1.
DECOSTRUZIONE O NARRAZIONE?
La città ha aiutato lo sviluppo delle
civiltà.
Ma le civiltà che edificarono le città, morirono sempre con
essa,
o, forse, morirono di essa.
FRANK LLOYD WRIGHT, Architettura e
demptlkocrazia
Sa che la promessa è un’illusione, evoca il
passato moderno
come un fantasma, ne fa la satira,
richiede pluralismo contro l’universalismo,
è per il locale contro la totalità.
Progetta l’inversione del progetto modernista.
Ma progetta ancora, come il modernismo.
JEAN-FRANÇOIS LYOTARD, Alterità e
immaginario postmoderno
Decostruzione e narrazione: la città postmoderna
Dedicata a Identità e differenze, la XIX Esposizione Internazionale della Triennale di Milano del 1994 ospitava l’intervento di due filosofi, Jean-François Lyotard e Paul Ricœur, che nei confronti del gesto architettonico assumono atteggiamenti ben diversi, a segnare modi alternativi di pensare alla città postmoderna. Per quanto sia comune il clima culturale sotteso a entrambi, vale a dire la crisi della modernità quale crisi delle certezze e di una ragione totalizzante, nonché l’approdo inevitabile a un sapere narrativo, gli esiti che ne derivano si incamminano lungo percorsi divergenti.
Il postmoderno che viene indirizzato da Lyotard verso la meta del decostruzionismo rifluisce invece in Ricœur su di un narrare inteso diversamente. Nel primo caso prevale il motivo della frattura e dell’abbandono dei grandi racconti – quelli, cioè, che hanno una «pretesa di valere in modo universale» e la cui «diffusione è necessariamente violenta, talvolta terroristica» (J.-F. Lyotard, 1996, vol. I, p. 52) –, e quindi di una narratività postmodernista concepita sotto la cifra dell’indebolimento. Nel caso di Ricœur si difende un’unità ammorbidita, ma insieme conservata, proprio lungo i sentieri di una narratività ermeneutica ed esplicativa. Decostruzione e narratività non segnano soltanto degli orizzonti di pensiero nell’epoca della crisi delle certezze; riflettono pure modi alternativi di concepire il gesto architettonico, la costruzione della città degli uomini: immagini diverse della convivenza come tentativi di uscire dalla crisi della razionalità moderna.
Proprio intorno al senso del gesto di costruire si esalta la differenza tra il postmodernismo di Lyotard e l’ermeneutica narrativa di Ricœur. Lyotard, ragionando su alterità e postmoderno, arriva perfino a incriminare la «parola progetto» come eredità «profondamente metafisica», essendo tesa alla «legittimazione dell’opera» attraverso la pretesa di «soddisfare una domanda» in modo definitivo: «Domanda di concordia, per ogni essere umano e tra gli uomini nello spazio-tempo abitabili»; e quindi «ciò che resta» nonostante tutto «moderno è il progetto, la promessa del progresso, l’escatologia». Al di là delle sue diversità e delle sue manifestazioni contrastanti, che si esplicitano altresì nelle diverse pratiche architettoniche, quelle che vedono contrapporsi ad esempio un Gaudì a un Mies van der Rohe, un Gropius a un Wright o a uno Speer –, anche nel progettare modernista si tratta pur sempre di promettere una «soluzione finale all’angoscia ontologica dell’abitare e soprattutto all’umiliazione moderna dell’essere messi in scatola – quel che noi chiamiamo essere alloggiati». L’incriminazione del progetto implica ovviamente la necessità di un indebolimento dell’eredità metafisica che alberga nell’architettura, tale da lasciare in conclusione soltanto una domanda: «Come sarà un’architettura così decostruita, un’architettura debole»? (J.-F. Lyotard, 1996, vol. I, pp. 53, 55; cfr. pp. 46-55; cfr. J.-F. Lyotard, 1985, pp. 52 e sgg., P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 65).
All’angoscia ontologica dell’abitare non può esserci, per Lyotard, risposta definitiva e, in questo, il progetto architettonico scopre la propria intima debolezza. Ricœur compie invece la scelta diametralmente opposta: quella, cioè, di riflettere nuovamente sull’atto e sulla progettualità architettonica, per ritrovare una plausibilità formale in senso narrativo.
