18

Reims, convento di Sainte-Balsamie

15 luglio, notte

 

Suor Eudeline fissò dalla finestra il primo quarto di luna nuova, poi immerse le mani nel bacile e si sciacquò il viso. Nonostante le pressanti incombenze del giorno prima, faticava a prendere sonno. Come ogni notte, da quando un intruso era penetrato nella sua domus particularis. Non faceva in tempo ad assopirsi che si svegliava di soprassalto, il suono di passi nelle orecchie e la sensazione di mani su di lei.

Nell’acqua trovò un sollievo fugace, incapace di darle quiete. Del resto, aveva troppo sofferto per illudersi che gli effetti del male svanissero nella bruma di un incubo. Duravano ben oltre le circostanze e le persone che li avevano cagionati, marchiando a fuoco il cuore delle vittime. Prima suo padre Gaspar, e ora i nemici del suo amato fratello… Sei una sciocca, si disse. Barricarsi in un convento non era servito a nulla. L’ossessione della violenza continuava a braccarla, sempre e comunque, a dispetto delle mura che la isolavano dal mondo.

Quella notte, tuttavia, era il pensiero di Maynard a tenerla sveglia. Non avrebbe potuto essere altrimenti dopo la sua lettera giunta dall’Emilia. Il testo era breve, come di consueto, ma a differenza dei precedenti recava il luogo di provenienza: abbatia Pomposiæ. Eudeline aveva sentito voci su quel monastero. Sorgeva lungo il corso del fiume Padus, non lontano da Ferrara, ed era celebre per il fervore dei suoi monaci quanto per una leggenda di abati eremiti. Ma c’era da dubitare sul perdurare di tanta virtù. Chiese e monasteri declinavano nel tempo al pari degli uomini, sostituendo la corruzione al vigore. E se le parole di Maynard confermavano simili riflessioni, non spiegavano perché nascondersi proprio a Pomposa. Oltre a scrivere di essere in salute, chiedeva denari – seicento fiorini – per conquistare la fiducia di una persona utile alle sue indagini.

“Benedetto fratello”. La reverenda madre si sporse dalla finestra, osservando la luna con crescente malanimo. Era tipico di Maynard disporre del denaro come se non avesse valore. Seicento fiorini erano una somma considerevole, oltre che impegnativa da trasportare al di là della corona alpina. Specie in tempi di miseria. Inoltre, Eudeline esitava a volersene separare. Era stata la ricchezza, più del titolo nobiliare, a garantirle la nomina di badessa e a permetterle di ritirarsi dal mondo. Dilapidare il patrimonio di famiglia sarebbe equivalso a renderla una donna comune, soggetta a una vita precaria e alle regole degli uomini. Era la prima cosa di cui si era resa conto amministrando i beni ereditati dal padre: feudi, campi e bestiame rappresentavano la manifestazione tangibile della sua indipendenza.

Ecco perché la carestia degli ultimi tempi l’aveva tanto impaurita. Se il ridursi delle rendite non la esponeva all’immediato rischio di impoverirsi, il valore della terra decresceva progressivamente. L’unica sicurezza, a quel punto, era rappresentata dalle monete d’oro e d’argento contenute nello scrigno a cui soltanto lei poteva accedere. Ma cosa poteva saperne, di simili timori, un fratello avvezzo a guadagnarsi onore a suon di fendenti?

“Seicento fiorini!”, meditò la monaca, sempre più corrucciata. Era una cifra sufficiente a mantenere una famiglia agiata per un anno. Molto più del dovuto, a suo avviso, per comprare i servigi di un uomo, fosse stato anche un patrizio o un avido prelato. E se in seguito si fossero rese necessarie altre spese? I novemila fiorini celati nel suo scrigno non sarebbero durati in eterno!

Eppure era Maynard a chiederli. Gli spettavano di diritto.

Con un profondo sospiro, Eudeline rivolse uno sguardo al giaciglio sfatto. Cercare di prendere sonno era ormai improponibile. Tanto valeva affrontare l’altro assillo che la pungolava da giorni.

Aleydis, la prigioniera del convento. Prima o poi si sarebbe dovuta decidere a parlarle.

