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I raggi del sole al tramonto filtrano attraverso gli alberi spogli con la loro calda luce rossastra, illuminando da dietro l’ex Lunar Landing Research Facility che si staglia imponente sull’orizzonte lontano.
Più comunemente nota come il carroponte, la struttura è alta 73 metri e lunga 122, e oggi viene utilizzata soprattutto per i test di caduta di aerei cargo, droni, navicelle spaziali e, di recente, un aereo di linea. Diverse settimane prima, hanno testato vari tipi di taxi urbani a guida autonoma, automobili volanti e una capsula per astronauti destinata alla Luna e ritorno.
Poi ci sono stati gli atterraggi su terra e quelli su acqua. Ogni scenario più impegnativo del precedente, con meno risorse e una posta in gioco più alta. Tutto questo per dire che ci sono molte ragioni se l’enorme struttura d’acciaio bianca e rossa a forma di A e i suoi annessi vicino al puzzolente impianto a vapore sono ormai la mia seconda casa. Almeno venti, se pensiamo alla mia fedele truppa di manichini per i crash test, graffiati e ammaccati, che tengo in un hangar e che mi costringono a venire qui regolarmente, quasi fossero i miei pazienti, o i miei figli (sì, ho dato loro un nome).
Controllo sempre che non abbiano bisogno di qualcosa: una riprogrammazione, un ritocchino, un’aggiustatina al petto quando il test è stato un po’ troppo violento. Armeggio di continuo con i loro vari sensori che mi dicono come se la passerebbero piloti, astronauti e altri viaggiatori se avessero subito lo stesso trattamento: sbatacchiati, strattonati, sbattuti a terra o contro il fianco di un edificio dopo un decollo da un tetto di un’area urbana densamente popolata come Boston o New York City. Oppure a mollo nell’oceano dopo aver attraversato l’atmosfera a folle velocità di ritorno dalla Stazione spaziale internazionale, dalla Luna, dallo spazio profondo o, fra poco, da Marte.
«Geeeesù, ho bisogno di una birra» dice Fran mentre entrambe puntiamo verso i rispettivi pick-up la chiave, provocando un cinguettio in risposta.
Sblocco la portiera e accendo il motore da remoto, perché mi piace mettere un po’ di distanza tra me e una potenziale esplosione del veicolo.
«E, poco ma sicuro, offri tu, dopo avermi fatto passare questo inferno» abbaia, anche se non lo pensa davvero.
«Niente alcol. Nemmeno una birretta» le ricordo. «A meno che non succeda un miracolo, a mezzanotte saremo in congedo non retribuito. Quindi indovina chi deve restare qui? Io sono costretta comunque, per via della EVA.»
«Riesci sempre a deprimermi.»
«La buona notizia è che possiamo andare al Controllo Missione, guardare il lancio, ascoltare Rush che parla agli astronauti…»
«Razzi ’sti cazzi. Sai quanti ne ho visti, di lanci e passeggiate spaziali, negli anni? E a chi frega qualcosa degli astronauti?» aggiunge, dato che non vuole che io lo diventi, anche se non lo dice.
Il suo Tahoe nero è parcheggiato col muso in avanti accanto al mezzo della polizia che ho in dotazione: un pick-up Silverado bianco con cassone coperto agghindato con pneumatici runflat, lampeggianti e le solite sirene. Sulle portiere campeggia la scritta NASA PROTECTIVE SERVICES in blu, e credo che il nostro logo sia l’unico, nel settore delle forze dell’ordine, a sfoggiare il pianeta Terra, una luna orbitante e una cintura di stelle.
Non che ci sia qualcosa di normale nel lavorare al LaRC, il Langley Research Center, il più vecchio dei dieci siti nazionali della NASA, che la maggior parte di noi chiama semplicemente Langley, e che non va confuso con il quartier generale della Central Intelligence Agency, con sede a Langley, Virginia, circa trecento chilometri a nordovest della penisola che condividiamo con la base dell’aeronautica. Si potrebbe pensare che io e Carme siamo state create da un’alchimia di fiumi, torrenti, oceani e baie catalizzate da un elisir di spazio aereo militare che emetteva un boom sonico. Abbiamo sempre avuto un piede in acqua e l’altro in cielo, e miravamo alla Luna e oltre.
Il nostro campo giochi durante l’infanzia erano 310 ettari di edifici governativi numerati, collegati da tunnel che formavano un labirinto di misteriose camere, incubatori, laboratori e strutture per i test infestati da leggende e abitati da geni. Da quando posso ricordare, io e mia sorella abbiamo vagato per i corridoi e gli hangar in cui erano passati Amelia Earhart, Charles Lindbergh e John Glenn.
