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Per poco non mi cedono le gambe, e mi sento come l’astronauta che sto cercando di salvare.

Mi muovo goffamente in un ambiente che non potrebbe essere più ostile, scivolo sulla neve battuta dalle raffiche di vento e ho gli occhi così pieni di lacrime che fatico a vedere. Una brutta scivolata potrebbe spedirmi nell’etere. Concentro tutte le energie per arrivare alla porta della cupola, far passare il mio badge ed entrare nel radome.

Ho il fiatone, e mi sfilo lo zaino lasciandolo cadere perché mi fa perdere l’equilibrio, e in più non riesco a tirare fuori la pistola. Ecco il metodo più rapido per finire morta in questo deserto invernale, in cima al mondo, con le orecchie gelate e occhi e naso che colano come fontane.

Cerco il badge nella tasca del giaccone e provo un tuffo al cuore. Comincio freneticamente a tastare ovunque, poi mi viene in mente: era in una tasca dei miei pantaloni cargo, e dev’essere caduto fuori insieme alla chiave del pick-up quando ero in bagno.

«Merda!» Questa volta lo dico, e per intero.

Mi volto e scivolo, atterrando sul sedere. Riesco a rimettermi in piedi e recupero lo zaino, non alla ricerca del badge, ma della maledetta penna che ha provocato tutto questo guaio. Strappo la carta del regalo, apro la scatola e tiro fuori la penna dal suo alloggio lievemente magnetizzato, poi sollevo il coperchio in poliuretano della serratura di sicurezza.

I numeri sui pulsanti di metallo vecchio stile sono protetti sotto vetro, che spacco con un colpo deciso della punta di carburo di tungsteno. Digito il codice passepartout, la serratura si apre e, mentre spalanco la porta, sento delle voci portate dal vento. Il gruppo è sul tetto e si sta dirigendo verso di me. Ho forse due minuti. Entro nel radome: buio pesto.

Non che io voglia rendermi un bersaglio più facile, ma non ho portato una torcia, perché non credevo di averne bisogno. E non posso nemmeno permettermi di accendere i fari a basso rumore, perché illuminerei il radome in modo che si vedrebbe anche da terra. Tastando il piedistallo dell’antenna, urto qualcosa che cade per terra. Mi chino e lo cerco: è un piccolo portatile. Quando lo apro e premo un tasto, lo schermo si illumina e si riempie delle onde e dei picchi di un’analisi dello spettro in tempo reale.

Inorridita, mi rendo conto che mia sorella ha rilevato lo stesso segnale isolato che ha visto il servizio segreto: quello della mia penna. E, non sapendo di cosa si trattasse, è fuggita. Oppure, se sapeva che si trattava di me, temeva che avrebbero sparato a entrambe se lei fosse rimasta lì. Perciò è scappata, ma ha lasciato un biglietto da visita, un biglietto che avrebbe permesso di rintracciarla se lo avesse portato con sé. Sono sicura che mia sorella abbia lasciato lì il computer apposta.

Era proprio qui, dove si nascondeva da un po’. Senza dubbio aveva passato l’antenna in modalità Locale in modo che qualcuno non la facesse muovere da remoto, magari ferendola mentre controllava la sfera.

“Concentrati. Concentrati. Concentrati.”

Trovo il cavo del dispositivo di comando, un oggetto rettangolare giallo, collegato a una scatola di derivazione da un cavo elettrico multipolare da tre metri. Riconosco il grosso interruttore, rosso se lo potessi vedere, e lo passo da modalità Locale a modalità Remoto.

Poi torno fuori, mi richiudo alle spalle la porta di accesso e alzo le mani. Perché oggi preferirei non morire. Cammino rapida, scivolando, verso gli agenti: sono in tre, più Dick.

«Sono io, Calli!» urlo. «La pistola e le credenziali sono nello zaino! Portatemi immediatamente al Controllo Missione!»

00:00:00:00:0

Il braccio resta fuori uso, e Peggy Whitson e io siamo attaccate a un filo. Quantistico. O semplicemente Q, se penso al nostro collegamento radio.

