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Abbazia di Santa Maria di Pomposa
La corte del monastero era già innevata quando Gualtiero vi giunse. Frenò il baio e contemplò il vecchio carro abbandonato a pochi passi dall’edificio. Sembrava una creatura morta da decenni, spolpata dal tempo. Quasi tangibili, tuttavia, furono i ricordi che lo assalirono al solo guardarlo. Per un attimo gli parve di scorgere sua madre intenta a stendere panni all’aria. Soffocò un lamento di commozione, poi ripensò alle ore interminabili trascorse là dentro, nella solitudine e nell’angoscia.
Il tendone della copertura era ormai logoro, le assi di legno marce e le ruote deformate dal peso. Scese da sella e si avvicinò per sbirciare all’interno, trovando ben poco di integro. Vaselli di colore secco, brandelli di pergamena e carta bambagina appesi alle pareti, erbacce cresciute un po’ ovunque.
Un sorriso amaro gli affiorò sulle labbra. Raggiunse di nuovo il cavallo, frugò in una tasca della sella ed estrasse una piccola tavola dipinta a tempera. Osservò il ritratto di donna, soffermandosi sugli occhi sibillini di colei che aveva conosciuto e amato come Sapia. Una parte di lui non riusciva ancora a perdonarla.
Ripose la tavola sul cavalletto che ancora resisteva in un angolo e rievocò alla memoria il giorno spensierato in cui l’aveva dipinta. Infine, quasi prendendo commiato, abbozzò un inchino e si voltò verso l’abbazia.
Doveva parlare con il cavaliere de Rocheblanche.
Maynard si trovava poco lontano, al limitare del bosco che separava l’abbazia dalla palude. La tunica scura e la cappa dello stesso colore l’avrebbero fatto passare per un monaco, se non fosse stato per la cintura di cuoio da cui spuntava un manico di pugnale. Camminava a capo chino, la falcata irrequieta di una fiera in gabbia.
Allertato dal crocchiare di passi sulla neve, si voltò di scatto e sbarrò gli occhi, incerto se si trovasse di fronte a uno spettro. «Amico mio…», mormorò adagio. «Non immaginavo… vi avrei più rivisto…».
Gualtiero sorrise. «Anch’io vi pensavo morto».
Rocheblanche si avvicinò, gli pose le mani sulle spalle e lo scrutò con attenzione mentre l’esitazione svaniva dal suo sguardo. «Siete proprio voi!», esclamò infine. «Più magro di un eremita, sì… ma in salute!». Era compiaciuto, quasi esultante. Fu sul punto di abbracciarlo quando un’improvvisa ritrosia si impadronì di lui. «Ditemi», lo interrogò con cautela, «avete portato a termine la missione che vi affidai?».
Il giovane osservò la sua espressione ansiosa, infine annuì. «Sono stato a Mont-Fleur», rivelò. «Ho incontrato l’abate Manessier e gli ho riportato il vostro messaggio».
«Sapevo di potermi fidare», si complimentò il cavaliere. «Con il vostro benestare, saprò sdebitarmi…».
Gualtiero lo interruppe con un cenno dell’indice. D’un tratto si era fatto serio, quasi perentorio. «C’è dell’altro, messere», e dopo una breve esitazione aggiunse: «Ho visto cosa nasconde la cripta di quel monastero».
Maynard arretrò d’un passo, il cuore in gola. «Con il permesso dell’abate?»
«Fu proprio lui a guidarmi fin là. Dopo che sciolsi l’enigma».
«L’enigma…?»
«La mola dell’angelo».
«Alludete all’Apocalisse».
Il giovane scosse il capo. «Alludo alla salvezza del genere umano».
Anziché raccapezzarsi, Rocheblanche s’irrigidì. Un sorriso perplesso gli attraversò il volto. «Vorreste darmi a intendere di aver sciolto l’enigma del Lapis exilii… con le vostre sole forze?».
