13
Vedo nello specchietto un MP Crockett irritato che mi segue con lo sguardo.
“Idiota” penso senza neppure fare una smorfia, stupita per i miei improvvisi scoppi di rabbia, il che mi rammenta quello che Dick ha detto poco fa: “E tu come sei messa a irascibilità? Anche tu peggio del solito o sempre la stessa?”. Ironico che mi chiedano del mio umore proprio oggi, quando mi sento sempre più esasperata e non ne capisco del tutto il motivo. È come se non venisse da me, ma da un altrove incontrollabile, e mi è già successo di provare picchi di tensione come questo quando qualcosa va storto.
Parecchio storto. Di solito capita quando qualcosa potrebbe andare storto a Carme, e a quanto pare è così anche stavolta. Non vorrei sembrare egoista, ma oltre ai timori per il suo benessere e il suo futuro, devo preoccuparmi anche del mio, e questo spiega come mai abbia chiesto a Dick del JSC. Nei programmi degli astronauti, i gemelli identici sono molto utili per la ricerca. Si possono fare raffronti per mostrare gli effetti fisici e psicologici di un viaggio nello spazio e della vita lassù, e Carme e io siamo considerate un’opportunità allettante, stando a quello che dicono alla NASA.
Questo sulla carta, ma guardiamo ai fatti. Chi mi dice che Dick non mi stia preparando alla disastrosa notizia che io e mia sorella non siamo passate alla fase successiva? Non una sola, ma entrambe, e questo interrogativo mi rode mentre l’MP Crockett scompare alla vista in una nube di fumi di scarico.
Accelero superando l’ospedale della base, il Pronto Soccorso e poi l’Exchange, fino all’incrocio tra Sweeney e Armistead Boulevard al termine della pista numero 8.
Il rombo degli F-22 in decollo fa tremare l’aria, e io controllo il telefono, anche se so benissimo che non è il caso di farlo mentre guido.
Il fatto che sia un’esperta su come evitare di lasciarci la pelle non significa che segua sempre i miei stessi consigli. Come al solito, dipende. Mi sorprende vedere che Fran ha chiamato più volte mentre ero con Dick e avevo messo il telefono in modalità silenziosa. La richiamo e, quando risponde, sento delle voci in sottofondo. Ne riconosco una: quella dell’agente speciale Scottie Ryan. Poi quella di un uomo, Butch Pagan. Sta dicendo qualcosa a proposito di riaprire la porta d’ingresso, perché non vuole che “entri troppa aria e disturbi”.
«Sei in vivavoce e sono sola» dico subito. «Che succede, Fran?»
«Mi pare che dovrei essere io a chiedertelo. Tutto bene? Dove diavolo sei stata?» Parla con la solita aggressività, ma noto un certo stress nella sua voce. «Stavo cominciando a pensare che fossi caduta giù dal bordo della Terra.»
«A quanto dicono la Terra non è piatta, quindi è improbabile» rispondo.
Deduco che si trovi sulla scena del crimine a Fort Monroe. Non può essere altrimenti, e questo suggerisce che qualcosa del presunto suicidio non le torna. O che le torna meno di prima, ma questo non mi sorprende, se penso a quanto mi ha appena detto Dick. In realtà sono abbastanza spaventata.
«Sto arrivando, ho informazioni che rendono preoccupante quella situazione…» comincio a dirle, abbastanza criptica.
«Che informazioni?» mi interrompe lei. «E ti pregherei di passarmele perché, poco ma sicuro, apprezzerei qualsiasi notizia possa aiutarci a risolvere questo casino.»
«Conosci la Pandora Space Systems?»
«So solo che Vera Young lavorava per loro. E che è un’enorme azienda aerospaziale con diversi agganci nelle forze armate e alla NASA.»
«Fanno molti lavori segreti per il nostro governo, DARPA compresa, e bisogna sempre preoccuparsi per un possibile spionaggio» rispondo mentre percorro LaSalle Avenue, strizzando gli occhi contro i fari del traffico nell’altra direzione. «E non dimenticarti del presunto badge rubato.»
«Oh, non l’ho dimenticato. Stavo cercando di dirti proprio questo. A quanto sembra avevi ragione ad avere dei sospetti. Resta un momento in linea, sto uscendo.» Il rumore delle scarpe pesanti di Fran, di una porta che si apre e si richiude sbattendo, ma quello che lei vuole davvero è andarsene a fumare.