Gli astronauti sono felici di aver ripreso i contatti con il Controllo Missione, più o meno. Ma non sanno cosa sta succedendo, non sanno perché la Stazione spaziale ha perso le telecomunicazioni e l’uso del braccio. Probabilmente il comandante Peggy Whitson e Jack Fischer non sanno che un’antenna satellitare di Wallops è stata hackerata, né che il razzo con i rifornimenti è saltato in aria con tutti i loro dolcetti di Natale.

Anche se l’equipaggio all’interno della Stazione avesse avuto questa notizia, non l’avrebbe condivisa con gli astronauti durante una pericolosa passeggiata spaziale, quando concentrazione e calma fanno la differenza tra la vita e la morte.

«Capitano Chase, abbiamo ripreso le comunicazioni?» Sento la voce del comandante Whitson in cuffia mentre sono seduta come prima alla mia postazione.

Adesso, però, c’è anche Dick accanto a me, e vicino a lui ci sono il tizio barbuto del 7-Eleven e la donna con i capelli lunghi.

«No, sto trasmettendo attraverso Q» rispondo allo spazio cosmico.

Video e audio funzionano su Q, e riesco a vedere quello che vede il comandante Whitson attraverso la telecamera che ha dentro il casco. C’è una telecamera anche sul braccio robotico non funzionante, che manda immagini di sobria chiarezza dell’astronauta bloccata nello spazio cosmico, legata a un nodo quantistico che si è ricordata di accendere come le era stato detto.

Una specie di radio da “poliziotto” della Space Force, ma terribilmente costosa e ingombrante. Certo, quando realizzeranno qualcosa di simile, sarà piccola come un orologio da polso.

«Può comunicare il piano a Houston?» mi chiede il comandante Whitson sulle comunicazioni Q ormai attivate, perché non può chiederlo a Rush.

Lui è a Wallops, e non è ancora su Q. Fino a questo momento ci sono solo Ames e Langley, e adesso nessun altro tranne me può mettersi in questo sedile di pilotaggio, per così dire. Il piano che dobbiamo comunicare a Houston è quello che gli astronauti hanno improvvisato durante una crisi in modo da poter installare comunque il nodo.

Con estrema chiarezza, nonostante la situazione e il fatto che si trovino in condizioni di microgravità, hanno deciso che l’opzione più sicura è che il comandante Whitson faccia qualche gioco di destrezza con i cavi: i due lunghi un metro che ha in vita sono fatti di rete, e non di filo d’acciaio intrecciato spesso 2,38 millimetri. La osserviamo in diretta mentre li aggancia tra loro e li passa come una cintura intorno alla punta del braccio.

Trattengo il respiro durante la parte davvero rischiosa, quando stacca dal braccio il suo cavo di sicurezza, prima di collegare questo attrezzo fuori dal normale a un anello a D che ha sulla tuta, come se fosse un guardafili astrale. Avanza lentamente lungo quell’esile appendice di appena 35 centimetri di diametro per un peso di quasi due tonnellate. Poi compie una manovra senza precedenti, mai insegnata, nemmeno in addestramento, e mai prevista. I minuti passano e siamo tutti in ansia. Ma funziona a meraviglia, ed è già stato ribattezzato “fare un Whitson”, ovvero qualsiasi cosa serva per salvarti le chiappe se ti perdi nello spazio.

Eccola che scende, mentre Jack Fischer la aspetta accanto alla trave, pronto ad afferrarla con un cavo di sicurezza. Insieme si sposteranno mettendo una mano sopra l’altra e trasportando il loro prezioso carico per tutta la lunghezza della Stazione verso la lontana piattaforma di ricerca. Da lì, saranno in grado di tornare da soli.

«Posso portarti qualcosa?» continua a chiedermi Dick, e so che si sente in colpa.

Non dispiaciuto, ma rammaricato che mi abbiano dovuta perquisire. Di avermi dovuto togliere il guanto destro per controllare che avessi la cicatrice e assicurarsi che fossi davvero io. Per non parlare di tutte le sue bugie.

«Ci potrebbe volere un po’ di tempo, e dovresti mangiare qualcosa.» Cerca di essere di nuovo paterno, di essermi amico. «Mangia almeno un frutto.»

Io spingo via il piatto. Mangiare è l’ultimo dei miei pensieri, e faccio di tutto per bloccare quelle immagini: le impronte di scarponi nella neve, una serie che si dirige verso una zona del tetto dove non c’è via di scampo. Nessuna scala di manutenzione, solo il vuoto.

