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Conosco questo posto come il palmo della mia mano: potrei persino fare la guida turistica per ognuna delle attrazioni presenti qui.

A partire dalla più popolare, la casamatta fortificata dove Jefferson Davis, il fragile presidente degli Stati Confederati, venne imprigionato nel 1865 al termine della guerra civile. Immagino che chiunque di noi adorerebbe una bella storia di umiliazione e castigo in una cella non riscaldata che adesso è un museo. La cosa, però, non mi ha mai toccata più di tanto.

Quello che amo io sono i ricordi conservati nei bastioni in rovina e lungo i parapetti, i cannoni, i terrapieni, gli spalti e i sentieri naturali. Anche l’RV Park, l’attuale area di sosta attrezzata, e la vecchia chiesa di pietra avrebbero un paio di storie da raccontare, se potessero parlare. Così come la spianata delle parate con le antiche querce, i chilometri di spiaggia, il molo per la pesca e il cimitero degli animali. Di notte è tutto piuttosto inquietante, anche se non si è diretti verso la scena di un crimine.

Posso immaginare l’attrattiva che questo posto ha esercitato sulla creatività morbosa di Edgar Allan Poe, quando fu assegnato qui tra il 1828 e il 1830. E non mi stupirebbe che rigirandosi nella branda sia stato assalito da terrori notturni pensando a un cuore che batteva sotto le assi del pavimento. Potrebbe anche aver pensato all’omicidio, come è capitato a me quando mi aggiravo per quelle stanze con Carme. Cercavo sempre di superarla con i miei racconti dell’orrore, che avrebbero fatto fuggire in lacrime, con i capelli ritti in testa, qualsiasi bambino.

Peccato che, a quanto posso ricordare, la mia gemella non si lasciava spaventare facilmente, per non dire affatto. In questo mondo acquatico di rovine ed enormi cannoni noi facevamo sport o mettevamo in scena i nostri racconti inventati. Poi, all’epoca del liceo, venivamo qui a bere e a far casino, in particolare con i ragazzi più carini che poi portavamo al cimitero degli animali per una bella dose di strizza e romanticismo. Non esagero quando dico che, negli anni di attività della base, Carme e io avevamo sempre almeno un amico che ci faceva superare il posto di guardia grazie all’adesivo blu degli ufficiali apposto sull’auto di famiglia. Portavamo dentro gli alcolici nascosti nelle bottiglie di lozione solare o di acqua, e flirtavamo spudoratamente con i poliziotti militari, che ricambiavano volentieri.

Anche se, a dire la verità, era mia sorella il cervello di quelle scorribande. Ma non posso dichiararmi innocente, visto che ero sempre pronta a seguirla. Nulla poteva impedire a noi, che abitavamo lì, di trasformare quel posto nel nostro resort personale o in un club privato che comprendeva accesso illimitato a barche, pesca, tennis, bowling, campeggio, palestra e campi di atletica. Rivedo tutto come in un film, con i ricordi che si susseguono velocissimi mentre percorro il perimetro interno del fossato pieno d’acqua.

Le rovine delle caserme e degli edifici in pietra sono scheletri ingrigiti dalle intemperie come vecchie ossa, attrezzati con il minimo delle forniture moderne: niente più che parapetti di sicurezza e rari lampioni di ferro. Seguo i familiari segnali che indicano i siti storici, dei quali potrei recitare a memoria le descrizioni sui cartelli.

La vecchia cisterna, registrata per la prima volta su una mappa del 1834 e fonte di acqua per la guarnigione… L’obice da dodici libbre, un cannone da campagna di bronzo fabbricato nel 1862 dalla Tredgar Iron Works di Richmond…

Il cannone Rodman, a canna liscia, che pesa oltre sette tonnellate… L’arsenale, specializzato in affusti di cannone a ruote per la difesa costiera… L’Engineer Wharf, dove Jefferson Davis sbarcò da prigioniero… Poi alla mia sinistra, nascosta dietro gli alberi invernali spogli e un cannone otturato, la casamatta dove Davis fu confinato, malato, prima di essere portato all’interno della fortezza, per essere rilasciato infine sulla parola cinque penosi mesi dopo.