Gualtiero abbozzò una smorfia nell’attesa che la diffidenza del francese scemasse. «Con il mio intelletto, sì», confermò poi, lasciando trapelare una grande sicurezza. «E grazie alle immagini che lo guidarono».
Attonito, Maynard prese a camminare in tondo sul manto immacolato, cercando di prendere confidenza con quell’incredibile rivelazione. Era persuaso della sincerità di Gualtiero, eppure faticava ad accettare che una persona qualunque fosse riuscita a penetrare un mistero tanto grande. Un mistero a cui lui stesso, dopo tanti sacrifici, non era stato possibile accedere. «In effetti, padre Andrea ha lodato più volte il vostro acume», rimuginò a testa bassa, con una punta d’invidia. «Vi attribuisce delle doti assai rare… Doti che anch’io, del resto, ho potuto notare…». Folgorato da un dubbio, lo fissò improvvisamente minaccioso. «Manterrete il segreto?»
«A costo della vita», rispose il giovane, per poi farsi allusivo. «Anche se sarebbe opportuno custodirlo in due».
Rocheblanche scosse il capo. Era tentato, naturalmente, ma il suo orgoglio gli impediva di accettare alcunché senza prima aver dimostrato di esserne meritevole. «Se a suo tempo il venerabile Manessier avesse voluto mettermene a parte…», tentò di giustificarsi.
Gualtiero non si mostrò d’accordo. «Nel congedarmi, Manessier mi concesse di rivelare ciò che vidi a una persona. Una soltanto, a patto che ne fosse degna». Si avvicinò al cavaliere e gli strinse una mano. «A onor del vero, non conosco persona più degna di voi. Siete un uomo d’onore, in grado di proteggere il segreto assai meglio di me. Pertanto insisto, dovete sapere, perché da ciò un giorno potrebbe dipendere la salvezza di Mont-Fleur». Attese che la riluttanza di Maynard si sciogliesse in un cenno di consenso, quindi precisò: «C’è dell’altro, però, che dovete sapere prima».
«Il vostro tono sa di minaccia, amico mio».
«Così dev’essere, infatti». Il giovane si prese una breve pausa per guardarsi intorno. Il suo atteggiamento tradiva d’un tratto apprensione per un’invisibile minaccia. E quando riprese a parlare, lo fece con circospezione: «Tornando da Mont-Fleur, mi sono imbattuto in una spia di Avignone. Un uomo di Bertrand du Pouget».
«Un uomo del cardinale?». Ancora una volta, il cavaliere si mostrò dubbioso. «Ne siete assolutamente certo?»
«Lo giuro su Dio, messere. Lo stemma sulla sua cintura era identico a quello dell’anello che mi consegnaste mesi fa. Recava il marchio del leone d’argento».
«Il leone di monsignor du Pouget…». Maynard torse le labbra. «Ammesso che non vi siate ingannato, perché mai un uomo del genere vi avrebbe seguito?»
«Semplice». Nella voce di Gualtiero vibrò una nota di tristezza. «Per il sangue che mi scorre nelle vene».
All’inizio Rocheblanche non afferrò il senso di quelle parole. Poi, dopo un istante di inquieto silenzio, abbozzò un’espressione basita. «Santi numi!», e batté un pugno sul palmo. «Il segreto di vostra madre!».
«Sì, il suo segreto», sospirò il giovane. «Mia madre era legata alla città dei papi e… a molte altre cose. Mi scuserete se non mi dilungherò nei dettagli, ma desidero prima capire, abituarmi all’idea… D’altro canto, reputo d’importanza vitale che siate informato sul mio scontro con quell’uomo». Accarezzò l’elsa della basilarda, un fremito sulla pelle. «Ho dovuto ucciderlo per non esser fatto prigioniero».
«Colgo in voi del rimorso», osservò Maynard. «Non dovrete serbarne, se vi siete battuto con coraggio».