In realtà ha smesso da anni, ma se – nonostante il vento gelido che porta le temperature sottozero – si accende una sigaretta su quella che, inizialmente, doveva essere una scena del crimine del tutto ordinaria, allora ha già deciso che la situazione è problematica, e senza ulteriori input da parte mia. Definirla problematica è un eufemismo, dico a me stessa mentre penso a Noah Bishop e mi chiedo dove si trovi mia sorella.
«Che altro?» esplode la voce di Fran dai miei altoparlanti mentre guido.
«Per ora ti ho detto le cose più importanti» rispondo cercando di sviarla il più possibile da Dick e Carme. «Suicidio o meno, dobbiamo cercare di scoprire se la morte di Vera Young è collegata all’incidente di ieri, se ci può essere un legame di causa ed effetto. Qualcuno ha verificato se il suo badge è stato usato senza autorizzazione? Io non ho avuto la possibilità di fare una ricerca sul suo numero di identificazione, di interrogare il sistema di sicurezza…»
«Be’, Scottie lo ha fatto, e c’è un altro dubbio. Ieri alle 17.33 ha disattivato il badge, ma alla fine chissà come non era più disattivato.» Quello che mi sta dicendo Fran peggiora esponenzialmente la situazione. «Oppure è stato riattivato, ma non chiedermi come.»
«Stai scherzando, vero?» Ho i brividi lungo la schiena.
«Ti sembra che scherzi?»
«Non è possibile che il badge si sia riattivato da solo. Hai chiesto a Scottie se è assolutamente certa che non si sia verificato qualche malfunzionamento?» chiedo. «Oppure che abbia realmente fatto ciò che intendeva fare, e che il sistema abbia salvato la modifica?»
«Giura sulla sua vita di essersi occupata del badge nel momento stesso in cui è stato denunciato il furto ieri, e di aver cambiato lo status in inattivo» insiste Fran.
«Quindi mi stai dicendo che il badge era ancora attivo poco fa.» Voglio esserne sicura, perché penso all’allarme del sensore al 1111-A che pare inspiegabile.
«Lei dice di sì, che era ancora attivo» conferma la voce di Fran.
«Brutta cosa, davvero brutta.» Non voglio indorare la pillola. «O alla fine il badge non è stato disattivato, o sta succedendo qualcosa di ben più grave.»
«Immagino che tu possa scavare nei metadati, o quel che sono, e vedere se è stato manipolato qualcosa» dice Fran con scarso entusiasmo, e probabilmente sta pensando che è impossibile, vuole convincersi che si sbaglia. «Spero proprio di no, ma mi chiedo ancora: qual è la verità sul suo badge e perché è morta? Hai potuto dare un’occhiata al registro delle chiamate che ti ho inviato? E alla lettera di suicidio?»
«Non ancora. Li guarderò quando non sono al volante.»
«Ti dispiacerebbe informarmi di quello che hai fatto da quando abbiamo parlato… Tre quarti d’ora fa?» chiede poi. «Non rispondi alle mail o al telefono. Sei fuori dai radar. Dove sei stata e con chi? Ti hanno rapita gli alieni? Sei sicura di star bene? Non mi sembri di buon umore.»
«Sono diretta verso una scena del crimine» le rispondo molto bruscamente, e non è da me. «Come faccio a essere di buon umore? Soprattutto per questa in particolare…»
«È successo qualcosa da quando ci siamo viste. Sei triste, ne sono sicura.» Fran si preoccupa per me, e so che non smetterà fino a quando non le dirò tutto, e io non posso farlo.
«Adesso non è importante, ne parleremo più tardi» le rispondo, ma la verità è che non ne potrò mai parlare con lei.
Per quanto siamo intime, e nonostante tutto quello che abbiamo condiviso, non posso assolutamente riferirle quello che mi ha detto Dick. Anche se la cosa non sconvolgerebbe particolarmente Fran: infatti non sono l’unica ad aver notato che le fluttuazioni nel comportamento di mia sorella sono diventate sempre più marcate e imprevedibili. Ne ho parlato con Fran non molto tempo fa, e mi rendo conto con una sensazione di paura e orrore che non posso dire una parola o fare allusioni a ciò che ho saputo. Né con la mia più intima amica, né con chiunque altro.
