla Triennale, in particolare, si precisa che secondo il formalismo architettonico «le preoccupazioni formali che prevalgono in un certo stile o in una certa scuola devono essere accostate molto più agli orientamenti propri delle altre arti, e più in generale alle visioni del mondo caratteristiche dell’epoca considerata, che non al valore delle attività che gli edifici sono destinati a ospitare»: prevalgono, cioè, «le preoccupazioni ideologiche soggiacenti» all’atto di costruire (P. Ricœur, 1996, vol. I, p.70; cfr. P. Ricœur, 1998a, p. 49).

Il funzionalismo architettonico si contrappone al «formalismo concettuale che trova il proprio limite nelle rappresentazioni che i teorici si fanno dei bisogni delle popolazioni». Nel prendere sul serio i bisogni dell’abitare, l’epoca contemporanea registra un progresso notevole, essendo passati dall’architettura al servizio della «gloria», che prende in considerazione per lo più soltanto le esigenze di committenti privilegiati e benestanti, all’architettura della «dignità» che l’abitare dovrebbe avere per ogni uomo di qualsiasi condizione sociale: si tratta dell’istanza democratica che ha finalmente raggiunto anche il fare architettonico e la costruzione della città.

Non per questo il rischio di ideologia risulta meno grave nel funzionalismo che nel formalismo, soprattutto perché i bisogni dell’abitare, pur invocati, possono diventare ostaggio delle «rappresentazioni che se ne fanno i “competenti”» così che la «speculazione» e la «destinazione dell’architettura» vanno in parallelo. Le «grandi torri» sarebbero il segno più evidente di una simile sovrapposizione tra l’attenzione ai bisogni delle persone e la rappresentazione distorta che se ne può fare l’architettura. Magari per giustificare il proprio costruire comunque. In quest’ottica, l’attenzione ai bisogni è usata alla stessa stregua di un puro pretesto, non di rado speculativo, che colloca presto il funzionalismo architettonico a un livello non meno ideologico rispetto al formalismo. Non meno strumentale. Non meno antidemocratico pur in nome della democrazia dei bisogni.

Il funzionalismo architettonico reagisce allo sradicamento del formalismo, ma rischia a sua volta di radicarsi in un sostituto mentale, e talora interessato, dell’abitare. All’ideologia dello sradicamento si accompagna così quella del radicamento presunto, e pretestuoso, del costruire nell’abitare: presagio di un «ritorno all’architettura pura, svincolata da ogni sociologia e da ogni psicologia sociale, vale a dire da ogni ideologia» (P. Ricœur, 1998a, p. 49; cfr. P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 70). Per inciso, vale la pena ricordare che proprio la necessità di un’«indagine sui bisogni umani» costituisce un punto qualificante del Progetto di una morale sociale, dove sono già collocati nel giusto rilievo non solo i mutamenti, ma altresì i possibili scarti tra bisogni umani e costruzione sociale degli stessi (P. Ricœur, 1966, pp. 292-293).

Formalismo e funzionalismo sono modi con cui l’atto di costruire si rapporta all’abitare dell’umano: il primo riscrivendolo idealmente, il secondo fraintendendolo materialmente. La dialettica tipica del sociale, la tensione intima della città contesa tra ideologia e utopia (P. Ricœur, 1994a), la questione stessa della democrazia attraversano anche l’architettura. Ad ogni modo, il conflitto degli stili rende assai meno lineare la risposta del costruire all’abitare.