Gualtiero sorrise con amarezza. Si era battuto, sì, al varco della foresta di Mont-Fleur, e nel corso di una breve contesa aveva mostrato all’emissario del cardinale quanto il figlio di Passerino de’ Bonacossi e di Elisa d’Este fosse diventato abile nell’infilzare un nemico. «Non è rimorso, il mio», confessò, «bensì timore che altre spie mi abbiano seguito fin qui».
Una fiamma scintillò nelle iridi del cavaliere. «Ecco, dunque, perché volete mettermi al corrente del Lapis exilii».
Il giovane annuì.
«Se così stanno le cose, non so darvi torto», concluse Maynard. «Parlate liberamente, e ditemi dell’enigma della pergamena».
Di fronte a un simile invito, Gualtiero acuì il suo sguardo. «La chiave si cela nel sesto versetto», rivelò con un sussurro. «Ne rammentate il contenuto?»
«Come se lo avessi ancora di fronte. Lo trovai su un manoscritto di padre Facio, nei sotterranei del Palazzo della Signoria. Recitava Xpi servata ab primis in quinque. Allora mi parve privo di senso eccetto che per il chrismon, il monogramma del nome di Cristo, e tuttavia intuii subito la sua importanza».
«Secondo gli insegnamenti di padre Manessier, il senso è affidato all’espressione ab primis in quinque. Si traduce “dai primi di cinque” o, ancor meglio, “dai primi nei cinque”».
«Così facendo la rendete ancor più oscura!», protestò Rocheblanche.
«Meditate, messere», lo spronò il giovane. «A cosa può riferirsi l’enigma se non a se stesso? Il numero cinque allude ai suoi cinque versi iniziali, e la parola primis riguarda le lettere con cui ciascuno di essi si apre».
Il cavaliere incrociò le braccia sul petto, gli occhi stretti in due fessure. «In sostanza», concluse, «indica di leggere in verticale l’inizio dei primi cinque versi, e per esteso il sesto».
«Sì. Come se si stesse seguendo le linee di una l».
«Ebbene, solo la prima lettera di ogni versetto…». Con uno sforzo mnemonico, Rocheblanche recitò mentalmente il testo dell’enigma che gli era stato consegnato due anni prima da Jang de Blannen, nel fango e nel sangue di Crécy.
Missam ut molam ab angelo in mare
est Lapis exilii situs in Monte floris
nostra salute clausus in uetusta crypta
sub caelo historiis mire depicto
a meridie Sancti Sauini in uilla Cerisii.
Quindi, l’ultimo verso tenuto nascosto da padre Facio di Malaspina:
Xpi servata ab primis in quinque
Rifletté ancora una volta sulla spiegazione di Gualtiero e, posseduto da una crescente impazienza, si servì di un ramoscello caduto a terra per tracciare il frutto del suo ragionamento sulla distesa di neve. «Dovrebbe essere così».
MENSA CHRISTI SERVATA AB PRIMIS IN QUINQUE
«Mensa», lesse Gualtiero, con l’espressione serafica di chi aveva visto oltre che compreso. «Mensa è la parola nascosta dalle prime lettere dei cinque versi. Avete afferrato il suo significato?».
Rocheblanche non riusciva a distogliere lo sguardo dalla frase tracciata sulla neve. «Oh, mio Dio… Dopo tanto cercare, viaggiare, riflettere…», mormorò, indeciso se esultare o adirarsi con se stesso per non essere stato in grado di risolvere da solo un indovinello tanto semplice. Con malcelata vergogna, si rivolse all’amico: «Come ci siete arrivato?»
«Grazie alle immagini», ripeté il giovane. «Quando varcai il portale di Mont-Fleur, notai tra le decorazioni della navata l’affresco di un angelo con una pietra molare tra le mani e intuii di trovarmi al cospetto di una rappresentazione in figura dell’enigma. Tuttavia, riuscii a comprendere a cosa alludesse soltanto nel momento in cui scorsi la scena biblica rappresentata di fronte».
