3. URBANIZZAZIONE E SECOLARIZZAZIONE1
Lo scopo di questa esposizione è duplice: a) analizzare i rapporti tra il fenomeno dell’urbanizzazione, considerato nel suo grado massimo di sviluppo, e il fenomeno culturale di secolarizzazione; b) indagare quali compiti si presentano oggi – nella città all’epoca della secolarizzazione – a una teologia della cultura e, più in generale, alla predicazione della Chiesa. Il primo di questi due progetti è già di per sé impegnativo in quanto mette in contatto diretto due fatti sociologici molto importanti che competono a metodi differenti: da un lato la sociologia urbana, settore della sociologia delle società industriali avanzate, e dall’altro lato la sociologia della cultura2.
I. La città
Partendo dal fenomeno dell’urbanizzazione ne prenderò in considerazione alcuni caratteri scelti in funzione delle possibilità offerte all’uomo dalla grande città, allo scopo di confrontarli poi con il fenomeno della secolarizzazione.
1. Moltiplicazione, astrazione ed estensione delle relazioni e degli scambi
Limitandosi al suo aspetto quantitativo si sfiorerebbe solo marginalmente il fenomeno «città», in quanto il carattere di agglomerato umano in uno spazio concentrato non riesce a definire la città in modo né comprensivo né parziale: essa è innanzitutto un fatto di comunicazione; simile a un enorme svincolo, a un gigantesco quadro degli strumenti, istituisce tra gli uomini un reticolo denso e ramificato di relazioni, non solo più numerose, ma anche più lunghe, più varie, più specializzate e più astratte. Per l’uomo tutto questo significa avere allo stesso tempo sia occasioni di incontro che occasioni di scelta sempre più numerose. Si potrebbe descrivere il fenomeno in termini di informazione: la città sottopone l’uomo a un diluvio di segnali e lo costringe a una decodificazione di messaggi che aumentano contemporaneamente il suo campo d’informazione e il suo campo di decisione.
Con Harvey Cox mi sono interessato a un effetto presentato di solito come una piaga della civilizzazione moderna: l’anonimato delle relazioni umane. Occorre invece descriverlo innanzitutto in maniera neutra, come una nuova ridistribuzione tra privato e pubblico e – ancor più fondamentalmente – come una reazione di difesa o, meglio ancora, come una immunizzazione contro le innumerevoli interferenze altrui dovute alla molteplicità dei contatti. Per instaurare o proteggere delle relazioni personali elettive e preziose non c’è altro modo se non neutralizzare la maggior parte degli scambi sociali: il socius diventa tollerabile nella misura in cui gran parte delle nostre relazioni restano segmentarie. Questa spersonalizzazione della maggior parte delle nostre relazioni ha un aspetto positivo nella misura in cui riserva un ambito di incontro autentico. Ciò significa almeno che non tutte le relazioni sociali possono essere trascritte nel linguaggio dell’«io» e del «tu».
2. Mobilità accelerata (geografica, residenziale, professionale, sociale, psicologica, ecc.)
La città può essere descritta come un contesto di migrazione interna. Questo fenomeno si ricollega al precedente in quanto è la migrazione che produce l’instaurarsi delle relazioni e dei contatti precedentemente evocati. La mobilità aggiunge però un tratto nuovo: per la maggior parte degli uomini il luogo di residenza e quello di lavoro sono adesso molto distanti tra loro, e questa distanza geografica implica anche una distanza psicologica. I diversi ruoli sono dissociati e dilaniati: i cambiamenti di ruolo assumono la forma del viaggio, a volte quella di uno spaesamento, sempre quella di una de-familiarizzazione. Per l’uomo moderno la mobilità è una prova certa: obbliga al cambiamento sociale, talvolta a quello professionale; richiede una grande flessibilità di accoglienza e confronto; abbassando le soglie di accettazione e di tolleranza rende più difficili gli scontri tra convinzioni rivali facendoli oscillare dall’aggressività all’indifferenza. Inoltre, la mobilità accelerata non è avvertita da tutti i gruppi sociali nello stesso modo: come sanno bene tutti i migranti, per i non privilegiati lo sradicamento è la via difficile per l’adattamento al mondo moderno; per essi la mobilità è finalmente liberante, ma al prezzo di notevoli sofferenze. Per i privilegiati, invece, la mobilità assume spesso la forma del viaggio e delle vacanze, e nonostante il nomadismo e lo sradicamento che la caratterizza, i suoi effetti culturali sono ampiamente benefici.
