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3 dicembre 2019
Langley Research Center,
Hampton, Virginia

Non saprei dire con certezza quando il tunnel centenario venne sigillato come una tomba.

Forse quando iniziò a essere raffigurato come una struttura senza nome in corpo 8 sulle mappe di servizio del sito, quelle che nessuno guarda mai. Piena di tubature per il vapore ad alta pressione e altre parti meccaniche, a un certo punto la sezione del tunnel denominata ufficialmente 1111-A venne chiamata in codice “Yellow Submarine”.

«Mai ufficialmente o per iscritto» sto spiegando al maggiore della polizia della NASA Fran Lacey, mentre la poveretta arranca dietro di me giù per la buia scala ripida. «Potrebbe essere successo fra la metà e la fine degli anni Settanta» aggiungo, come se lei mi stesse ascoltando o gliene importasse. «Sono arrivata a questo risultato incrociando i dati e facendo dei calcoli.»

Per tutta risposta, lei rimane in silenzio, come ha fatto finora, quindi mi giro per guardarla, sapendo bene che non ha intenzione di conversare. Dovrei approfittarne finché dura. Solo che non ci riesco. Mi sento a disagio per lei, ma questo non significa che sia disposta ad abbassare la guardia. Non esiste.

«In altre parole, nel Medioevo, più o meno quando sei nata tu» quando posso, non risparmio le frecciate. «Così tanto tempo fa che nemmeno la NASA aveva idea di cosa ci avrebbe riservato il futuro. Se lo avessero saputo, non avremmo il problema che sto cercando di mollare a te più in fretta che posso.»

Faccio di nuovo una pausa in attesa di una risposta che non arriverà. I nostri piedi si posano lentamente, con un rumore sordo, sui gradini di cemento bordati da piastre di sicurezza in acciaio dipinte di giallo brillante. Scendiamo di qualche scalino. Ci fermiamo ogni due secondi, mentre l’aria si fa sempre più calda e densa. Sembra di essere nel pieno dell’estate più che nel cuore dell’inverno, e tutte e due tossicchiamo e sudiamo.

«Immagino sia colpa di qualche idiota ingegnere sistemista o di qualcuno dell’intelligence. Sicuramente un fan dei Beatles, quindi molto probabilmente dopo il 1968» continuo a rovesciarle addosso informazioni che a Fran, in questo momento, non potrebbero importare di meno.

Parlo ininterrottamente, a ritmo con la nostra discesa. Un tonfo di passi dopo l’altro. Una pausa, sottolineata dai suoi teatrali sospiri e dai colpi di tosse. A quel punto mi giro, e la ritrovo esattamente com’era un secondo prima. Mi mostra il dito medio di entrambe le mani, prendendomi per i fondelli come fa sempre. Be’, non del tutto, in realtà. Perché, anche se è una poliziotta famosa per avere due palle così e per non avere paura di niente, per lei questo non è affatto divertente.

In distaccamento permanente dal dipartimento di polizia di Hampton, Fran supervisiona le indagini dei Servizi di protezione della NASA di Langley, in sostanza la nostra forza di polizia, composta da circa 70 agenti in uniforme e una decina di agenti speciali, dei federali armati di tutto punto e impegnati a garantire la sicurezza e far rispettare la legge nel campus. Inoltre, Fran coordina le forze congiunte di polizia della marina, dell’aeronautica e della scientifica a disposizione della NASA e della città di Hampton. E, come se non bastasse, le nostre unità mobili, quelle antisommossa e le SWAT.

Per non parlare della sicurezza per le personalità in visita e del coordinamento con la polizia militare alla base dell’aeronautica militare di Langley, separata dal nostro centro da cancelli sorvegliati da guardie armate e da una recinzione alta due metri e mezzo e sormontata da filo spinato. Insomma, Fran non è il tipo da prendere sottogamba, a cui mancare di rispetto o da sottovalutare, ma questo non significa che gliela farò passare liscia mostrando empatia o lasciando trapelare in alcun modo quanto segretamente mi roda doverla mettere in questo casino. O in qualunque altro. Ma se davvero sono la sua partner nell’indagine e la sua più stretta alleata e amica, cedere al suo problema sarebbe la cosa peggiore da fare, per me. Sarebbe egoista e pericoloso. Nel peggiore degli scenari, potrebbe rivelarsi catastrofico.

«Considero il tuo volgare linguaggio dei segni come un sì. Stai andando bene» dico in risposta al suo ultimo doppio gesto, ben sapendo che non ha senso prenderla sul personale, quando lei raggiunge questo limite.

«Taci» riesce a rantolare. Per fortuna, la sua attuale sgradevolezza è abbastanza ovvia, e per lo più non rispecchia la sua usuale personalità.