«Caffè?» insiste Dick.

Scuoto la testa e fisso la trasmissione in diretta degli astronauti e dei loro lunghi cavi che scintillano come sottili raggi laser, spostandosi lungo la trave con il carico sul suo pallet.

«Non punirmi» mi sussurra all’orecchio.

«Non hai voluto che guardassi, ma fammi vedere almeno le fotografie» ribatto sottovoce, e qualcuno che non sapesse come stanno le cose potrebbe pensare a un litigio fra amanti.

Ho i capelli arruffati e gli occhi pieni di lacrime, e tremo come quel razzo prima di esplodere. Tutto perché Dick non vuole farmi la normale cortesia di dimostrarmi che mia sorella è viva, anche se non vedo come potrebbe. Il suo corpo, però, non è stato trovato, almeno non sul terreno innevato accanto all’hangar dove avrebbe dovuto cadere. Lo so per certo, perché Fran è là a controllare e mi manda di continuo aggiornamenti via SMS.

A quanto ne so, Carme non è stata trovata, né viva né morta, da nessuna parte, e la stanno cercando tutti. Nessuno mi fornisce qualche dato, ma io so quello che ho visto: una serie di impronte che portano al bordo e si fermano. Nessun altro posto dove andare se non giù.

“O su.”

Sospetto che Carme fosse sul tetto prima dell’inizio della nevicata, probabilmente più o meno nel momento in cui la sfera ha deciso di presentarsi davanti a me mentre uscivo dalla doccia. Mia sorella avrebbe potuto nascondersi nell’uovo senza finestre dieci piani sopra il suolo. Chi mai l’avrebbe cercata lì?

Senza dubbio aveva una piccola torcia tattica e ci vedeva benissimo. Poi il radome ha un riscaldamento a basso rumore che, ne sono certa, ha acceso. Avrebbe potuto mettersi ragionevolmente comoda per ore o giorni, al riparo dalla furia degli elementi, nel suo guscio protettivo, virtualmente al di sopra della mischia e invisibile.

«Capitano Chase, ha le impostazioni del PGT?» chiede il comandante Whitson in cuffia.

«Sì» rispondo. «Bravo 2, in senso orario 2, 10 giri per ogni bullone.»

«Comincio dal bullone 2, impostazioni bravo 2, senso orario… 9,5 giri, luce verde» risponde, mentre Jack Fischer si avvicina per aiutarla spostandosi lungo i corrimano.

«Io stabilizzo, tu vai al bullone 4…» sento la voce di Fischer nelle orecchie mentre la spalla di Dick preme contro la mia.

Appoggia davanti a me il suo telefono: sul display c’è una fotografia delle impronte nella neve sul bordo del tetto. Non sono mai arrivata tanto vicina da vederle, avevo troppa fretta di tornare qui. E nessuno era dell’idea di lasciarmi andare da qualche parte.

Prendo il telefono di Dick e ingrandisco l’immagine della neve calpestata. Le impronte a forma di scarpone hanno un disegno insolito, e terminano a quasi due metri dal bordo del tetto. Questo mi dice tutto, mentre ricordo il jogger vestito di nero non riflettente. La falcata potente, mentre corre sul ghiaccio quando è già buio e c’è un tempo pessimo come se nulla fosse. Rammento la sensazione di disagio provata, preoccupata com’ero di riportare Dick a Dodd Hall. Ricordo l’abbaiare del cane e la luce che si era accesa.

Adesso ha più senso che Dick si sia comportato come se nulla fosse quando gli avevo chiesto chi altro potesse alloggiare lì. Perché io avevo l’impressione che non ci fosse nessun altro, solo lui, in una sera così desolata poche ore prima di un congedo. Non voleva dirmi che stavano lì anche i membri di una squadra informatica del servizio segreto. Non voleva che sapessi che cercavano Carme mentre gli parlavo di lei seduta nel mio pick-up.

Sono abbastanza sicura di conoscere chi stava correndo sullo stesso percorso fitness che usa sempre anche lei. Forse è stata mia sorella a spaventare il cane che continuava ad abbaiare come se si fosse trovato davanti un robot, o un extraterrestre tipo Darth Vader. Mia sorella era fuori e aveva in mente qualcosa, ed è probabile che fosse nascosta nel radome di Langley quando non era alla fattoria, e io non l’ho mai saputo.