Per noi era normale ascoltare i racconti di prima mano di Neil Armstrong, John Young, Buzz Aldrin e altri esploratori che hanno sfidato la morte imparando a pilotare un modulo lunare e a camminare sulla Luna al carroponte. Tutto è iniziato qui, in Virginia, non in Florida o in Texas, ma proprio su questo spicchio di terra, nel 1915, quando il governo americano ha creato il primo laboratorio per studiare il volo umano, il NACA, National Advisory Committee for Aeronautics.
All’epoca non c’era la S nell’acronimo, lo Spazio non faceva parte dell’equazione. A quel tempo non avevamo ancora aeroporti o la FAA, e Robert Goddard avrebbe lanciato il primo razzo a propellente liquido solo una decina d’anni più tardi. Raggiungere le stelle non sarebbe diventata una priorità fino al 1957, quando la Russia mandò in orbita il primo satellite della storia. Quello dello Sputnik fu il lancio di cui parlò tutto il mondo: il guanto di sfida era stato gettato.
La NACA si trasformò nella National Aeronautics and Space Administration, la NASA, e la corsa allo spazio ebbe inizio. Certo, per come la vedo io, è iniziata con il cosiddetto brodo primordiale, nella notte dei tempi. Perché spiegare le vele in aria e continuare a volare fa parte della nostra essenza. Infinitamente libero, il nostro istinto di mirare al cielo risale a ben prima che Igor Sikorskij e i fratelli Wright si staccassero dalla terraferma con un rombo, librandosi in aria, girando su se stessi e, nella maggior parte dei casi, schiantandosi. E questi inventori non furono i primi a creare diavolerie così sublimi.
Leonardo da Vinci progettava alianti e macchine simili a elicotteri già nel Quindicesimo secolo. Eoni prima si tessevano e si raccontavano storie fantastiche di visitatori intergalattici che facevano atterraggi teatrali e partenze vorticose, e di folli mortali che volavano troppo vicino al Sole con ali di cera e piume. I miti e altri antichi testi, tra cui la Bibbia, sono pieni di rivelazioni e allusioni straordinarie che potrebbero dare qualche indizio scientifico sulla nostra vera origine, a patto di non aspettarsi di prenderli alla lettera.
Le prime cose che mi vengono in mente sono le strade lastricate d’oro e i roveti ardenti; e poi la bistrattata asinella parlante di Balaam, la moglie disubbidente di Lot che viene trasformata in una statua di sale; la divisione delle acque del Mar Rosso; le masse sfamate con sette pagnotte e qualche pesciolino. E il mio preferito, il cocciuto Giona che rifiuta di fare rotta per Ninive, per poi finirci comunque, sputato a riva dopo un viaggio di tre giorni nelle viscere di una balena. Un arrivo anomalo, se mai ce ne fu uno, e un memento a non fregarsene del Controllo Missione.
Poi ci sono gli angeli, i demoni, il Monte Olimpo e gli dèi che solcano le strade della Terra: tutti abbastanza problematici, se non sei appassionata di fiabe e non hai una fede cieca. E nella mia famiglia prendiamo miracoli, magia e paranormale per quel che sono: fenomeni scientifici inspiegati o fraintesi che gli esseri umani amano adattare ai loro scopi e antropomorfizzare. Per non dire politicizzare. Di solito per suffragare uno specifico punto di vista, quasi sempre finalizzato ai propri interessi.
Il tutto quando invece sarebbe più saggio conoscere il nostro posto nel più vasto disegno delle cose: un puntolino azzurro, uno degli innumerevoli, vibranti pianeti lontanissimi sparsi nell’infinito, che girano e orbitano come gioielli roteanti. Mondi separati che tentano di raggiungersi come le due dita nella Creazione di Adamo di Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina. Come E.T. che alza gli occhi al cielo, da dove proviene. Come Dorothy, che ribadisce cantando che nessun posto è come casa, ricordandoci che potremmo non essere di questo mondo, ma di un altro, al quale vogliamo disperatamente fare ritorno. Questo spiegherebbe anche perché sia nella nostra natura spingere i nostri fragili corpi abbigliati di carne a fendere pericolosamente l’aria. Prendere il volo con mantelli e aquiloni, dirigibili e aerostati, alianti, zipline, catapulte, corde da bungee jumping, paracadute, aerei, razzi, capsule spaziali, jet pack, droni…
Sono poche le cose che non saremmo disposti a fare pur di sfidare la gravità, pur di liberarci dalle nostre pastoie, tornare alla fonte, andare a caccia di ciò che abbiamo perduto, sfrecciare liberamente nell’eternità su onde di energia e luce.