Oltre il fossato, il faro di Old Point Comfort oggi brilla luminoso, una sicurezza per i marinai che navigano nella baia di Chesapeake, ma anche un punto di osservazione usato dai britannici durante la guerra del 1812. Subito dopo c’è l’edificio a un piano di mattoni rossi, le ex caserme dove è morta Vera Young. Lungo la strada sono posteggiate macchine e camion della polizia di Hampton e della NASA, e il van nero privo di contrassegni e di finestrini dell’ufficio del medico legale di Tidewater. Io parcheggio dietro il Tahoe di Fran e le mando un SMS per dirle che sono arrivata.

Prendo il borsone delle attrezzature e scendo nel freddo asciutto della notte irrequieta. Gli unici rumori sono il sibilo del vento, il tonfo della portiera che sbatte e lo scalpiccio dei miei scarponi mentre vado verso il bagagliaio del pick-up. Sollevo il portellone, apro un contenitore e tiro fuori la tuta anticontaminazione e una maschera integrale. Di questi tempi non si prendono mai troppe precauzioni. Le forze dell’ordine e gli operatori militari come me devono preoccuparsi di ben più che dello sversamento di prodotti chimici.

In genere non temiamo la candeggina, ma ci inquietano molto di più orrori come l’antrace, la ricina, il sarin e il carfentanil. Non possiamo sapere con cosa abbiamo a che fare fino a quando i test di laboratorio non sono completi. E anche se poi dovesse risultare che la sostanza chimica in questione non è nulla di peggio di quanto si può trovare nella lavanderia di casa, non ho alcuna intenzione di toccarla. Non voglio nemmeno respirarne i vapori. Chiudo il pick-up sotto uno strato di nuvole che nascondono la Luna e le stelle.

Al di là del vuoto buio del fossato, il faro brilla attraverso una nebbia umida che si trasformerà in brina non appena toccherà le superfici. Il freddo penetra i miei vestiti leggeri, e non riesco a smettere di pensare all’assenza di reazione di Dick alla vista del vecchio giubbotto da pilota di spessa pelle marrone che sta cominciando a creparsi qua e là, con i polsini elastici ormai allentati e i distintivi sbiaditi. La spiegazione logica è che non era sicuro di chi lo indossasse, se Carme o io.

Dopo avermi sottoposta al suo processo sommario, sa ormai benissimo chi sono. Eppure non ha detto una parola sul regalo speciale che mi aveva dato di fronte allo Space Command. Mi aveva aiutata a indossare il giubbotto vintage davanti a tutti, come se mi stesse lasciando in eredità un mantello particolare. Perlomeno, era ciò che volevo credere tre anni fa, il giorno in cui ho abbandonato il servizio attivo e il Colorado, quando ho lasciato Dick.

Non avrebbe dovuto essere per sempre, ed era scritto nelle stelle che avrei servito di nuovo ai suoi ordini in circostanze molto diverse. Come acrobata spaziale incaricata di installare antenne paraboliche sulla Luna, accertandomi che nessun avversario possa distruggerle o hackerarle. Un cyber-ninja che vola nello spazio, ai limiti estremi della tecnologia, per riparare un telescopio orbitante intorno al Sole, a milioni di chilometri dalla Terra.

Magari, lungo il percorso, potrò avere qualche discussione con i satelliti, catturare e rendere inoffensivi canaglie e fuggitivi che potrebbero creare il caos nei nostri sistemi di telecomunicazione e di difesa. Oppure controllare un visitatore interstellare a forma di sigaro in transito come Oumuamua, e magari atterrarci sopra per prendere un paio di campioni. Era scontato che sarei tornata sotto il comando di Dick appena avessi completato l’addestramento e fossi stata pronta, ma in questo momento è meglio non lasciarmi prendere da pensieri ossessivi su di lui o Carme.

Ho la testa da un’altra parte, e continuo a rimproverarmi per questo mentre attraverso la strada diretta verso il SUV Lexus color argento parcheggiato accanto al marciapiede, all’imbocco del vialetto di mattoni. Non è il momento di arrovellarmi sulla situazione irreale di poco fa, in cui il mio ex capo, seduto nel mio pick-up, mi informa che la mia gemella identica, la mia altra metà, la mia altra me, è sospettata per una sparizione e una probabile morte poco chiara.