3. Organizzazione concentrata
La concentrazione geografica richiamata all’inizio rappresenta solo l’aspetto superficiale e quantitativo di un fenomeno funzionale molto più importante che ha origine nell’organizzazione moderna del lavoro. La «metropoli» è la «tecnopoli», dominata dal modello burocratico di divisione e organizzazione del lavoro. La città è il luogo in cui si avverte fisicamente la conversione del settore primario nel secondario (gli antichi contadini e artigiani divenuti cittadini) e la crescita rapida del territorio (commercio e distribuzione, amministrazione e relazioni sociali, istruzione e divertimenti, ecc.). Nella città l’assembramento degli uffici direzionali delle industrie, del sistema bancario, del sistema di distribuzione, scambio e vendita mostra agli occhi di tutti che siamo nel regno dell’uomo dell’organizzazione. Attorno a questo nucleo tecnologico si snoda il sistema – molto differenziato – delle infrastrutture educative, sanitarie, dei divertimenti e del tempo libero, ecc. Tutto ciò rende la città l’apparato logistico dei ruoli sociali.
4. L’immagine che la città ha di sé
La rappresentazione collettiva che l’uomo elabora è parte integrante del «fenomeno» città tanto quanto la sua realtà. Sia che si pensi alle immagini mitiche della «città» come forma visibile di un modello celeste (Babilonia, Gerusalemme, in una parola tutte le «città di Dio»), sia che si pensi all’identificazione greca tra la città e la cellula del politico (polis), c’è sempre un’immagine della città. Ebbene, noi moderni percepiamo la città come la principale testimonianza dell’energia umana: la città è l’opposto della terra, che è un prodotto della natura. La città è l’artificio assoluto, realizzazione del progetto umano. Questa immagine del potere umano è al contempo immagine di un’energia rivolta essenzialmente verso il futuro. La città è sempre in progettazione, protesa verso il proprio futuro. La città è il luogo in cui l’uomo percepisce il cambiamento come progetto umano; il luogo in cui l’uomo intravede la propria «modernità».
La città implica allora solo degli aspetti positivi? L’ho descritta in termini neutri, come una nuova qualità delle relazioni umane. Questa opportunità, questa possibilità, è vissuta a volte come liberazione e a volte come costrizione: liberazione dalle costrizioni del villaggio e della cittadina, ma nuovo tipo di costrizione. Impossibile quindi negare la patologia della città, mischiata inestricabilmente alla ricerca di un nuovo equilibrio dinamico. Oggi si parla di «urbanistica» proprio perché questa patologia è avvertita come insopportabile: l’urbanistica è la risposta alla patologia urbana. Significa che la città non può continuare a crescere secondo il suo moto naturale, ma questo deve essere controllato, regolato e orientato. Non c’è solo una patologia della città, perché questa è l’espressione mostruosa della patologia della società globale: la città svolge una funzione di drenaggio rispetto a tutto il patologico diffuso.
I quattro caratteri principali attorno ai quali è stata organizzata la descrizione della città odierna presentano difatti ciascuno una propria patologia.
La comunicazione è avvertita come un eccesso di segnali, un diluvio di informazioni che logorano, nel senso fisico e psichico del termine, la nostra capacità di integrazione e di discernimento. L’ingorgo delle nostre città è il simbolo di un tratto patologico generale: l’intasamento e la saturazione delle relazioni, che non uniscono più. L’anonimato non è soltanto un modo per renderci immuni dall’eccesso di segnali e di segni, ma è anche una sottile destituzione dello stesso spazio privato.
La mobilità non è solo funzionale, ma anche aberrante: l’ammassamento degli emarginati nelle periferie delle nostre città, la fuga dei ricchi verso la cintura urbana, il deterioramento delle grandi città a partire dal centro, attestano che la mobilità sociale non è un fenomeno esclusivamente positivo. Il neo-nomadismo dell’uomo moderno significa anche sradicamento e perdita di un centro. Nell’eccesso dei confronti, l’abbassamento del tasso di tolleranza insinua l’indifferenza e il cinismo.