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Fermarsi accostando le auto dal lato del guidatore è il metodo dei poliziotti per incontrarsi nei parcheggi deserti. Io e Fran abbassiamo il finestrino.
«E adesso? Allerterai il Pentagono sul tuo falso allarme?» mi chiede con un tono sarcastico che sovrasta la ventola del riscaldamento. «Magari lo dirai al tuo sugar daddy, il generale Melville? Solo che non mi è parso tanto dolce con te, oggi…»
Le faccio segno di stare zitta, in modo da poter chiudere la comunicazione attiva per entrambe: «Comm Center, Alpha 5 è 10-95 a 1111».
Alla radio informo la centrale che stiamo lasciando la scena, senza altri dettagli. Fin dalla prima chiamata sono stata particolarmente attenta a non divulgare con precisione il punto esatto dell’edificio in cui ero diretta e a quale scopo ci stessi andando, tranne che rispondere a quello che la maggior parte delle persone avrebbe considerato un allarme di routine. Non ho menzionato il 1111-A, Yellow Submarine o alcunché di quantico.
Non ho fatto riferimenti alla denuncia di furto del badge nell’edificio 1110 fin dal tardo pomeriggio di ieri, perché so che giornalisti o altre persone potrebbero monitorare le conversazioni. In particolar modo, Mason Dixon, e questo è davvero il suo nome.
«Dieci-quattro, Alpha 5» risponde Christine dalla centrale, e io attivo il microfono per ringraziarla.
«Ho alcune cose di cui occuparmi» dico a Fran mentre mi allaccio la cintura. «E, per favore, ricorda che l’allarme non è stato falso, di per sé. Quindi non andare in giro a dire una cosa del genere, e non metterlo nel rapporto.»
«Non sono io a dover scrivere il rapporto. E se è per questo nemmeno il falso allarme è mio. E di certo non mi metto a scrivere le tue cazzate, capitan Spaccone.»
«Be’, maggiore Cagasotto, quello che sto cercando di farti capire è che non sappiamo cosa abbia fatto scattare il rilevatore. Non ancora. Ma non ho finito con i controlli.»
«Quando pensi di andare a casa?» chiede, e scommetterei che ha voglia di parlare, come mi aspettavo.
«Spero nel giro di un’ora, ma dipende da quello che trovo sulla mia scrivania, ammesso che ci sia qualcos’altro. Inoltre devo mettere sotto chiave le prove e congelare i tamponi.»
«E per far che? Sarà meglio che ti togli dalla testa l’idea di portarli al laboratorio: sono già strapieni di lavoro arretrato.» Eccola che ricomincia a farmi la lezione. «Giuro che non riesco a capire che importanza abbia se qualcuno ha perso sangue nel tunnel. Sono certa che succeda spessissimo, con tutto quel metallo arrugginito ovunque. Voglio dire, già starsene a tanti metri sotto il livello del mare ti fa sanguinare il naso, se ci rimani abbastanza a lungo. Ti può scoppiare il cuore.»
«Non è vero.»
«Sono abbastanza certa che un medico potrebbe confermare» dice caparbia, rendendosi ridicola.
«Neanche per idea.»
«Là sotto ci è morta della gente.» Questo non è del tutto vero, ma ci va vicino. «Il che mi porta a un’altra riflessione: quand’è stata l’ultima volta che hai fatto l’antitetanica?»
«Io sono a posto con tutto, e non era mio, il sangue.» Alzo la voce mentre un caccia F-22 Raptor squarcia il crepuscolo e sfreccia nel cielo con un angolo di incidenza tanto elevato da sembrare impossibile.
«Ma non sai quando qualcuno o qualcosa ha sanguinato laggiù. Ore, giorni, settimane o mesi fa? Ammesso che quello che hai trovato sia sangue, e per di più umano.» Mentre mi parla controlla gli specchietti: adesso che l’ansia è passata, ha ripreso la padronanza di sé e la scaltrezza tipica di chi è abituato a stare in strada.
«Sospetto che il sangue sia lì da non più tardi di ieri pomeriggio» ribatto. «Non da molto prima, ma potrebbe anche essere più recente, recentissimo. Ipotizzando che qualcuno fosse nel tunnel solo pochi minuti prima di noi, il calore dei tubi avrebbe fatto annerire le gocce di sangue in fretta, dando loro esattamente l’aspetto che avevano quando le ho viste. Non avrebbero impiegato molto. Minuti, forse secondi.»