Progetto e vivibilità. La rifigurazione

Il rischio di ideologia introduce un’incertezza nell’atto configurante, che apre alla necessità di confrontarsi con il punto da cui si era partiti, con la vita, dove il costruire e l’abitare si affiancano. Nel movimento ermeneutico di Ricœur la prefigurazione indica l’abitare ingenuo, il mondo della vita, mentre la configurazione rappresenta la messa in forma architettonica dell’abitare, la costruzione stessa della città. La «rifigurazione» è invece il momento in cui dal costruire già costruito, dalla città già edificata, si torna all’abitare: «La possibilità di leggere e rileggere i nostri luoghi di vita a partire dal nostro modo di abitare». Si tratta adesso di rivalutare quell’atto di abitare che nella prefigurazione è «contestuale» e nella configurazione è «posteriore» al costruire: «Nella “prefigurazione” l’abitare e il costruire sono stati praticamente la stessa cosa, senza poter dire quale preceda l’altro. Nella “configurazione” il costruire ha avuto la meglio sotto forma di progetto architettonico, al quale si è potuto rimproverare un’inclinazione a misconoscere i bisogni degli abitanti dei luoghi, o a proiettare questi bisogni oltre la realtà. È ora di parlare dell’abitare come risposta o come reazione al costruire, sul modello dell’atto antagonista della lettura» (P. Ricœur, 1998a, pp. 50-51; cfr. P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 71) dove il lettore interagisce e reagisce con il racconto scritto.

Nel momento della rifigurazione riemerge con più forza il soggetto che abita. Ancora nel testo della Triennale, Ricœur intesse uno scambio suggestivo tra il «mondo del testo» e il «testo della città», perché così come il «lettore non recepisce soltanto il senso di una storia raccontata, ma anche il mondo proiettato dal testo», confrontato con il suo proprio «mondo vissuto», allo stesso modo l’abitante della città legge e confronta il testo ch’essa è diventata grazie all’atto di costruire (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 71).

Riportare il costruire all’abitare si snoda tra una risposta, una replica, e un lavoro della memoria con cui il progetto che mette in forma l’abitare mostra altri aspetti della sua provvisorietà.

La risposta e la replica: di fronte al costruire già costruito, l’abitare si propone al tempo stesso come risposta e come replica che si distendono, con tutte le sfumature immaginabili, tra una «ricezione passiva, subìta, indifferente, fino alla ricezione ostile e corrucciata» (P. Ricœur, 1998a, p. 51). Se il costruire risponde all’abitare, l’abitare risponde a sua volta al costruire perché «ogni pianificatore dovrebbe essere consapevole che un abisso separa le regole della razionalità di un progetto – cosa che vale d’altronde per ogni politica – dalle regole di ricezione di un pubblico».

La rifigurazione del costruire attraverso l’abitare è il momento degli scarti: scarto tra la razionalità di un progetto e la sua vivibilità; e scarto tra i bisogni a cui s’appella il costruire e le attese congiunte a quei bisogni; scarto infine tra le politiche, urbanistiche e non, e la loro sopportabilità. Il rapporto tra architettura e democrazia è molto stretto anche dal punto di vista della risposta e della replica da parte di colui che abita a ciò che si è costruito. A maggior ragione quando emergono gli scarti che non bisogna occultare e passare sotto silenzio. La contestazione deve essere possibile. Il disagio deve avere voce. Non va nascosto né deviato.

Lo scarto tra il costruire e l’abitare fa di quest’ultimo anche una replica: non un abitare qualsiasi, ma quello «attento e attivo» che implica una rilettura puntuale dell’ambiente urbano, la consapevolezza continua delle giustapposizioni di stile, e la coscienza che all’edificato sono sempre incrostate storie di vita. Bisogna fare in modo che queste tracce di vita avviluppate al costruito «non siano solo dei resti, bensì delle testimonianze riattualizzate del passato». È l’opera della memoria, opera dello spazio che si è fatto tempo: il rendere presente l’assente che è stato, cosa che può fare solo «la pietra che dura», «gloria stessa dell’architettura» (P. Ricœur, 1998a, p. 44).

Città come testo: la traccia e la memoria

Attraverso la permeabilità reciproca del tempo e dello spazio – attraverso il tempo misto e lo spazio misto – Ricœur recupera l’idea di «luogo della memoria», diventata un po’ «banale». La compenetrazione del tempo e dello spazio pungola a un «lavoro della memoria» che, con Sigmund Freud, si deve contrapporre alla ripetizione ossessiva.