I profondi stati di ansia, per quanto repressi e nascosti, però, difficilmente rendono le persone più collaborative o gentili. La frangia di capelli neri le si incolla alle sopracciglia corrucciate sotto il casco protettivo che ha indossato tutto storto, e gli occhiali di protezione le si appannano di continuo. Con gli occhi fissi sugli scarponi, misura ogni passo incerto e scende lungo una polverosa scala claustrofobica che, in passato, ha evitato come la peste e che, se fosse stato per lei, avrebbe continuato a evitare. Per fortuna non può. Anche se, tecnicamente, il suo grado è superiore al mio.

«La ragione per la quale lo so, ovviamente, è che il loro iconico album omonimo è uscito dopo quella data» rispondo alla domanda che lei non fa. «Yellow Submarine. Secondo la canzone viviamo tutti dentro un sottomarino giallo, una metafora per la nave spaziale Terra, giusto? Il che torna, se consideriamo cosa c’è qui sotto, come vedrai tra poco» continuo, fingendo di ignorare il suo terrore di sentirsi imprigionata.

E vale per grotte, gessi ortopedici, metropolitane, cinture di sicurezza, manette, bunker, sottomarini e, soprattutto, tunnel. E non è che io sia poi così insensibile. Quando però si tratta delle sue fobie, cerco di darle una mano, ma non voglio assecondarla del tutto. Non mi è piaciuto quando ieri si è rifiutata di scortarmi in questo stesso percorso per un’analisi di routine alle reti dentro al tunnel Yellow Submarine. Un test molto importante – anzi, alla luce delle attuali circostanze, critico –, e Fran non ne voleva sapere. Ha smesso di rispondere ai miei messaggi e alle mie telefonate su questo argomento. Si è imboscata e mi ha evitato, così ho lavorato senza di lei.

Poi, la sincronicità ha voluto che uno dei sensori di movimento della camera d’equilibrio 1111-A mi abbia mandato un avviso esattamente 22 minuti fa, dandomi l’opportunità perfetta di concedere a Fran un’altra chance. Le ho fatto un’offerta che non poteva rifiutare davanti all’intera direzione del Centro di Langley e dei suoi ospiti di alto grado, i capi dei Servizi di protezione della NASA e della polizia di Hampton.

Soprattutto, davanti al mio ex capo, il generale Dick Melville, comandante della Space Force. In preda all’ansia, sfrego il pollice e l’indice della mano destra. Sento la cicatrice. Mi ricordo di quando lui ha fatto la stessa cosa solo qualche ora prima, quando l’ho incontrato al briefing e mi ha stretto la mano. Ha controllato il polpastrello alla ricerca di quella particolare vecchia ferita, esplorandone la topografia smussata, come una stigmate. Con un tocco talmente leggero da farmi persino dubitare che fosse intenzionale.

Ma mi sono sentita sotto esame come mai prima, e lui ha reagito in maniera strana quando l’allarme del sensore di movimento si è azionato. E, quando dico in maniera strana, intendo che non ha reagito affatto. È rimasto impietrito sulla sedia, mentre io mi profondevo in scuse, spiegando davanti a tutti che io e Fran dovevamo rispondere all’istante.

Per colmo di ironia, la vulnerabilità di cui stavo parlando in quell’istante stava avendo un problema. La sicurezza di Yellow Submarine poteva essere stata violata. Proprio adesso. In tempo reale.

«Se fossi maliziosa, penserei che lo hai pianificato» Fran era riuscita a tirarmi una stoccata davanti al nostro pubblico così prestigioso.

Una ritorsione per non averle lasciato altra scelta, se non salvare la faccia rispondendo in maniera franca e ragionevole a quella che, in modo tanto frettoloso quanto irrazionale, aveva liquidato come un’impresa inutile. In difficoltà e irritata, era parecchio riluttante, anche se non lo mostrava. Be’, tanto peggio. Falso allarme o no, finalmente Fran mi ha seguito.

Sta per scoprire cosa c’è esattamente all’interno della sezione murata del tunnel che corre circa 15 metri sotto gli edifici 1110 e 1111. Per una volta, prenderà sul serio i miei avvertimenti riguardo alle due anonime strutture governative prebelliche situate ai limiti più remoti del campus, dove la NASA tiene i suoi laboratori per le telecomunicazioni, le operazioni spaziali e l’elettromagnetismo. E qualcos’altro.

Ed è il “qualcos’altro” che lei deve cogliere appieno, oppure non riuscirà a capire perché questa remota area del campus non è semplicemente “a rischio”. Per come la vedo io, infatti, è più vulnerabile di tutti i centri e le strutture della NASA messe insieme, se sommiamo la volatile chimica dell’attuale caos politico alle locali circostanze meteorologiche e geografiche.