Compresi mamma e papà quando, più tardi, li vedrò a casa. O con la stessa Carme, e spero quasi che lei non si metta in contatto con me a breve: in quel caso non saprei che fare. Non credo di essermi mai sentita tanto sola.
«Dove devo andare, esattamente?» parlo in vivavoce mentre guido veloce. «L’unico indirizzo che ho è Fort Monroe.»
«L’appartamento è nelle caserme ristrutturate vicino al Jefferson Davis Memorial» rimbomba nell’abitacolo la voce di Fran.
«Ci sono molti alloggi ristrutturati. Quali?» Attraverso il Back River e, con l’acqua su entrambi i lati nell’oscurità, ho la sensazione di navigare a tutta velocità su una barca.
«Non so se questo edificio ha un nome» dice. «Sto guardando fuori, nella tundra, e non ne vedo. Da Bernard Road vai verso il faro.»
«Un indirizzo mi sarebbe utile» rispondo, e lei me lo comunica.
«Vedrai le macchine» aggiunge, come se non sapessi orientarmi qui. «Quanto sei distante?»
«Circa un quarto d’ora se ci do dentro. Joan è già arrivata?» Prendo l’uscita per East Mercury Boulevard e accendo le luci di emergenza, quelle rosse e blu.
«È arrivata pochi minuti fa» risponde Fran, mentre io sorpasso altre macchine approfittando dell’impunità.
Nessuno fermerà il mio veicolo della polizia. Non per rompermi le scatole, né per farmi una multa, né per qualsiasi altro motivo, e più penso all’MP Crockett, più guido veloce. Ripensare alle sue pagliacciate fatte per svilirmi è come entrare nella polvere sollevata dal rotore di un elicottero: devo uscirne prima di schiantarmi a terra. Ci vuole parecchio per farmi arrabbiare: non sono il tipo che si irrita facilmente, è raro che alzi la voce e non ho mai sbattuto una porta o lanciato oggetti a qualcuno, ma potrei fare danni seri quando sono dell’umore attuale.
Sfrego insieme pollice e indice della mano destra. Supero Hardee’s e provo una nostalgia che quasi mi fa piangere. Come tanti luoghi di Hampton, quel fast-food c’è da quando sono qui. E mentre sfrego la cicatrice, rivedo le immagini dei compagni di scuola nel parcheggio, all’epoca in cui la vita era semplice e innocente, non come adesso. Quando mi sentivo al sicuro.
Vedo ancora come se fosse ieri mia sorella e me sedute nell’auto di papà, una Camaro del 1968 restaurata, a mangiare patatine fritte, bere bibite, fare discorsi da ragazze e spettegolare sui ragazzi. Osservavamo la gente mentre tramavamo e progettavamo il nostro futuro. Ma soprattutto alzavamo lo sguardo verso la Luna e le stelle, immaginandoci lassù e oltre.
Sfrego, sfrego la cicatrice disegnando minuscoli cerchi e rilevando la piccola incisione sulle spire del polpastrello. Adesso va meglio. C’è stato un tempo in cui non provavo alcuna sensazione.
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Rallenta, rallenta, rallenta. Respiri profondi. Cerco di calmarmi nel solo modo che conosco.
Immagino il fiume e il pontile di legno eroso dal tempo. L’enorme quercia con l’altalena dalle funi abbastanza lunghe da lanciarti fino al regno di Oz. E papere e oche che si radunano sull’erba verde smeraldo. Uscire in barca. Il Sole alto in un enorme cielo azzurro. La visibilità illimitata nell’aria trasparente, i caccia che urlano dalle piste sulla riva opposta del fiume, mentre il vento solleva alte creste di schiuma bianca.
Vedo quel panorama e ne sento i rumori. Poi se ne vanno. E vengo travolta da un turbine di emozioni troppo forti perché le possa sopportare. Non posso tornare di nuovo a casa. Non posso trasportarmi là con la mente, non questa volta. E me ne sto seduta sul letto, con le lenzuola tirate come fossero un trampolino.
«… detesto non essere con te in questo momento.» Al telefono, Dick è gentile, il tono della voce autenticamente addolorato.