La concentrazione organizzata ha anch’essa la sua patologia. Le nostre città soffrono nello stesso tempo di un eccesso di organizzazione burocratica e di una carenza di amministrazione; la città moderna è come un fenomeno canceroso incontrollato in cui l’uomo percepisce il proprio destino al contempo come massiccio e parcellare: luogo della costrizione generalizzata, della sovra-repressione descritta da Herbert Marcuse, essa è anche il luogo della segmentazione della personalità.
Abbiamo infine descritto la città come l’immagine dell’energia umana, ma questa energia – nella misura in cui è dominata dalla tecnica – rischia di perdersi in un futurismo vuoto, in un prometeismo vano, a causa della perdita della memoria. Tutto l’ambito tecnologico è un ambito futurista senza tradizione: l’invenzione tecnica si accumula cancellando il proprio passato. È vero che le «vecchie città» sono anche delle città d’arte, a volte degli autentici musei; la città è allora uno svincolo da un altro punto di vista rispetto al precedente: uno svincolo fra la tradizione e la proiezione del futuro. Ma nella misura in cui l’elemento dominante nella costruzione della città è tecnologico, la città rischia di essere anche il luogo nel quale l’uomo percepisce l’assenza di qualsiasi progetto collettivo e personale, l’ingranaggio dei mezzi nell’assenza di scopi e nella perdita del senso.
Nella riflessione che segue, relativa a quella parte di azione terapeutica di cui sono oggi responsabili le società di cultura e di pensiero e – con esse e tra esse – le comunità ecclesiali, si dovrà tenere presente questa ambiguità e ambivalenza della città.
II. Il rapporto tra secolarizzazione e urbanizzazione
Si tengano a mente alcune nozioni fondamentali circa la secolarizzazione. Con secolarizzazione si intende innanzitutto un fenomeno istituzionale, ossia l’emancipazione della maggior parte delle attività umane dalle istituzioni ecclesiastiche. In questo primo senso, la secolarizzazione è sinonimo di laicizzazione: il comune cessa di coincidere con la parrocchia, l’autorità politica si separa dall’autorità religiosa. Il trasferimento del potere dall’uomo di Chiesa all’uomo civile e politico è stato contrassegnato da una serie di crisi che hanno interessato l’uno dopo l’altro i comuni, gli ospedali e le scuole.
In un secondo senso la secolarizzazione si caratterizza per l’abolizione della distinzione tra la sfera del sacro e quella del profano. Questa distinzione che attraversa il tempo (festa e giorni profani), lo spazio (luoghi santi e edifici pubblici), i ruoli sociali (il prete e il laico), la rappresentazione del mondo (il cielo e la terra), i sentimenti (la pietà e la giustizia) tende a scomparire per l’uomo moderno; e questa scomparsa caratterizza la modernità in quanto tale. La dissoluzione delle tradizioni religiose particolari, che appaiono al giorno d’oggi come dei provincialismi culturali che resistono alla società industriale universale, si ricollega a tale soppressione.
Sullo sfondo dei due fenomeni precedenti si può individuare un fattore fondamentale di carattere antropologico: la promozione dell’uomo come soggetto autonomo della propria storia. Questo fenomeno è stato spesso indicato come il farsi adulto dell’uomo: al limite, si può descriverlo come la promozione dell’uomo a-religioso – nel senso inteso da Bonhoeffer quando presagiva l’approssimarsi di un tempo senza religione, un tempo dell’uomo senza alcuna religione.
Come si ricollega dunque il fenomeno della città a quello della secolarizzazione sopra descritto per sommi capi? Si può dire che ne è sia l’effetto che la causa. La città accelera la secolarizzazione proprio mentre quest’ultima ne costituisce la condizione culturale di possibilità. Così, l’uomo della comunicazione anonima – mostrata precedentemente come primo carattere dell’urbanizzazione – è certamente un uomo secolarizzato: per lui le relazioni esteriori prevalgono sull’interiorità. La mobilità accelera poi la secolarizzazione perché infrange la chiusura delle società tradizionali e condanna gli uomini a una totale mescolanza. Allo stesso modo, anche l’organizzazione è un fattore di secolarizzazione in quanto costringe a rappresentarsi i ruoli sociali in modo essenzialmente laico: questi sono sempre meno degli «ordini» con fondamento tradizionale e sacrale, delle istituzioni di origine mistica che affondano le radici in un passato lontano; sono invece sempre più delle relazioni funzionali e non tradizionali che non aspirano ad alcuna origine o significato ultimo. Orientate verso il futuro più che radicate nel passato, queste relazioni non pretendono di donare un senso ultimo alla vita: sono segmentarie e non inglobanti. Tutto questo è stato sottolineato con forza da Harvey Cox. Da ultimo è inutile insistere sul carattere profano, radicalmente secolarizzato, dell’immagine della città: la città è effettivamente il mondo da cui gli dèi sono fuggiti e in cui l’uomo è consegnato a se stesso, alla responsabilità dell’artificio integrale.