Fran deve sapere che cosa tenere d’occhio, se non vuole che scoppi la Terza guerra mondiale. Tanto più che probabilmente io non sarò lì a spiegarglielo. Se tutto va bene, io non sarò lì a spiegarlo a nessuno.

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E poi? Chi impedirà al maggiore Lacey di farsela sotto?

In preda a veri e propri attacchi di panico che terminano con lei in posizione fetale su una barella o aiutata dai pompieri a scendere da una scala antincendio. Non che io abbia il tocco magico o la cura infallibile, ma fin dall’inizio ho capito che, quando lei è in difficoltà, il rimedio migliore è quello di parlare senza sosta.

Inondarla di informazioni, distrarla per impedirle di farsi risucchiare in un vortice di terrore paralizzante. Questa strategia ha sempre fatto meraviglie su di lei quando il lavoro ci ha portato su terreni difficili, vale a dire quasi sempre.

«Immaginalo come un wormhole che porta…»

«Ma quale wormhole del cazzo!»

«… entrambi conducono in un universo parallelo che la materia oscura vuole conquistare a tutti i costi» continuo, anche se sembra che parli una lingua aliena. Le scocco un’occhiata. «Tutto okay?»

«Smettila di chiedermelo!» Senza fiato e diversi passi indietro rispetto a me, a ogni secondo che passa è più congestionata e tagliente.

Ma non le lascerò abbandonare la scena. Opto per la cosa migliore, anche se la fa incavolare, mentre continuo ad assicurarmi che non stia andando in iperventilazione, surriscaldamento, shock anafilattico o chissà cos’altro. Considero un progresso il fatto che, quantomeno, non stia scendendo gli scalini da seduta, cosa che le ho visto fare in passato, quando era fuori di sé per il terrore.

Al momento non sta poi malissimo. Però ci è vicina: si fissa gli scarponi, senza guardare dove mette i piedi, incurante di cosa o perché. Incurante di tutto, tranne di quanto si senta stressata, arranca dietro di me, un passo tremante alla volta. A vedere la sua espressione e il modo in cui stringe il corrimano, sareste portati a credere che stessimo scendendo nei tormenti dell’inferno dantesco.

«Tu e le tue fobie. Cosa succederà quando me ne sarò andata?»

«Oh, per favore, per favore…» dice. Non volevo pronunciare ad alta voce quelle parole. «Piantala di darmi addosso!» Cerca di ignorare la pendenza, le pareti che si stringono.

«Non lo faccio. Ma anche se fosse?» La mia voce echeggia quando mi fermo sugli scalini. «Senti, so bene quanto odi tutto questo, Fran, ma è per il tuo bene, accidenti! E non ti porgerò una mano per aiutarti.»

«Sai cosa puoi farne, della tua mano?» Tira su col naso, le lacrimano gli occhi a causa di un attacco di allergia. È incapace di afferrare l’importanza di tutto questo.

E non perché sia stremata e in preda alla claustrofobia, il che comunque è vero. Il problema è che non vuole affrontare la ragione per la quale insisto nell’illustrarle dettagliatamente ciò di cui mi occupo quaggiù. Non soltanto l’edificio 1111, ma l’essenza stessa della scienza e delle operazioni di polizia in quest’epoca di ibridi e fusioni, dove tutto è sempre più aggrovigliato e intrecciato. Peccato che lei non mi stia nemmeno a sentire, e non da adesso.

Fran non vuole accettare il fatto che io non abbia mai programmato di restare qui per sempre. Alla fine, dovrà prendere il mio posto, che le piaccia o no. Come dice mia sorella Carme: “La realtà capita, Sisto”. Solo che “realtà” non è la parola che usa lei.

E Sisto non dovrebbe essere reso pubblico, visto che è il nomignolo segreto che usa per me da prima della nascita del mondo, come mi piace chiosare. Una brillante crasi di sister e Callisto, dato che i nostri genitori – entrambi dipendenti della NASA – hanno dato alle loro figlie gemelle i nomi di due lune di Giove. Sebbene Carme (suona quasi come “Karma”, vero?) sia in realtà considerato più un satellite irregolare, mentre la mia omonima è, per grandezza, seconda solo a Ganimede. Tutti mi chiamano Calli. E Carme è Carme, quando non si sbagliano a pronunciare e dicono Carm. (Da non confondersi con charm, lasciatemelo dire, in caso non abbiate avuto il piacere di conoscere il mio clone non troppo uguale e dal temperamento fumantino.)

Quando ci siamo viste l’ultima volta, mi ha fatto giurare che, se tutto dovesse andare come previsto, non pianterò in asso i nostri genitori, o Langley, o Fran, o chiunque altro. Da allora ho organizzato le cose e mi sono occupata di tutto il possibile, perché statisticamente c’è un cinquanta per cento di probabilità che la mia gemella pilota da caccia e io veniamo richiamate a Houston da un giorno all’altro. Il mio intuito mi dice che abbiamo possibilità maggiori di quelle che credo, e sospetto che, entro l’anno nuovo, saremo sistemate in Texas in pianta stabile.