L’esordio di Ricœur alla Triennale di Milano non lascia dubbi: «È sempre motivo di soddisfazione per un autore scoprire un intero campo di investigazione in cui le sue analisi trovano un’applicazione inaspettata, anzi, più che un’applicazione, una proiezione che conferisce a tali analisi una portata capace di modificarne, come un effetto-boomerang, il primitivo significato. Mi riferisco per esempio alle attuali riflessioni sulla dimensione narrativa dell’architettura e, di conseguenza, sulla dimensione temporale dello spazio architettonico» (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 64; cfr. P.A. Rovatti, 2000, pp. 63-69). Facile notare la progressione di questo esordio: ciò che si presenta dapprima come la sorpresa per un’«applicazione» insospettata – la dimensione narrativa dell’architettura – diventa subito dopo una «proiezione» intima del proprio pensiero, per assumere infine il volto di un vero e proprio «ripensamento»: in breve, di un «effetto-boomerang».
Cosa avesse inteso fare esattamente, Ricœur lo dice, ricordandosi dell’intervento alla Triennale, in La memoria, la storia, l’oblio (La mémoire, l’histoire, l’oubli, 2000):
Avevo tentato di trasporre sul piano architettonico le categorie legate alla triplice mimesis, esposte in Tempo e racconto I: prefigurazione, configurazione, rifigurazione. Mostravo nell’atto di abitare la prefigurazione dell’atto architettonico, nella misura in cui il bisogno di riparo e di circolazione delinea lo spazio interno della dimora e gli intervalli dati da percorrere. A sua volta, l’atto di costruire si dà come l’equivalente spaziale della configurazione narrativa mediante la costruzione dell’intreccio; dal racconto all’edificio, la stessa intenzione di coerenza interna abita l’intelligenza del narratore e del costruttore. Infine, l’abitare, risultante dal costruire, era ritenuto l’equivalente della «rifigurazione» che, nell’ordine del racconto, si produce nella lettura: l’abitante, come il lettore, accoglie il costruire con le sue aspettative e anche le sue resistenze e le sue contestazioni. Davo compimento al saggio con un elogio dell’itineranza (P. Ricœur, 2003, p. 210, nota 17).
Affiancando l’arte del costruire a quella del raccontare, lo spazio al tempo, Ricœur ha dunque voluto istituire un parallelismo ritmato – anche per «chiarezza didattica» (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 68) – che, a partire dalla sponda narrativa, illustri il gesto del costruire entro la griglia del prefigurare, del configurare e del rifigurare.
Filosofi, architetti e democrazia
Da un lato troviamo dunque il decostruzionismo di Lyotard o di Derrida (J.-F. Lyotard, 1988; J. Derrida, 1976; J. Derrida, 2008), che mette a sua volta sotto accusa la gerarchia metafisica tra parola e segno a favore della parola: pensiero logocentrico, che nega l’autonomia di significato dell’opera fin tanto che la parola non ne rende infine comprensibile il significato. Dall’altro lato abbiamo l’intelligenza narrativa di Ricœur, che si struttura intorno alla compenetrazione tra raccontare e costruire. Da una parte la messa sotto accusa dell’intento soggiacente al progetto, dall’altra la sua rilettura narrativa.
La differenza tra i due modi di pensare al rapporto tra identità e differenze – di pensare alla città – dentro la crisi della razionalità moderna si cala dunque nel fare architettonico, e nell’urbanistica. A un’architettura decostruzionista, che segue la falsariga dell’indebolimento e della decontestualizzazione, dell’emergenza dell’altro come irriducibilità a un ordine preconfezionato di senso – e quindi un’architettura dello «spiazzamento» e della «sorpresa» intenzionale, della decodificazione linguistica, della dispersione – si affianca e si contrappone un’architettura narrativa, dove prevalgono i concetti di testo e di contesto, di identità narrativa.