Dal canto mio, ho un’acuta consapevolezza del mio corpo. Vivo la mia realtà senza sconti, angosciata, ancorata a terra dalla forza di gravità del mio alloggio da ufficiale a circa 2700 chilometri da Hampton, Virginia. Rifiuto l’idea che non sarò mai più coccolata o felice. E ascolto tutto il mio mondo che sprofonda. Rimango salda, e questo mi sorprende. Non verso una lacrima, non mi lamento. Nel mio alloggio spartano, con la sua unica finestra sopra i letti gemelli e la vecchia cassetta di legno per le mele dove parcheggio il caffè e la mia Beretta.
Lo scaffale è carico di libri del liceo. Molti manuali di addestramento. Computer, analizzatori di segnali, una lampada da scrivania con il braccio snodato. La sedia ergonomica dove ho appoggiato il giubbotto antiproiettile e altro equipaggiamento.
«… Mi metterò in contatto con Carme, ma volevo essere io il primo a dirtelo…»
Sono calmissima, non ho alcuna reazione, come se qualcosa in me fosse andato in corto circuito. Ascolto.
«… Sono sicuro che vorrai parlare con i tuoi genitori. E di certo con Carme. Ma non subito. Anche se lei è una dura, non è poi così forte quando si tratta di faccende emotive. E tu lo sai meglio di chiunque altro…»
Osservo con lo sguardo fisso oltre il vetro polveroso. Il Sole è piccolo e brilla come il puntino bianco proiettato da una lente di ingrandimento. In lontananza, le montagne del Colorado sono coperte di neve e il loro candore abbaglia nella luce del mattino.
«… Passerà un momento più difficile del tuo…»
“Un momento più difficile perché non tollera che qualcuno abbia bisogno di lei” penso, ma non oserei articolare quelle parole o rivelarlo involontariamente. Un momento più difficile perché adesso ricorrerà a tattiche evasive. Terrà un profilo basso e schiverà tutto come sempre. E non può farci niente se è così. Anche Dick la conosce, bene quasi quanto me.
Vorrebbe il mio permesso di parlare con lei per primo. «Per trasmettere direttamente a tua sorella quello che mi ha detto tuo padre. Perché lui ha promesso a tua madre…»
Proprio come fa sempre papà.
«… Le ha assicurato che non doveva… Be’, hai capito, Calli…»
Io intendo che, come sempre, papà ha detto che se ne occuperà lui.
«… Voleva che fossi io a dirlo a voi due…»
Proprio come hai sempre fatto.
«… Gli ho detto di sì, che non si doveva preoccupare…»
Proprio come hai sempre fatto, continuo a pensare mentre Dick spiega quanto l’ha presa male mio padre. Non aveva avuto la forza di chiamarmi di persona. Come se ci fosse bisogno di dirmelo.
Non servono spiegazioni sul perché papà non chiamerà le sue due uniche figlie. Qualcuno deve portare quel fardello per suo conto, deve guidarci lungo il percorso più buio. Non sarà lui il messaggero che porta cattive nuove, e certamente non questa orribile notizia. Non è mai stato così, e io ho sempre saputo che cosa è in grado di affrontare e cosa no. In circostanze diverse, avrei telefonato io a mia sorella.
Sono grata che Dick mi abbia risparmiato almeno questo. Mentre ascolto dal vivavoce, sola nel mio alloggio spartano.
«… Senti, Calli, vorrei non ci fosse stata la necessità di chiamare nessuno. E capisco se non avrai voglia di darmi una mano stamattina…»
Sembra una delle sue prove, mi pungola e mi sonda per vedere se sono all’altezza. Controlla per essere certo che io sia abbastanza forte.
«… Se vuoi, posso trovare qualcun altro, nessun problema…»
Lo ringrazio per la sua premura e gli dico di non preoccuparsi. Non è un problema. Non c’è nulla che possa fare a riguardo, in questo momento. E questo spiega la febbre e la stanchezza, mi sento dire. Ed è meglio averle prese adesso che in seguito. Cerco stoicamente di alleggerire con una nota positiva il fatto che mia madre abbia un cancro. E gli dico che sto benissimo e che ci vedremo alle 08.00.
Gli dimostro una volta per tutte che forse non sono come mia sorella, che è pilota da caccia. Ma sono qui per servirlo e non lo deluderò. Niente potrà fermarmi. Neppure la notizia più devastante della mia vita.
Fatico a respirare. Non riesco a smettere di pensarci.
Concentrati. Concentrati. Concentrati!