III. Per una teologia della cultura
Sarebbe inutile tentare di articolare, partendo direttamente da questa descrizione, una riflessione ecclesiologica e domandarsi quale possa essere il compito della Chiesa nell’epoca della secolarizzazione e dell’urbanizzazione. Al giorno d’oggi, tra la sociologia e l’ecclesiologia occorre inserire una teologia della cultura. E bisogna riconoscere che in questo intervallo resta ancora tutto – o quasi tutto – da realizzarsi. Per questo La città secolare di Harvey Cox rappresenta, malgrado il suo carattere improvvisato, uno studio pionieristico.
Innanzitutto Harvey Cox formula la questione correttamente: per poter assumere nella predicazione cristiana i motivi fondamentali della secolarizzazione, occorrerebbe che tale processo avesse delle radici nelle origini stesse di questa predicazione, vale a dire nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Questa è certamente la questione preliminare. In questo genere di ricerca la teologia della cultura conferma il dibattito ermeneutico poiché il modo di leggere la Scrittura dipende dal modo di leggere la cultura contemporanea: se è vero che il problema ermeneutico è dovuto alla distanza culturale che separa il nostro tempo da quello in cui «quelle cose furono dette», c’è anche un rapporto circolare tra l’attualizzazione della predicazione primitiva e il discernimento delle radici bibliche del processo di secolarizzazione. Per questo motivo tutto si gioca nello stesso tempo in una piena reciprocità tra l’intelligenza biblica e l’intelligenza del nostro tempo.
Questo è quindi il primo fondamento sul quale è possibile costruire poi una teologia dello sviluppo, una teologia della società responsabile, se non addirittura una teologia della rivoluzione (ma questo aspetto non riguarda direttamente l’obiettivo attuale di questa esposizione).
Harvey Cox individua tre linee guida in grado di offrire quella che io chiamerei una struttura d’accoglienza per una teologia della città secolare: disincantamento della natura, desacralizzazione della politica, sconsacrazione dei valori.
• Disincantamento della natura: l’intenzione profonda di demitizzare la natura e di offrirla conseguentemente all’iniziativa e alla responsabilità dell’uomo va cercata soprattutto nell’Antico Testamento. La lotta contro i Baal, dèi della natura e signori della Terra, l’annuncio di un Dio che non è rappresentabile, in particolare con gli astri o con le forze della natura, l’annuncio di un Dio che ha un solo nome e non di base cosmica, la predicazione di un Dio che inaugura e accompagna una storia più che consacrare una natura, tutti questi temi trovano rispondenza in un’antropologia dove l’uomo, colui che impone i nomi, è chiamato a dominare la natura. Di conseguenza, ciò che Max Weber aveva chiamato il «disincantamento della natura» non documenta soltanto la dissoluzione della religione nella cultura contemporanea ma anche l’affiorare di un tema che è originariamente biblico.
• Desacralizzazione della politica. In effetti l’Esodo può essere considerato come una rottura con la politica sacrale dei Faraoni: la storia di Israele non è segnata da re intronizzati e sacralizzati, ma dai profeti, dagli scribi e dai farisei. Nonostante gli sforzi per dotarsi di una politica comparabile a quella dei suoi potenti vicini, Israele non è mai riuscito a instaurare una politica divina e ha così realizzato la sua più autentica destinazione, iscritta nell’atto di rottura dell’Esodo. Il Nuovo Testamento, collegando la Passione di Cristo al processo romano, vale a dire alla colpevolezza del politico, dà un primo compimento a questa politica non divina: lo Stato divinizzato appartiene ormai alle potenze e alle dominazioni che sulla Croce sono state vinte.