Filosofi e architetti, dunque, che si richiamano a proposito di come pensare l’alterità che avanza e, con essa, una diversa vicinanza. Anche nel caso di Ricœur, Architettura e narratività ha dato spunto nella versione della Triennale – quella definitiva è stata pubblicata su «Urbanisme» nel 1998 – a un seminario milanese del 1999 che metteva a tema proprio la questione di una «legittimazione» dell’architettura dopo «la perdita di credibilità del grande “récit” del movimento moderno, anche dovuta alla constatazione dei discutibili risultati dei suoi esiti rispetto alla costruzione e al rinnovamento della città»: con la preoccupazione quindi, secondo Pietro Derossi, di «partecipare al dibattito sulla democrazia» (P. Derossi, in AA.VV., 2000, pp. 7, 8; P. Derossi, 2000, pp. 25-26; cfr. L. Benevolo, 1987, p. 268). Ma non si tratta di una novità assoluta, perché anche un altro saggio di Ricœur, Civilizzazione universale e culture nazionali (Civilisation universelle et cultures nationales, 1961), compare già in bella vista nella Storia dell’architettura contemporanea di Frampton (K. Frampton, 1990, pp. 371-373, 386), in apertura del capitolo dedicato al conflitto tra universalismo e regionalismo architettonico: di nuovo, quindi, in chiave postrazionalistica e postmoderna.
Il diverso modo di essere postmoderni per così dire, quello della decostruzione e quello della contestualizzazione narrativa, esprime reazioni differenti alla frattura insanabile che per un verso ha messo in crisi le pretese di una razionalità monovalente e che, per un altro verso, si è trovata investita dall’annuncio dell’alterità dell’altro. La stessa XIX Esposizione della Triennale di Milano, che metteva a fuoco Identità e differenze, si presentava come «un contributo espositivo alla convivenza civile» (P. Berté, in AA.VV., 1996, vol. I, p. 7).
Il motivo della differenza, dell’alterità – motivo di un’umanità più umana – rimbalza quindi dalla sponda filosofica a quella architettonica, dal versante etico a quello urbanistico. Si tratta in definitiva di pensare (e ripensare) i luoghi dove l’altro si fa vicino, e dove il vicino si fa altro.
Urbanesimo e socialità
Il rapporto tra identità e differenze attraversa il pensiero, e attraversa la città: alla tensione etica dell’urbanistica corrisponde una tensione urbanistica dell’etica.
L’intervento di Ricœur alla Triennale non rimane un episodio isolato: applicazione insospettata, trova diversi riscontri non solo in un’architettura narrativa, ma anche nella sua vasta produzione. Per quanto concerne l’ultimo Ricœur, l’applicazione inaspettata dell’ermeneutica narrativa all’architettura ha dato vita in effetti a un continuo ritorno: ritorna infatti sul nesso tra il tempo raccontato e lo spazio costruito, tra l’umano e l’abitare, ma con modifiche e ripensamenti, addirittura con delle inversioni di impostazione.
Presentato alla Triennale nel 1994, Architettura e narratività viene riproposto, come detto, in una nuova versione sulla rivista «Urbanisme» nel 1998: nel suo impianto il discorso si affida sempre al parallelismo tra narrazione e costruzione, con l’unica differenza di asciugare infine la parte preliminare dedicata alla narratività per dare più rilievo all’architettura.
L’inclusione del rapporto tra architettura e narratività all’interno di La memoria, la storia, l’oblio, invece, assume uno spessore più autonomo. Qui non si tratta più di arrivare allo spazio vissuto dell’abitare partendo dal tempo, ossia dalla sponda narrativa, perché «dalla fenomenologia dei “posti” che esseri in carne ed ossa occupano, abbandonano, perdono, ritrovano – passando attraverso l’intelligibilità propria dell’architettura – fino alla geografia, che descrive uno spazio abitato, il discorso dello spazio ha tracciato, esso stesso, un percorso secondo cui lo spazio vissuto è, volta a volta, abolito dallo spazio geometrico e ricostruito al livello ipergeometrico dell’oikoumene» (P. Ricœur, 2003, p. 215; cfr. p. 578, nota 120). Lo spazio traccia adesso, esso stesso, il suo discorso, dal corpo vissuto allo spazio costruito e da questo fino alla cartografia e alla geografia: fino a quel punto in cui, come scrive Diego Valeri per Venezia, «la storia degli uomini inscritta nelle forme dell’arte edificatoria, si trova qui a immediato contatto con gli elementi naturali più indocili: l’aria libera e l’acqua viva» (D. Valeri, 1974, p. 30).
Architettura e narratività non rimane del tutto isolato neppure guardando all’indietro, anche se è vero che non si raccolgono poi molti testi dedicati in modo esplicito al tema della città (cfr. T. Paquot, in AA.VV., 2007, pp. 167-183), trattandosi in sostanza di alcuni interventi risalenti agli anni Sessanta: Urbanizzazione e secolarizzazione (P. Ricœur, 1967, pp. 327-341) – un fitto dialogo con La città secolare di Harvey Cox (cfr. H. Cox, 1968) –, e il già ricordato Civilizzazione universale e culture nazionali (P. Ricœur, 1961, pp. 439-453), ricompreso nella seconda edizione di Storia e verità (1964), a cui si possono aggiungere le note del Progetto di una morale sociale (P. Ricœur, 1966, pp. 285-295).