Il lavoro della memoria non è la compulsione ripetitiva del passato, la sua riproposizione nevrotica: in questa, il passato viene annunciato e ricacciato all’indietro nello stesso tempo perché, come ripetizione ossessiva, non ammette eccezioni alla sua lettura, né nel senso della pluralità né in quello dell’intertestualità. La ripetizione nevrotica ribadisce compulsivamente l’identico, ossia il già noto dallo stesso punto di vista. Su questo passato compulsivo non sarà possibile nessun lavoro della memoria perché qualsiasi «novità» gli risulta odiosa. Anziché essere nevroticamente ripetitivo, il lavoro della memoria è ricostruttivo. Nel lavoro ricostruttivo della memoria vanno insieme la cura per il passato e l’accoglienza del nuovo: cura e riorganizzazione del passato per fare spazio al nuovo, curiosità nei confronti del nuovo per valorizzare il passato.

La memoria non lavora nella ripetizione, ma nella ripresa e nella riproposizione. Lavora decontestualizzando per ricontestualizzare, o contestualizzando per decontestualizzare: si tratta allora di «de-familiarizzare ciò che è familiare, e di familiarizzare il non-familiare». La lettura della città costruita si trova così immersa in una pluralità di interpretazioni che vanno lasciate vivere nella loro pluralità. Per questo il lavoro della memoria deve infine accompagnarsi a quello «del cordoglio della comprensione totale e ammettere che nelle nostre città vi è dell’inestricabile. Alternano la gloria e l’umiliazione, la vita e la morte, gli eventi fondatori più violenti e la dolcezza del vivere» (P. Ricœur, 1998a, p. 51).

Città, pluralismo, bene comune

Il cordoglio della comprensione totale della città si ricongiunge pari pari con la conclusione di Tempo e racconto: dopo avere rinunciato a Hegel per l’impossibilità di una sintesi finale, e quindi di una mediazione totale, s’insiste proprio sulle aporie della temporalità, che sorgono all’interno della «mediazione imperfetta», dell’«unità plurale», dell’«imperscrutabilità» del tempo (P. Ricœur, 1988; per Hegel, pp. 310 e sgg.; conclusioni pp. 372 e sgg.). Il cordoglio della comprensione totale si riallaccia pure alle impressioni che si ricavano dal «pensare il sociale» in Ricœur, dove l’abbandono di uno sguardo panoramico non equivale «per nulla all’adesione ingenua e passiva all’ordine (sociale) di ciò che è. Al contrario» (M. Foessel, in AA.VV., 2007, p. 55).

Parole assonanti sulla fine di uno sguardo totalizzante che rimbalzano anche dalla sponda etico-politica quindi, ma con un riferimento preciso alla città e alla sua complessità. La città appartiene infatti all’«economia della grandezza», che porta la pluralità nel cuore stesso dell’esigenza di una giustificazione. La giustificazione di una realtà complessa come la città è operazione a sua volta plurale.

In Percorsi del riconoscimento (2004) Ricœur riprende il riferimento alla città, che viene attratta nell’ordine dell’intima pluralità, della complessità irrisolvibile, dell’impossibilità di una sintesi delle sintesi: appartiene appunto all’ordine della grandezza. Anche la città testimonia, nella sua molteplicità, a favore della «pluralità del principio di accordo», della pluralità stessa del «bene comune», e proprio in quanto comune, perché «il bene comune legittimo ha forma plurale». Con questo, la città non può più accontentarsi di essere «particolare», e si inscrive nell’orizzonte della partecipazione (P. Ricœur, 2005, pp. 231 e sgg.). L’unità della città è un rapporto partecipativo.