• Sconsacrazione dei valori. La lotta contro gli idoli, che ha il suo culmine nel Secondo Isaia, ha delle notevoli implicazioni etiche. Basti ricordare come il Secondo Isaia profana gli idoli: tu prendi un ceppo, lo tagli in due, con una metà ti riscaldi e con l’altra costruisci un dio. Nietzsche dirà la stessa cosa circa la nascita dei valori: l’uomo con lo stesso legno garantisce da un lato la conservazione e l’espansione del proprio volere e proietta, dall’altro lato, i propri valori nel cielo dell’ideale. Siamo così rinviati all’invenzione storica dei valori, in relazione alla quale il Vangelo dona soltanto un assoluto – l’amore – ma nessun tabù o proibizione. Con questo noi siamo rinviati alla nostra responsabilità, affidati alla formazione inter-umana e profana di un’etica.
Questo è il primo fondamento di una teologia della cultura. Su questa base è possibile edificare due livelli: in primo luogo una teologia del cambiamento sociale, e in secondo luogo una teologia del controllo responsabile.
• La teologia del cambiamento sociale permette di riprendere i primi due punti della descrizione: l’allargamento della sfera delle relazioni e l’accelerazione della mobilità. Se la precedente analisi delle intenzioni fondamentali della Bibbia è esatta, è allora possibile accogliere il fenomeno della secolarizzazione in modo positivo e riconoscere il nostro bene negli aspetti che a prima vista ci fanno tremare e ci inquietano, come la rottura delle tradizioni, la disponibilità a nuovi contatti, l’apertura al futuro, l’accettazione dell’altro. Il regno dell’anonimato e questa specie di neo-nomadismo, che sembrano voler estendere il loro dominio, sono i due punti che meritano in particolare una riflessione in quanto costituiscono il punto critico della nostra accettazione della «modernità».
La mobilità alla quale sembriamo condannati non dovrebbe sorprenderci: il popolo ebraico non è forse stato nomade prima di legarsi stabilmente a una terra, e soprattutto a dei luoghi santi, a un tempio? Nella cultura ebraica la despazializzazione di Dio, operata dalla teologia del «nome», non ha trovato il proprio compimento; può forse essere che tutte le implicazioni di questo «non-luogo» di Dio prendano senso nella nostra cultura? Lo stesso Gesù ha avuto come autentici interlocutori i nonintegrati, i non-devoti, i «contadini». La famosa affermazione di Paolo – «non c’è né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né uomo né donna poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» – non sta forse lasciando segni nell’incessante mescolanza delle grandi città? E l’itineranza, se intimamente solidale con una teologia della speranza, non mostra forse la priorità della categoria del futuro rispetto a quella del presente e del passato, a dispetto di ogni insediamento? Nell’epoca della civilizzazione rurale e della piccola città, il cristianesimo è stato ri-spazializzato: il tema dell’itineranza è stato trasferito sul viaggio verso la patria celeste, fornendo un alibi all’insediamento su questa Terra. Senza un ritorno a questa tematica radicale, nessuna teologia del cambiamento sociale è possibile. Noi siamo itineranti di luogo in luogo: la predicazione cristiana lo ha sempre affermato, ma la cristianità ha sempre dislocato «altrove» questa mobilità. Abbiamo reso meteci gli stranieri, abbiamo sedentarizzato culturalmente e spiritualmente la nostra esistenza. Per questo la nostra escatologia è rimasta mitologica: poiché eravamo incapaci di tradurla profanamente nella nostra visione del futuro.