Tra le mani sembra dunque rimanere non molto a proposito della città, così da registrare, per Ricœur ma anche per Emmanuel Lévinas, il sentore di pensieri senz’altro importanti «a proposito dell’ospitalità e dell’alterità, che stanno alla città come il pesce all’acqua» e che pure «restano muti o quasi circa i processi di urbanizzazione che stravolgono l’esistenza di ognuno» (T. Paquot, in AA.VV., 2007, p. 168; cfr. T. Paquot, 2000, pp. 68-83).
Altri segnali invitano però a valutare qualche ulteriore elemento, che rianima un poco il tema della città. Trent’anni passano, non c’è dubbio, tra gli interventi degli anni Sessanta e Architettura e narratività con le sue appendici. E passa soprattutto una diversità di messa a fuoco: mentre l’ultimo saggio è di tono urbanistico e architettonico, concentrato com’è sull’atto di costruire, quelli degli anni Sessanta attraversano la città alla ricerca di una morale sociale, o indagando il fenomeno della secolarizzazione e dell’incipiente globalizzazione. Registri diversi, dunque, che si intersecano e che si articolano tra di loro: da un lato le questioni etiche e politiche sottese ai macro-fenomeni sociali, dall’altro lato la concretezza materica della città costruita. Al di là della distanza e degli accenti diversi, è possibile tuttavia intravedere alcuni elementi di continuità e di convergenza. Elementi, ancora, di una consapevolezza.
La vicinanza tra l’interesse più etico-politico e quello più architettonico-urbanistico della riflessione sulla città si lascia cogliere proprio attraverso la registrazione di una doppia spinta teorica: quando si parte dalla sponda etica e socio-politica, si allude comunque molto da vicino alla configurazione della città, mentre quando viene tematizzata la questione urbana ci si riavvicina all’etico. Dei precisi elementi di inclusione lessicale, inoltre, testimoniano le vicinanze e i rimbalzi.
Patologia urbana
La città postmoderna che sorge nella crisi delle certezze impone un ripensamento, anche perché pone di fronte a un singolare paradosso: in questa città, per un verso tutto cambia velocemente, mentre per un altro sembra che il vuoto delle certezze sia subito riempito dall’omogeneità della globalizzazione forzata degli stili di vita. Il cambiamento urbano è mutamento umano, lo stravolgimento della città è uno straziarsi della vita. La sofferenza urbana è patologia sociale.
L’allusione alla città sul versante etico in particolare non si consuma del tutto in un vago rimando. In Percorsi del riconoscimento (2003) Ricœur dedica un intero paragrafo – Le economie della grandezza – al rapporto tra la città e il pluralismo, nel contesto di un discorso sul mutuo riconoscimento implicato dal legame sociale: mediato da una sponda sociologica (P. Ricœur, 2005, pp. 231 e sgg.; cfr. L. Boltanski, L. Thévenot, 1991; e anche P. Ricœur, 1998b, pp. 101-102, 108 e sgg.), questo intervento conferma che la città continua a rappresentare un pungolo per il suo pensiero, documenta l’affacciarsi sui mondi culturali della città, e insiste sulla pluralità stessa dei suoi modi di essere. L’attenzione alla città viene inoltre confermata dalla ripresa degli interessi etici e politici dell’ultimo Ricœur, e dalla progressiva e più marcata apertura al tema della responsabilità (cfr. P. Ricœur, 2005; P. Ricœur, 1991a; M. Foessel, in AA.VV., 2007, pp. 37- 56; M. Piras, 2007; per la responsabilità, cfr. P. Ricœur, 1998b, pp. 31-56; P. Ricœur, 2004b, pp. 53-67).
In breve, la complessità della lettura della città viene mantenuta viva nel rimbalzo tra una sponda e l’altra. E questo permette di cogliere anche la continuità tra Architettura e narratività e i saggi degli anni Sessanta dedicati alla città.