Peggio ancora: secondo lui dovrei contattarlo immediatamente nel caso si facesse viva. Una specie di Signorsì, signore, capitano Chase a rapporto, e non so come interpretarlo. E nemmeno se gli ubbidirò. Se solo riuscissi ad anteporre la lealtà alla famiglia… Non è che mi sia venuto molto bene, finora. Ho sempre seguito la direzione del vento, mossa dagli affetti.

Per questo non sono più nell’aeronautica. Perché nella testa degli MP Crockett del mondo, non sono altro che una scienziata un po’ nerd con l’hobby di un secondo lavoro come addetta alla sicurezza.

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Il lembo è attaccato solo per una minuscola porzione di pelle. La carne è bianca ed esangue. Morta. Proprio come mi sento io.

Priva di forze, sto per svenire. Cerco di non guardare Dick mentre applica pressione, circondandomi con le braccia. Le sue mani forti sono viscide del sangue che gli sta inzuppando anche i polsini della mimetica. Proprio come il medico che ha assistito Lincoln dopo che gli avevano sparato, penso stranita.

Mi tiene la mano destra sopra il lavello, con il palmo rivolto verso l’alto, e comprime il polpastrello tagliato fino all’osso, mentre la punta del dito, con creste e solchi, è quasi staccata. Sento Dick toccarmi il dito e il dolore pulsante che mi provoca. Ma non mi divincolo e non vomito. Non oppongo resistenza.

«Andrà tutto bene, Calli» continua a ripetere, e io penso a quello che ho fatto a me stessa, a lui e a tutti quanti.

Il sangue continua a uscire, cade in gocce rotonde che diventano stelle, rosso brillante sul bianco della porcellana.

«… Pungerà un po’…»

Tremo appoggiata a lui mentre versa il Betadine, rosso scuro come ruggine liquida, e non sento pungere, neanche un po’. Invece, brucia come il fuoco dell’inferno. Mi sembra di essere torturata con un ferro arroventato e mi costringo a stare immobile, senza aprir bocca. Di non rivelare quanto sto soffrendo.

Solo che tremo, e sto per collassare mentre Dick mi regge in piedi. Sussulto come una persona negli ultimi spasmi dell’agonia. Mortificata di non riuscire a smettere.

«… Respira a fondo, Calli, respira. Cerca di restare il più ferma possibile…»

È alle mie spalle e mi sorregge mentre pulisce la ferita nel modo più delicato possibile.

«… Per andare nello spazio ho fatto anche addestramento come paramedico, ma questo non vuol dire che tu debba farti ricucire da me, se puoi evitarlo…»

Mi parla con voce suadente, quasi fossi una bambina.

«… Non funzionerebbe comunque, i punti di sutura non servono. Ho intenzione di usare le strisce adesive, ma non posso garantirti niente. Non sono sicuro che terranno, se devo essere sincero…»

Intanto io continuo a scusarmi per il disturbo, per aver rovinato la mattina e, magari, il mio futuro. Tutto per aver obbedito agli ordini, per aver fatto esattamente quello che mi avevano chiesto in un momento in cui non ero dello stato d’animo adatto per lavorare come al solito. Eppure mi sono presentata come mi era stato ordinato, ho salutato e tutto il resto, solo per combinare questo disastro. Come se le cose non andassero già abbastanza male.

«Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. È stato solo un istante in cui avevo la testa altrove.» Continuo a blaterare mentre Dick mi applica le Steril-Strip, e il dolore oscura la luce del Sole che entra dalle finestre della sala del personale.

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Scaccio ricordi e pensieri che mi fanno vergognare. Non posso permettermi distrazioni, non è il momento di assecondare le mie debolezze. Devo concentrarmi sulla missione, adesso, fare il mio lavoro, mantenere la freddezza.

«Concentrati, concentrati, concentrati» borbotto emettendo nuvolette di fiato.

Con le orecchie congelate e gli occhi che lacrimano, mi avvicino al lato del guidatore della Lexus, facendo attenzione a dove metto i piedi; con questo tempo il ghiaccio e i sintomi di congelamento sono un rischio reale. Osservo i pochi veicoli che passano nel buio invernale e prendo nota di tutte le targhe. Le raffiche di vento scuotono i sempreverdi e gli alberi spogli, facendo mulinare le foglie cadute.