«Capitano Chase» dice Jack Fischer riportandomi nello spazio, «dopo che la leva ha superato il centro, vuole la connessione ai dati di backup?»

«Sì, è il cavo più piccolo» rispondo osservandolo sullo schermo a parete mentre esamina le etichette dei cavi. «W1111 accoppiato a J-1» ricordo ai due. «Dopo aver sistemato quello, cominceremo con la procedura di accensione.»

«W1111 accoppiato a J-1» ripete il comandante Whitson. «È un po’ stretto per la mia mano…» e si sforza di spostare la leva spina-presa oltre il centro. «Ho problemi a far entrare la mano qui…»

Non va bene. Sarebbe pessimo se, dopo tutto questo, non riuscissero ad avviare quella dannata apparecchiatura, ma mi limito a rispondere: «Ricevuto».

«… Adesso provo da una posizione diversa…» torna in cuffia la voce di lei e sento che ce la mette tutta. «… Magari ce la faccio con la punta delle dita.»

«Ricevuto» rispondo mentre elenco tra me e me tutti i compiti che, in circostanze analoghe, non avrei potuto svolgere se il mio incidente nella sala comune avesse avuto un esito peggiore.

Riconosco la grande mano che mi afferra con delicatezza la spalla, lo scintillio della semplice fede matrimoniale all’anulare di papà. Poi vicino alla mia tastiera atterra magicamente un piatto pieno di bacon, con un bagel spalmato di formaggio cremoso. Guardo il viso gentile di papà, che tiene in braccio Easton nel suo pigiama con i dinosauri spaziali, come un piccolo manichino per i test, profondamente addormentato.

«Mangia» mi dice, con gli occhi intelligenti dietro la montatura nera vecchio stile e i folti capelli grigi ritti in testa.

«Qui, tesoro» mamma è accanto a lui, con un cartone di succo di mirtillo rosso con la cannuccia già inserita.

«Capitano Chase, quanto tempo resta?» mi chiede Jack Fischer dallo spazio mentre tutto il Controllo Missione e la mia famiglia assistono alla manovra.

Carme compresa. Spero che stia guardando anche lei, non so da dove, non so in che modo.

“Ti prego, voglio che tu sia viva.”

«Noi siamo pronti non appena effettuata la connessione dati» rispondo, e penso ai sensori e alla robotica, a macchine volanti e a turisti che orbitano intorno alla Terra, ai jet pack, agli habitat sulla Luna…

«Ci stiamo lavorando…» risponde il comandante Whitson.

Ma penso soprattutto agli esoscheletri. Quelli studiati per i lavori sovrumani nello spazio, e ogni genere di compiti utili qui sulla Terra. Umani che si vestono per fare il lavoro delle macchine, che ironia. Sollevano pesi enormi, corrono più veloci senza stancarsi. E volano senza un abitacolo o un mantello.

«Accoppiato!» annuncia il comandante Whitson, e tutti nella sala controllo cominciano ad acclamarla e ad applaudire, come quando un rover fa un atterraggio perfetto su Marte o vola accanto a Ultima Thule e oltre Plutone.

Alcuni si stanno abbracciando, e non hanno idea che l’apparecchiatura appena accoppiata non è affatto un lettore dell’atmosfera di nome LEAR.

Bevo un sorso del succo, mastico un pezzo di bagel e guardo mamma che mi sorride orgogliosa. Capisco che non è preoccupata per Carme. Papà si limita ad annuire e, per quanto sfinito, nemmeno lui è preoccupato.

Se loro stanno bene, sto bene anch’io, e tutti sappiamo esattamente cosa fare, sappiamo quando è il momento di non fare domande.

«Okay» trasmetto nello spazio. «Agganciamo il primario e i dati in modo da avere ridondanza.»

In quel momento sul mio cellulare arriva un video che parte da solo. La sfera a specchi è di nuovo nel mio bagno, e si scatta un selfie roteando lentamente. Se ha gradito la lettura di questo libro la preghiamo di venire a trovarci su: marapcana.today clicchi su questo testo e troverà la biblioteca completamente gratuita più fornita ed aggiornata del web! La aspettiamo!