A partire dall’impressione che l’umanità stia diventando sempre più un «corpo unico» planetario, Ricœur individua, quasi a cogliere le grandi spinte contemporanee alla dispersione della città, i caratteri principali di questa incipiente «civilizzazione universale» (P. Ricœur, 1961): la scienza che oltrepassa le frontiere; la tecnica come situazione irreversibile; l’omogeneità della razionalità politica e dell’economia; l’uniformità globale dello stile di vita improntato al consumo. Dinnanzi allo scontro in atto tra la civilizzazione universale e l’usura delle culture nazionali, Ricœur mette in guardia contro il rischio di un estremo impoverimento culturale e si appella al dialogo e all’incontro.
In Urbanizzazione e secolarizzazione (1967) Ricœur avvicina più direttamente il tema della città, grazie alla mediazione di Cox di cui condivide la diagnosi sulle trasformazioni in atto nella città contemporanea: la città tende a diventare un «fatto di comunicazione»; i rapporti personali diventano più anonimi e frammentati; la città tecnologica accelera la propria velocità in modo generalizzato; ci si apre collettivamente a un futuro inedito senza più rimpianti per il «villaggio» o la piccola città, autoripiegati su se stessi. In parte inquietato per la perdita di intelligibilità della città, Ricœur ne approfitta piuttosto per interrogarsi sulla condizione umana nell’epoca della secolarizzazione, sottolineando tra l’altro i motivi dell’itineranza e della responsabilità.
Nel saggio su il Progetto di una morale sociale nell’epoca della società industriale avanzata (P. Ricœur, 1966) infine, dove si respira in parte lo stesso clima della secolarizzazione, fa capolino anche il motivo della narratività, e alla città si rimanda come a ciò che ospita e sorregge il lavoro e i bisogni, la proprietà e la socializzazione, l’esistenza tecnologica, le battaglie ideologiche.
Tra questi testi degli anni Sessanta e Architettura e narratività bisogna soprattutto osservare una singolare inclusione di termini. Ritorna difatti l’identica insistenza sulla parola itineranza, che accompagna tanto la responsabilità per l’umano quanto quella per la città, sia in Urbanizzazione e secolarizzazione (cfr. P. Ricœur, 1967, pp. 335, 340) sia a conclusione di Architettura e narratività (P. Ricœur, 1996, vol. I, p. 72; cfr. P. Ricœur, 1998a, p. 51), ribadita ancor più dall’ulteriore ripresa in La memoria, la storia, l’oblio (P. Ricœur, 2003, p. 211). Non è di certo l’unico richiamo: torna ad esempio anche il tema dei «bisogni», introdotto nel Progetto di una morale sociale (P. Ricœur, 1966, pp. 292-293). Sull’itineranza vi è però un’insistenza strategica: nella città degli uomini essa è al tempo stesso visita, narrazione, mobilità, erranza. È spazio che si fa tempo, tempo che si fa spazio. È corpo vissuto: condizione umana, condizione urbana.
Non sorprende perciò, e fa anzi riflettere, quanto dice Ricœur in Urbanizzazione e secolarizzazione a proposito della «patologia della città» nel contesto dei rapidi mutamenti attuali. Di fronte alla constatazione che non tutto nell’improvvisa accelerazione cittadina è positivo, si sottolinea il rapporto tra la patologia della città e la patologia sociale: da un lato «oggi si parla di un’“urbanistica” proprio perché questa patologia è avvertita come insopportabile: l’urbanistica è la risposta alla patologia urbana», dall’altro lato la patologia urbana è «l’espressione mostruosa della patologia della società globale: la città svolge una funzione di drenaggio rispetto a tutto il patologico diffuso» (P. Ricœur, 1967, p. 330). Nell’«immagine della città» si travasa una sofferenza urbana che è una sofferenza sociale: la città condensa in sé, e rende visibile, la patologia diffusa di una convivenza.
Da questo punto di vista diventa di particolare significato Architettura e narratività: la prima parola si concentra in modo inedito sull’atto di costruire, la seconda evoca il movimento complessivo della filosofia ermeneutica di Ricœur. La narratività trascina infatti con sé il linguaggio e la scrittura, il tempo e la memoria, l’identità personale e sociale: l’umanità stessa dell’umano. La città appare e si tematizza là dove si mette a fuoco l’umano sociale, così come all’umano sociale ci si riferisce all’interno del discorso sulla forma urbana della città, sull’atto di costruire. Tra le parole che descrivono la città costruita si frammischiano quelle della «vita», dei suoi «luoghi», della sua «memoria», della sua «quotidianità».