Appoggio l’attrezzatura sul marciapiede e illumino con la torcia tattica l’interno del SUV color argento riflettendo su quello che mi ha detto Vera Young quando l’ho interrogata ieri a proposito del presunto furto del badge. Mi ha riferito di aver lasciato Langley a metà mattina e di essersi diretta a casa perché aveva l’emicrania. Si è assicurata di dirmi che aveva l’abitudine di sfilarsi il cordoncino con il badge non appena usciva dalla NASA. Voleva che sapessi che era molto scrupolosa, al punto che non lo portava mai mentre faceva benzina, andava al supermercato o sbrigava altre commissioni.

Sembrava che le sue preoccupazioni non riguardassero la propria sicurezza personale. E già questo è strano, o almeno lo avevo pensato. A maggior ragione adesso, mi chiedo come mai una donna che vive sola non fosse più attenta alle minacce fisiche. Ma la cosa che più saltava all’occhio era la paranoia per le tecnologie top secret alle quali lavorava e che doveva proteggere, oltre ai timori per rivalità professionali e sabotaggi.

Senza bisogno di tante parole, aveva messo ben in chiaro che la Pandora Space Systems ha tolleranza zero per imperfezioni e indiscrezioni di qualsiasi natura. Non c’è da stupirsi, dato che l’azienda è nota per essere competitiva, e implacabile in caso di negligenze o errori: un ambiente di lavoro tanto entusiasmante quanto stressante. Forse non ostile, ma quasi, e quando sono stata con lei nel tardo pomeriggio di ieri Vera sembrava ansiosa e sconvolta.

Soppeso ad alta voce le conseguenze del problema che Vera aveva “provocato accidentalmente” – parole che mi pare abbia usato almeno una dozzina di volte –, scusandosi profusamente per il badge e per la “disattenzione”, attribuita all’emicrania. Ripenso alla sua denuncia scritta e mi concentro sui campanelli d’allarme che mi mandano lo stesso avvertimento, questa volta in maniera più evidente, quasi con impazienza:

“… Sto attentissima al mio badge della NASA e apprezzo la responsabilità legata alla concessione di questo privilegio…

Primo campanello d’allarme: quando ero insieme a lei, ho avuto la sensazione che non apprezzasse affatto quel privilegio. Sembrava contrariata per essere costretta a vivere lontano da casa, risentita per essere bloccata in una località remota con un gruppo di ricercatori molto più giovani di lei. E non era per niente felice, aggiungerei, quando mi sono presentata con il mio elenco di domande.

“… Quando sono passata dal posto di guardia e ho lasciato il campus, mi sono tolta il badge. Non lo porto mai in pubblico perché a nessuno serve sapere il mio nome o dove lavoro. Non lo porto nelle fotografie e non lo lascio mai accessibile a nessuno…

Secondo campanello d’allarme: era molto attenta, eppure ha deciso di lasciare il badge in macchina. Lo faceva sempre?

… Sono arrivata alla farmacia intorno alle 10.15 e, prima di entrare, ho preso il badge dal sedile del passeggero e l’ho chiuso nel vano portaoggetti…”

Terzo campanello d’allarme: perché non metterselo in tasca o nella borsetta?

“… Lo ricordo chiaramente, perché mi era caduto il portafogli e se non me ne fossi accorta sarei entrata nel negozio senza soldi…

Quarto campanello d’allarme: questo particolare, che non ha alcuna rilevanza, è come un perimetro virtuale intorno a una parte del racconto che per lei diventa problematica. Non vuole parlare di quando è scesa dal SUV e di cosa ne ha fatto del badge. È molto probabile che stia mentendo, quindi ha fretta di passare a dopo le 11.00, quando è entrata nel suo appartamento ed è andata a letto. Restandoci per il resto della giornata, a suo dire.

… Alla fine, verso le cinque del pomeriggio mi sentivo abbastanza bene per tornare a Langley. A dire la verità, non mi sarei presa la briga se non fossi tanto indietro con i miei progetti, con una bufera in arrivo e la previsione di uno shutdown governativo. Quando sono arrivata al cancello principale e ho aperto il vano portaoggetti per prendere il badge, sono rimasta sinceramente stupita e sconvolta nel vedere che era sparito…

Quinto campanello d’allarme: non mi fido affatto delle persone che si esprimono con frasi quali “a dire la verità” e “sinceramente”.

“… Mi sono resa conto che doveva essere stato rubato, e l’ho riferito immediatamente alla polizia della NASA.

Vera Young, 2/12/2019