 

Uscì dal suo alloggio e attraversò il chiostro con una lanterna accesa, chiedendosi a ogni passo se stesse facendo la cosa giusta. La reclusa era tenuta sotto chiave in un ambiente ai margini dell’orto, lontana dalle consorelle. Da quando aveva dato l’ordine di imprigionarla, Eudeline non si era mai degnata di farle visita. Non per paura o per rabbia, ma perché confrontarsi con Aleydis significava per lei mettere in discussione se stessa. Aveva iniziato a comprenderlo quando ancora ignorava che quella ragazza avesse ucciso una monaca e stretto accordi con un uomo malvagio. E nonostante avesse smascherato i suoi crimini, la reverenda madre si era resa conto di non poter recidere il filo che le univa.

Si avvicinò alla prigione, un seminterrato anticamente adibito a ghiacciaia. Nel servirsene aveva dovuto fare di necessità virtù, dal momento che il convento era sprovvisto di ambienti adibiti a prigioni. Sempre meglio degli inospitali recessi della cripta, si era detta. Raggiunse l’ingresso, controllò dallo spioncino e, con un sospiro, fece scattare la serratura.

Aleydis sedeva sopra un giaciglio di paglia con la schiena appoggiata alla parete, vigile, quasi la stesse aspettando. Eudeline osservò al barlume della lanterna le sue mani, intrecciate sul ventre lievemente rigonfio. Ormai i segni della gravidanza erano manifesti.

«Vi trovo bene», la salutò.

«Florida come una badessa», motteggiò Aleydis, maligna.

«Quel tanto che basta a tenervi in salute». La reverenda madre avanzò verso di lei, scrutandola di sottecchi. «Se credete di meritare maggior clemenza soltanto perché siete incinta…».

«Reputo che la clemenza non vi si addica», ribatté la reclusa. «Avevate promesso di prendervi cura di me, di destinarmi a un luogo confortevole, e invece…».

«Preferivate le prigioni vescovili?». Con quel tagliente sottinteso, Eudeline posò la lanterna su uno sgabello e le si mise di fronte. «Non siate tanto lesta ad accusarmi, mia cara. Se c’è una serpe tra noi due, non sono certo io».

Aleydis distolse lo sguardo. «Sono stata costretta, credevo l’aveste compreso. Non è dipeso da me».

«Avete ucciso suor Claire», le rinfacciò la badessa. «Il cardinale vi ordinò anche questo?»

«Fu un incidente».

«Fu una conseguenza delle vostre scelte». Eudeline era in preda allo sdegno, ma come previsto non riusciva a mantenere il dovuto distacco. Colse la mortificazione sul volto della ragazza e si chiese se lei stessa, in circostanze estreme, avesse saputo agire in modo retto. Chinò il capo, dispiaciuta. «Se solo mi aveste raccontato la verità fin dall’inizio…».

La prigioniera le rivolse un sorrisetto sarcastico. «Mi avreste accolto come novizia?»

«Vi avrei protetto. Sì, è la verità. Avrei esercitato tutto il mio potere pur di tenervi lontano da quell’uomo orribile».

«Sua eccellenza, il cardinale Bertrand du Pouget». Bastò pronunciare quel nome per far vibrare l’oscurità della stanza. «Credete davvero, reverenda madre, di potergli tenere testa? Avete idea di chi state parlando?»

«Quanta baldanza, all’improvviso», la canzonò la badessa, lungi dal lasciarsi intimidire. «Del resto, vi comprendo. Stiamo pur sempre parlando del padre di vostro figlio».

La ragazza si ritrasse di scatto, rannicchiandosi contro il muro. «Mi prese con la forza, e non fu certo il primo!», sibilò a denti stretti, lasciando trapelare un disprezzo che nasceva dalle profondità della miseria in cui era nata. «Ma cosa volete saperne, voi, cresciuta tra i vezzi e le stoffe profumate?»

«Tacete, maledetta!». Eudeline la schiaffeggiò con una tale violenza da farla cadere di lato, folgorata dal ricordo del padre riverso su di lei con la bramosia di un animale. Poi arretrò con affanno, la mano destra ancora sollevata, fino a ritrovarsi con la schiena contro il battente. «Siete voi a non sapere…», balbettò. «Non sapete nulla… nulla di me…».

Aleydis si risollevò, osservandola stupita. «Perché siete venuta a farmi visita?», chiese con voce rotta.

La badessa afferrò la lanterna e iniziò ad armeggiare con la serratura. «Molto presto…», le sue mani tremavano. «Molto presto saprete!».

Uscita dalla prigione, rinserrò in fretta il battente, quasi in fuga, ritrovandosi ancora una volta nel buio.

Il buio che aveva dentro.

L'abbazia dei cento delitti
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