Il cavaliere seguì il filo dell’intuizione, in preda a uno sconcertante presagio. Possibile?, lo pungolò la coscienza. Possibile che il mysterium di Mont-Fleur entrasse così a fondo nel dogma della salvezza? Dopo una vita spesa a cercare la volontà del Signore nelle chiese e nei campi di battaglia, dopo aver meditato sugli astri e sui sogni apocalittici dei tre cavalieri, non era più certo di saper riconoscere i segni divini tracciati nel mondo. Eppure quella parola – quell’unica parola! – pareva schiudersi al suo cospetto come una porta di mistica sapienza. «Mensa», sussurrò. «Mensa Christi…».
«Sì, vidi proprio quella nell’affresco». Gualtiero aprì le braccia, quasi volesse offrirgli lo spettacolo di un mistico scenario. «Vidi l’Ultima Cena, rappresentata secondo i canoni più classici dell’arte sacra se non per un dettaglio: la mensa a cui sedeva Gesù con i discepoli non era rettangolare o a mezzaluna, bensì rotonda».
Maynard rammentò vagamente d’aver notato quel particolare durante la sua visita a Mont-Fleur, ma all’epoca era gravato da troppi crucci per poterne cogliere l’importanza. E forse, meditò con maggior umiltà, non ci sarebbe riuscito nemmeno a mente sgombra. «Rotonda», disse con rapimento. «Come una pietra molare»
«O come una pietra atta a sigillare un sepolcro», chiosò il giovane, enigmatico.
«Eppure…». D’un tratto il cavaliere premette i polpastrelli sulle tempie, tentando di fare chiarezza. Le parole del Codex Millenarius, l’incombere dei tre cavalieri, i simboli in cui si era imbattuto dopo tanto cercare si sovrapponevano come tarocchi nella sua mente. «Non era questo il segreto affidato a Giuseppe di Arimatea… Non questo… Secondo il libro dell’ebreo Flegetanis…».
«Flegetanis», ripeté Gualtiero, distogliendolo da quel rovello interiore. «Alludete al Codex Millenarius?».
Maynard lo fissò basito. «L’abate Manessier vi ha parlato anche di quello?»
«Anche di quello, sì».
«E dunque com’è possibile? Secondo quel libro, il Lapis exilii dovrebbe essere il Vangelo di Cristo! Voi invece mi parlate della mensa dell’Ultima Cena… Grazie a quale prodigio due cose tanto diverse potrebbero coincidere?».
A quel punto il giovane si strinse nelle spalle, negandogli lo sguardo. «Vi renderò partecipe di quest’ultimo mistero soltanto in cambio della vostra benedizione».
«Riguardo cosa?», sbottò il francese.
«Isabeau».
«Non capisco…».
Il giovane addolcì l’espressione, ma esitò a spiegarsi. Di qualsiasi cosa si trattasse, era come se fosse combattuto tra il desiderio e il timore di rivelarla. Prese a contemplare l’abbazia, in cerca delle giuste parole, e lì rimasero i suoi occhi anche quando si decise a rompere il silenzio. «Voi, messere, siete il suo tutore, l’unica persona a cui Isabeau sia davvero legata, quindi è a voi che devo chiedere la sua mano». Scrutò infine il cavaliere. «Io l’amo, e voglio che esca dal convento… Voglio prenderla in sposa».
Per un attimo Rocheblanche ritrovò in quello sguardo ardito l’ingenuo sognatore conosciuto l’anno precedente, e si chiese se stesse per affidare Isabeau a una persona debole, incapace di difenderla. Subito dopo, tuttavia, colse nel volto di Gualtiero i segni di un coraggio che prima non c’era, insieme a un’accortezza illuminata da una determinazione inflessibile. Allora lo fissò com’era solito fare soltanto con i propri pari e con i nemici degni di stima, e con un sorriso franco ribatté: «Avete la mia benedizione, amico mio. Ve la do con gioia».