Forse proprio in quel quartiere sul lago che tanto ci piace e dove abbiamo fantasticato di tenere una barchetta. Dista più o meno quindici minuti dal Johnson Space Center, a seconda del traffico. Ma quello che ho sempre desiderato per me non è qualcosa di cui io e Fran possiamo parlare serenamente, adesso che il mio futuro è a portata di mano. Non abbiamo davvero discusso di cosa succederà.

Non vuole rendersi conto che sono decisa. Rifiuta di affrontare le conseguenze della cosa, a parte qualche occasionale frecciata su quanto io sarei preoccupata e sull’orlo di una crisi di nervi. Sul fatto che sono una che si piange addosso. Una rompiscatole da competizione e un’ambiziosa, che non stacca mai, né prova interesse per gli amici.

«… e poi, nel 1975, il governo americano ha deciso di usare i cavi a fibra ottica per collegare i computer in rete per la prima volta» la mia narrazione si fa più intensa mentre scendo un’altra rampa di scale. «Questo accadeva nella struttura segreta dell’Aeronautica a Colorado Springs. Cheyenne Mountain, dove ho avuto il mio ultimo lavoro onesto, come dici sempre tu.»

Fino a tre anni fa, ero un capitano della polizia militare e mi occupavo di indagini informatiche in quella che definisco la Bat Caverna del Nord America, l’installazione di Cheyenne Mountain, costruita circa seicento metri sottoterra per resistere a un attacco nucleare. E questo spiega perché ho un’opinione informata sull’opportunità di usare un camminamento sotterraneo come banco di prova per le telecomunicazioni su fibra ottica. Ma le scelte fatte ai bei vecchi tempi dei Beatles e della guerra fredda risalivano a ben prima della mia nascita.

Altrimenti avrei avuto parecchio da dire sugli eventuali rischi di creare una rete basata sulla distribuzione quantistica di chiavi crittografiche in un luogo simile. E di quelli connaturati al passaggio dei cavi da lì al cuore del complesso di super-computer da poco inaugurato a Langley, il Katherine G. Johnson Computational Research Facility, chiamato così in onore della “calcolatrice umana” che computava a mente le traiettorie dei nostri primi lanci spaziali.

Nessuna cerimonia con taglio del nastro o notizia alla stampa ha lasciato trapelare l’importanza top secret del CRF. Fosse stato per me, avrei eliminato il 1111-A, Yellow Submarine, dall’equazione. Avrei proibito l’installazione di cavi, scatole di giunzione elettrica e altre attrezzature per le telecomunicazioni all’interno di quello e degli altri tunnel di servizio.

Mai, nemmeno nei miei giorni peggiori, avrei approvato connessioni punto a punto che trasmettessero segnali-dati ad alta velocità all’interno di uno spazio sotterraneo ridotto e condiviso con roditori, rettili e una congerie di personale di servizio che andava e veniva.

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Sono tormentata di continuo dalle distrazioni, e so come tenerle a bada. Sarebbe andato tutto bene, se non fosse stato per la tempistica.

Faccia a faccia con la peggiore notizia della mia vita, ricevuta solo qualche istante prima. Preoccupata e incline a dimenticare come sono stata ricondizionata. Ormai disabituata al Sole, alla Luna, al cielo fuori dalla mia catacomba di pietra incassata nelle viscere della terra. Ore interminabili senza aria fresca. Non vedo mai finestre, atri, cupole. Niente camere con vista sulla bellissima Terra che desidero tanto. Solo display elettronici e schermi di computer in condizioni di semioscurità.

Seguo le istruzioni mentre mi preparo per la missione definitiva: fermare l’impensabile prima che il pensiero prenda forma. Giorni e giorni alla ricerca di tracce di calore e della loro firma termica. Osservare e intercettare segnali ovunque. E tutto porta al motivo per cui ho avuto problemi con il coltello, un coltello dal manico di legno con una lunga lama a taglio singolo.

Come una talpa, gli occhi che lacrimano, non vedo bene nella luce abbagliante. Di fretta e confusa. Spaventata e smarrita. Presa in contropiede, non mi sono accorta di ciò che stava per succedere. Sangue ovunque, ho iniziato a scalpitare come un mammifero morente, un piccolo mammifero sotterraneo. Con la differenza che non sto morendo.

Mortificata, quasi impazzita, ma non ferita mortalmente. Non nel corpo, almeno. Cerco di ripulire tutto prima che qualcuno si accorga della stupidaggine che ho fatto.