Aggiungo che verificare la mia ipotesi sarebbe semplice: non dovrei far altro che scendere di nuovo nel tunnel 1111-A, pungermi un dito e sanguinare sullo stesso tubo da vapore rivestito di amianto. In questo modo, potrei stabilire con esattezza la quantità minima di tempo necessaria al sangue umano per coagularsi, seccare e annerire nelle stesse condizioni di caldo umido. Questo, però, non mi direbbe per quanto tempo il sangue potrebbe restare così prima di sfaldarsi o sciogliersi per effetto dell’aria rovente e delle perdite di acqua.
«Se vuoi fare una cosa così idiota, accomodati» sibila Fran. «Però ci vai da sola. Fra vent’anni troveranno il tuo povero culo mummificato laggiù. Ecco cosa otterrai.»
Non lo pensa davvero, e so che più tardi troveremo qualche avanzo più che decente nella cucina di mia madre. Un po’ di maccheroni al formaggio riscaldati, con la ricetta presa dal suo programma di cucina preferito, “Kitchen Combat”. Magari una porzione o due di quei peccaminosi fagioli stufati che sanno di cipolle caramellate e bacon. Prima di dover tornare qui e stare sveglie tutta la notte.
«Ti mando un messaggio quando sono a casa. Dammi un paio d’ore per sistemare alcune cose prima di fare un salto da me» e intendo letteralmente: siamo vicine di casa, anzi, a dire il vero, qualcosa di più.
Fin dagli anni Sessanta dell’Ottocento, la famiglia Chase e tutti i parenti vivono in una piccola insenatura sul Back River, da quando la fattoria in cui sono cresciuta è stata assegnata al bisnonno di mio padre, George Washington Chase, dopo la guerra civile. La leggenda di famiglia racconta che il nostro cognome, Chase, cioè “caccia”, sia stato inventato di sana pianta da qualche politicante nordista che trovava divertente punzecchiare i miei antenati di sangue misto sul fatto che dessero loro la caccia da sempre.
Non era divertente allora e non è divertente adesso. Però una cosa è certa: oggi sono qui perché la nostra saga, a differenza di tante altre, ha avuto un epilogo di gran lunga più lieto. I Chase sono davvero una grande famiglia felice, e per farne parte non devi necessariamente essere un consanguineo. Fran e Easton, suo figlio di sei anni, vivono nella casa accanto e sono entrati nel nostro ecosistema con il matrimonio di lei, che ha sposato il suo fidanzatino delle superiori, nonché cugino di mia madre, Tommy. Lui, adesso, si sta prendendo una pausa, e io non mi sento di biasimarlo.
Una pausa per la salute mentale. Un periodo sabbatico o una convalescenza potrebbero essere termini più onesti per descrivere il motivo per il quale lui e Fran hanno deciso di darsi un po’ di spazio. Vale a dire che lui ne aveva bisogno da quando la moglie aveva iniziato a trasformarsi in Mr Hyde più spesso di quanto non rimanesse nei panni del Dottor Jekyll. Le sue fobie erano peggiorate di brutto, e nessuno sa perché, anche se penso di averne un’idea.
Io non credo alle coincidenze, e non ci ho creduto nemmeno la scorsa primavera, quando le sue condizioni sono peggiorate dopo aver scoperto che io e Carme eravamo state selezionate come potenziali candidate per diventare astronauti. Se questa storia dovesse finire come spero, la vita di Fran non sarebbe più la stessa. Certo, lei non sarebbe mai disposta ad ammetterlo, ma i suoi attacchi di panico sono peggiorati, ed è diventata più sgradevole. E Tommy ha preso un appartamento a Williamsburg.
Ha insistito che Fran, Easton e il loro gatto rosso, Schroder, restassero a vivere a Hampton, nella casa sul fiume con il tetto di lamiera, gomito a gomito con noi. Hanno bisogno di stare dove sono, circondati dalla famiglia. Come sostengono sempre i miei genitori, per un bambino è la cosa migliore. Ed è vero. Finché va tutto bene con i tuoi parenti, tutto va bene. O abbastanza bene.
Dico a Fran che ci rivedremo più tardi al ranch. Alzo il finestrino e parto. Presto farà buio e la maggior parte della gente sta tornando a casa, intasando le strade mentre percorro North Dryden Street allontanandomi dal carroponte, diretta al centro del campus.