Dialogando con Luc Boltanski e Laurent Thévenot, Ricœur è interessato alla pluralità dei criteri di giustificazione, che è l’«operazione di qualificazione delle persone relativamente al posto occupato sulla scala delle grandezze»: con la giustificazione, come per il riconoscimento, è in gioco la «stima sociale», con cui «le singole persone commisurano, infatti, l’importanza delle proprie qualità relativamente alla vita dell’altro, ciascuna sulla base dei medesimi valori e dei medesimi fini» (P. Ricœur, 2005, pp. 228, 231). L’idea di città è presa in un senso preciso, quello appunto per il quale «i regimi di azione giustificata meritano di essere chiamati “città”, nella misura in cui conferiscono una sufficiente coerenza» – anche qui il motivo dell’unità sufficiente – «a un ordine di transazioni umane», così che le «città di Boltanski-Thévenot non sono ideal-types di valutazioni condivise, ma argomentazioni in situazioni di accordo e di controversia» (P. Ricœur, 1998b. pp. 108 e 109; in dialettica con M. Walzer, 1987).

Economie della grandezza. La compromissione

I criteri di giustificazione sono plurali, e alla loro diversità corrispondono città alternative quanto ai propri princìpi di giustificazione: si tratta di sintesi diverse all’interno della città degli uomini. Le città sono alternative perché rivaleggiano circa il diverso criterio di grandezza a cui si affidano, cioè le «credenze condivise che concernono la superiorità dei valori che distinguono ciascuno dei modi di vita propri di una città» (P. Ricœur, 2005, p. 238).

In questo modo:

Nella «città ispirata», la grandezza delle persone si avvale di una grazia, di un dono, che sono senza rapporto con il denaro, la gloria o l’utilità. Nella «città dell’opinione», la grandezza dipende dalla reputazione, dall’opinione degli altri. Nella «città commerciale» vengono negoziati beni rari, soggetti alla bramosia di tutti, mentre le persone sono unite soltanto dalla concorrenza delle brame. Nella «città domestica», che si estende a quella che Hannah Arendt chiamava l’intera famiglia, regnano valori di lealtà, di fedeltà, di riverenza. La «città civile» riposa sulla subordinazione dell’interesse proprio alla volontà di tutti, che è espressa dalla legge positiva. Nella «città industriale» – che non bisogna confondere con la città commerciale, in cui il valore è fatto dalla fissazione istantanea dei prezzi – dominano le regole funzionali di lunga durata, sottoposte al principio superiore dell’utilità» (P. Ricœur, 1998, p. 108; P. Ricœur, 2005, p. 233; cfr. M. Hénaff, 2008, pp. 80 e sgg.).

Si tratta di città diverse, e assunte per di più in un’accezione particolare, ma i riferimenti culturali che le accompagnano lasciano intravedere tutto un immaginario preciso della convivenza, anche dal punto di vista costruttivo e urbanistico: Agostino con La città di Dio per la città dell’ispirazione; Benigno Bossuet con La politica ricavata dalle stesse parole della Sacra Scrittura per la città domestica; Jean-Jacques Rousseau con Il contratto sociale per la città civile; Adam Smith con la Teoria dei sentimenti morali (e La ricchezza delle nazioni) per la città commerciale; e Claude-Henri de Saint-Simon con Il sistema industriale per la città industriale.

Pluralità dei criteri e pluralità delle città, dunque, per dire cosa? La concorrenza dei criteri, le città rivali, l’avvicinamento di città diverse – di mondi diversi – permettono un «confronto», una «critica», una «contestazione»: permettono la possibilità della comprensione di un altro mondo rispetto a quello al quale si appartiene; e questa possibilità svela una «nuova dimensione della persona». La pluralità delle città apre in definitiva sul cambiamento. Avanza infine anche l’idea di una città del «compromesso», che è «la forma che riveste il mutuo riconoscimento nelle situazioni di conflitto», o di «disputa», perché «la capacità al compromesso offre allora», nella città degli uomini, «l’accesso privilegiato al bene comune» (P. Ricœur, 2005, p. 236).

Dentro il pluralismo delle città balugina la città del compromesso, che segue l’interesse per i criteri del mutuo riconoscimento. Ma introdurre il compromesso nella città ha senso solo perché la città in qualche modo è da sempre compromessa: compromessa tra le diverse città che, nell’unica città, convivono e sopravvivono; e compromessa perché la città esprime da sempre una promessa comune, con le sue disattese.

Anche il compromettersi è una forma – forse prima forma – dell’intertestualità della città.