Il tema dell’anonimato crea più problemi in quanto si scontra frontalmente con le teologie classiche e soprattutto con le teologie protestanti: mentre i cattolici assicuravano la loro teologia a delle ontologie e in definitiva a delle cosmologie (si pensi alle «prove dell’esistenza» di Dio a partire dal movimento), la teologia protestante ha ripiegato sul tema personalista della relazione «io-tu». Da Lutero a Bultmann questa relazione ha resistito alla demitizzazione, e in particolare Bultmann mette in luce come la relazione io-tu sia analogica nel suo fondamento, ma nient’affatto mitologica. Oggi possiamo chiederci fino a che punto questa relazione non sia soltanto una parte del complesso delle relazioni Dio-uomo: non tutto è personalizzato nell’essere-uomo e, come hanno affermato Maestro Eckhart e diversi pensatori mistici, può darsi che anche nell’essere- Dio non tutto sia personalizzabile. Per ciò che riguarda l’uomo, non c’è dubbio che qualcosa dell’umano resista quando si cerchi di riportarlo per intero alla soggettività personale: l’esempio più eclatante è la lingua, ma si pensi anche all’istituzione in tutte le sue forme. Ebbene, la relazione umana, così come la viviamo oggi nella città, attesta che il problema del socius non si riduce al problema del prossimo, o piuttosto che la nozione di prossimo – preziosa e completa – deve avvolgere e integrare sia la relazione al socius, anonima per eccellenza, sia la relazione di amicizia e di amore, personale per eccellenza. D’altronde, il buon Samaritano della parabola non è affatto entrato in una relazione io-tu con l’uomo che ha incontrato, ma lo ha trattato – oserei dire – funzionalmente: lo ha medicato, condotto in albergo, ha pagato la notte dell’albergo. Però non si dice assolutamente che ne sia diventato amico. Possiamo chiederci, con Harvey Cox, se non siano stati l’«ethos preurbano», la mentalità del villaggio, ad averci indotto a sopravvalutare la relazione io-tu come somma di tutte le relazioni possibili tra gli uomini e tra Dio e l’uomo. La nuova ridistribuzione delle relazioni umane tra il privato e il pubblico alla quale assistiamo al giorno d’oggi ci invita a rimettere in discussione la collusione tra la teologia personalista e l’etica del villaggio e della piccola città. Non dico che non debba rimanere nulla di questa teologia, anzi penso perfino il contrario. Dico solamente che deve essere ripensata e concordo facilmente sul fatto che la patologia della città, a cui Harvey Cox forse non ha prestato abbastanza attenzione, ci mette in guardia contro ogni entusiasmo ingenuo riguardante la modernità. C’è un «gregarismo» teologico che non vale più dell’«integralismo», suo nemico gemello. Ripensare una situazione non equivale per forza a «gettare il bambino con l’acqua sporca». Ma se noi sapessimo pensare meglio i rapporti tra il personale e l’anonimo, l’esistenziale e l’istituzionale, all’interno della costituzione stessa dell’uomo, saremmo anche più critici rispetto alle analogie ingenue a cui ricorre la teologia. Dopotutto Paolo – affermando: «Né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né uomo né donna» – indicava dei ruoli non personalizzati a livello dei quali è possibile solo un lavoro di riconciliazione di tipo istituzionale. L’essere-uomo, il diventare-uomo, ha luogo anche nel gran sovvertimento delle relazioni tra i «ruoli» sociali: una certa teologia della conversione individuale ha nascosto la portata di questi sovvertimenti e di queste instaurazioni in cui tutto l’umano è in lavorazione.
• Il secondo livello di questa teologia è rappresentato da una teologia dell’organizzazione alla quale personalmente darei altrettanta importanza che alla teologia del cambiamento sociale, sviluppata da Harvey Cox soprattutto a partire dalle sue riflessioni sull’anonimato e sulla mobilità sotto il segno di una teologia del futuro e della speranza. Un europeo, dell’Ovest e dell’Est, sarà sicuramente più sensibile a questo compito, che d’altronde compensa il precedente, poiché la patologia del nomadismo, dello sradicamento e della perdita della memoria – su cui insisterei molto di più che Harvey Cox – trova la sua terapia anche nella responsabilità a livello delle organizzazioni. A questo proposito, il nostro compito più urgente è quello di liberarci da ogni recriminazione contro l’organizzazione in quanto tale: socialmente, politicamente e teologicamente ci troviamo su una china «reazionaria», al punto che vagheggiamo, se non l’uomo dei boschi, almeno l’uomo del villaggio, della bottega e della fattoria. Tutte le lamentazioni contro la separazione del lavoro e della famiglia, contro la separazione dei ruoli e la frammentazione della personalità, attestano che siamo ancora prigionieri dell’«etica protestante» della quale Max Weber ha messo in evidenza i legami (peraltro reciproci) con il capitalismo. Affrancandosi dal Medioevo, il protestantesimo si è poi invischiato in una teologia dell’uomo borghese della piccola città: ha sacralizzato la figura del direttore d’impresa che compete su un mercato concorrenziale mentre – nello