Il giovane si limitò ad annuire senza lasciar trapelare nulla dei propri sentimenti. Era una maschera quasi impenetrabile, il volto del viandante tornato da Mont-Fleur.
«Veniamo dunque al Lapis exilii», disse Gualtiero con tono serioso. «La sua natura riguarda sia la mensa che il vangelo. Me ne accorsi non appena scesi nella cripta e scorsi una maestosa tavola rotonda posizionata al centro».
Affascinato da quelle parole, Maynard si fece il segno della croce. «Descrivetela, ve ne prego».
«Era di pietra… la pietra che coprì il sepolcro di Cristo», rivelò il giovane, lasciandosi trasportare dal ricordo di quella mistica esperienza. Nel parlare fissava il vuoto, quasi che una parte di sé fosse rimasta là, nelle profondità di Mont-Fleur, e potesse ancora godere della vista della reliquia più preziosa del mondo. «Alla luce della fiaccola», proseguì, «osservai la sua ruvida superficie e vi scorsi centinaia, migliaia di parole. Era un labirinto di caratteri scolpiti a suon di scalpello, testimoni di una lingua ormai sconosciuta all’uomo. E l’abate… l’abate me ne spiegò il significato, affinché ne comprendessi l’inestimabile segreto». Sorrise tra sé, e Rocheblanche pensò che avrebbe dato ogni cosa pur di condividere la conoscenza dei suoi occhi, almeno per un istante.
«La mano che incise quelle parole nella pietra», concluse infine Gualtiero, «fu di Giuseppe d’Arimatea. Ma il verbo… l’alito di voce che le liberò nell’aria, quello fu del Maestro, nostro signore Gesù Cristo».
Dopo aver rivelato al cavaliere il grande segreto, Gualtiero si congedò da lui per varcare il portale dell’abbazia. Benché assai provato dal lungo viaggio, smaniava di rivederne gli antichi affreschi. Riabbracciare Isabeau aveva risvegliato d’un tratto le sue antiche ambizioni. E ora, con la mente ricolma delle meraviglie di Mont-Fleur, si sentiva pronto a realizzarle.
Oltrepassò il nartece e, nell’attesa che gli occhi si abituassero alla penombra, guardò intorno a sé per riprendere confidenza con un ambiente a lui tanto caro. Per poco non cadde sulle ginocchia.
Sbiancando per lo stupore, si appoggiò a una colonna e non appena gli fu possibile raggiunse con passo tremante la zona dell’abside, dove, su un ponteggio di cavalletti e assi di legno, si ergeva un uomo intento a dipingere l’arcata. Moro e asciutto, con una folta barba riccia, gli parve per un attimo Sigismondo.
Gualtiero si strofinò gli occhi umidi e ingoiò le lacrime nel tentativo di articolare una parola. Il vecchio affresco era per buona parte ricoperto da uno strato di intonaco fresco, ma ancora se ne poteva scorgere, ai margini, la superficie tempestata da fitte picchiettature.
Dall’alto del ponteggio, l’uomo notò la sua presenza. «Salute, pellegrino!», esclamò, indicando con un movimento del pennello l’opera a cui stava lavorando.
Ancora incredulo, il giovane osservò un imponente Cristo Pantocratore, così come un anno prima aveva immaginato di dipingere, circondato da uno stuolo di santi e beati. Fra di essi, alla destra del Salvatore, si ergeva una splendida Madonna angelicata, avvolta in una veste azzurra trapuntata di gigli dorati.
«Color est lux», recitò l’artigiano, fomentando la sua meraviglia. «Nulla ci porta più vicini a Dio».
Il giovane stentava ancora a credere che non si trattasse di Sigismondo. Persino la voce, colorita dal vernacolo di Romagna, ricordava quella del burbero mastro pittore. «Ma voi… Voi…», balbettò incuriosito.
«Il mio nome è Vitale da Bologna, per servirvi», rivelò quello con un largo sorriso. «E ora siate cortese, messere, passatemi quel vaso di colore ocra ai vostri piedi!».