stesso tempo – sacralizzava il lavoro come vocazione personale e il risparmio come ascesi. Così come il membro delle corporazioni era stato l’uomo cattolico, il puritano americano è diventato l’uomo protestante. Entrambe queste immagini sono oggi in rovina: non è più tempo di tentare di preservare il giardino personale della nostra anima contro l’esistenza pubblica. Il motivo per cui siamo cristiani-sociali è comprendere che una teologia imperniata sull’altro, sul prossimo sconosciuto, deve farsi carico dei problemi di organizzazione e riguadagnare l’umanità dell’uomo anche al livello stesso delle organizzazioni. Non si tratta nemmeno più di riconciliare l’uomo e il prodotto del suo lavoro, a livello di relazione corta tra l’individuo e la sua attività, come sognavano i grandi utopisti del socialismo del XIX secolo: una teologia del controllo responsabile deve operare in termini di controllo democratico, di controllo popolare sull’impresa, sui centri di decisione, sullo Stato, sulla comunità internazionale. In questo modo saremo realmente contemporanei alla seconda o terza rivoluzione industriale cui assistiamo: quella nella quale il direttore d’impresa è subordinato all’uomo dell’organizzazione, quella – infine – in cui il proprietario dei mezzi di produzione è subordinato all’uomo competente, il quale in virtù della sua competenza è oggi nella posizione di manovrare i proprietari stessi. Occorre «umanizzare» questo mondo, non uno che è già morto. In questo campo – occorre dirlo – tutto rimane ancora da realizzare. La democrazia industriale non esiste da nessuna parte al mondo. Da nessuna parte al mondo il controllo democratico della produzione, dell’informazione e della distribuzione sono realizzati pienamente. Il tema teologico conduttore sarebbe questo: la libertà non si trova solamente là dove un individuo «si salva da sé», ma dove si sente «a casa» nella comunità degli uomini per mezzo del controllo responsabile in vista del bene comune. Mi ricollego qui alle riflessioni che ho già sviluppato altrove sulla previsione e sulla prospettiva; mi limito a rinviare a quello studio3.
IV. Dalla teologia della cultura all’ecclesiologia
Solamente dopo aver attraversato la teologia della cultura è possibile rimettere in cantiere l’ecclesiologia. Anche nell’ambito dell’ecclesiologia occorre ancora rinviare le discussioni riguardanti la parrocchia e le altre organizzazioni ecclesiali sulle quali ci si getta precipitosamente. Prima di riflettere sull’organizzazione e le organizzazioni della Chiesa occorre riflettere sulla sua funzione. Questa riflessione si ricollega da vicino alla precedente, riguardante i compiti di una teologia della cultura. Su questo punto l’ecclesiologia è strettamente subordinata ai tre temi precedentemente sviluppati: la subordinazione si giustifica in quanto la Chiesa non è innanzitutto istituzione, ma popolo di Dio, e tale popolo è definito dal suo compito di liberazione e non dalle strutture che si dà, e che anzi devono essere esattamente proporzionate ad esso.
Harvey Cox, assumendo come idea direttrice che la Chiesa sia «l’avanguardia di Dio», ne articola il mandato attuale attorno a tre ministeri, a tre servizi: annunciare, prendersi cura, rendere visibile la speranza con dei segni comunitari. Egli parla della tripla funzione kerygmatica, diaconale e comunitaria della Chiesa riprendendo i tre termini greci corrispondenti – kèrygma o ‘annuncio’, diakonia o ‘terapia attraverso la riconciliazione’ e koinonia o ‘comunità escatologica’. Io adotto ben volentieri questa struttura d’analisi.
La Chiesa annuncia: ciò significa innanzitutto che insegna a discernere i tempi, a individuare i rischi e i compiti, le aperture e gli ostacoli. Questo è ciò che è essenziale per noi della predicazione di Gesù contro le potenze. Noi annunciamo che Dio, in Cristo, ha sconfitto le autorità e questo vuol dire due cose: in primo luogo che non vi è nulla di prestabilito; di fronte alle abdicazioni di tutti coloro che credono di essere abbandonati a meccanismi ciechi, occorre «de-fatalizzare» le evoluzioni attuali e mostrare alla gente che il calcolo e la previsione generano delle scelte e delle responsabilità (cosa che ho dimostrato anche nella mia riflessione sulla prospettiva). Ma in secondo luogo, di fronte alle minacce contemporanee dell’assurdo, occorre anche affermare che c’è sempre un senso da trovare. Riprenderemo così a nostro modo l’immagine dell’Esodo e della Pasqua e come san Paolo diremo: «Là dove abbonda il peccato, la grazia sovrabbonda». Siamo i testimoni di un’economia della sovrabbondanza: quella del senso rispetto al non-senso. Il compito della Chiesa è indicare questo surplus di senso rispetto al non-senso, anche di fronte ai processi di decadimento e di cancerizzazione della città moderna. In questo modo riconsegneremo sempre alla responsabilità dell’uomo ciò che sembrava provenire da forze estranee, da potenze disumane. Questo è il cuore di ciò che potremmo chiamare la predicazione al mondo, di cui la predicazione indirizzata ai fedeli deve restare una semplice replica.
Il compito terapeutico può essere compreso a partire da ciò che è stato detto precedentemente sulla patologia della città. Se è vero che uno dei ministeri fondamentali di Cristo è stato l’esorcismo dei demoni (che Cristo, nella sua disputa con gli scribi, non ha mai separato dalla lotta contro le obbligazioni legalistiche), la modalità moderna di recuperare il ministero dell’esorcismo è rivolgere la vigilanza della Chiesa alle neo-formazioni, ai fenomeni di cancerizzazione e in generale alle produzioni patologiche proprie del mondo moderno. Qui il ministero della Chiesa è essenzialmente un ministero di comunicazione, rivolto alle separazioni, ai frazionamenti di ogni sorta della città moderna, alle tendenze alla segmentazione e alla dissociazione della stessa personalità. L’autentica diaconia non consiste nel sopperire alla città nelle sue carenze: anche se certamente occorrerà occuparsi a lungo degli ospedali, curare i malati e i poveri che la società ignora o abbandona, la diaconia non si limita a queste funzioni di supplenza, ma si applica ai centri di decisione, ai punti nodali di funzionamento della città dove si incrociano i processi di integrazione e di disgregazione. Una teologia dell’itineranza e quella di un controllo responsabile trovano qui il loro punto d’intersezione. Come è possibile che la Chiesa sia l’avanguardia di Dio se l’individuo cristiano sta nella retroguardia dello sviluppo storico, se tutta la sua sensibilità e le sue reazioni profonde sono rivolte verso il paradiso perduto e non verso il regno a venire? Ma ancora una volta non si insiste mai troppo sulla necessità di associare la teologia del controllo responsabile a quella dell’itineranza e della speranza.
La terza funzione, propriamente comunicativa, non può essere isolata dalle due precedenti. La Chiesa non può rendere visibile la speranza, essere un segno dell’avanguardia di Dio, se si riduce a un club della classe media, preoccupato solo di mantenere l’omogeneità tra i suoi membri. Occorre dire con forza che in una comunità dove non si mette in atto nessuna riconciliazione non c’è Chiesa. Ancora una volta l’affermazione di Paolo – «Né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né uomo né donna» – non costituisce un’applicazione secondaria tra le altre dell’unità in Cristo, ma designa la dimora dell’antropologia e dell’ecclesiologia, il luogo stesso della loro origine. L’uomo non è la somma di un tale e di un talaltro: l’uomo è l’umanità dell’uomo. E l’umanità dell’uomo avanza quando il Greco, il Giudeo e il Barbaro sono coinvolti in un processo di riconciliazione: in quel momento l’uomo accade. Nello stesso tempo, una comunità è possibile attraverso l’atto stesso del gesto di riconciliazione. Questo carattere fa sì che la Chiesa si allontani dal modello della parrocchia del villaggio o della parrocchia residenziale dell’epoca preindustriale. Oggi abbiamo bisogno di forme ecclesiali che tengano conto degli aspetti non residenziali della relazione umana, del rapporto sociale; abbiamo bisogno soprattutto di forme ecclesiali che permettano di esercitare il ministero della riconciliazione contemporaneamente all’annuncio del senso attraverso le fratture della metropoli.
Da queste riflessioni non si deve però concludere affrettatamente che la parrocchia residenziale abbia fatto il suo tempo. Appaiono infatti nuove motivazioni che sostituiscono le precedenti e in particolare la risposta al nomadismo e all’anonimato ridà possibilità a delle comunità concrete basate sulla vicinanza. Ma l’errore sarebbe quello di credere che la funzione comunitaria della Chiesa si esaurisca nella perpetuazione, o anche nel rinnovamento, di questa modalità di congregazione. Penso che la parrocchia tradizionale ritroverà la sua fortuna quando sarà una tra le altre modalità ecclesiali. La non-parrocchia salverà la parrocchia. Bisognerà imparare a riconoscere l’immagine della Chiesa ovunque il ministero dell’annuncio, della diaconia e della comunità concreta avranno di fronte la città intera così come il mondo moderno l’ha resa: vale a dire la città secolare.