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Reims, convento di Sainte-Balsamie
12 ottobre
Appena fu messa al corrente dello stato di Aleydis, suor Eudeline abbandonò la funzione pomeridiana e si precipitò alla vecchia ghiacciaia. Scese nel seminterrato con passi frettolosi, seguendo l’eco di lamenti che provenivano dalla prigione della ragazza. La trovò raggomitolata sul giaciglio, in preda agli spasmi. L’infirmaria già china su di lei.
«Cosa succede?», chiese la badessa, trafelata.
La monaca mantenne lo sguardo su Aleydis, tastandole il ventre. «Sta avendo delle contrazioni».
«Come può? È solo al sesto mese».
«E perderà il bambino, se non interverremo».
Eudeline avanzò esitante, prestando attenzione agli oggetti disposti sul pavimento. Un catino, panni puliti, un mortaio e boccette dal contenuto ignoto. Pur sentendo la necessità di rendersi utile, fu come se la nebbia avesse offuscato il suo intendimento.
«Non restate impalata!», la scosse l’infirmaria. «Svelta! Correte all’herbaria e portatemi la mandragora».
La reverenda la scrutò sorpresa. «Proprio quella pianta?»
«Non posso allontanarmi da qui, dovrete farlo voi». Le sapienti mani della monaca continuavano a tastare il ventre di Aleydis. «Ma state attenta».
Suor Eudeline fu sul punto di ribattere. Non ammetteva di essere trattata con sufficienza nel suo convento. I lamenti della reclusa, però, fecero passare in secondo piano l’orgoglio. Tornò all’aperto, fece segno a un famiglio di seguirla e raggiunse il campo delle erbe officinali.
La mandragora si trovava al limitare, separata dalle altre colture, per evitare che qualcuno potesse raccoglierla per sbaglio. I suoi fiori violacei, sbocciati sotto la rugiada di ottobre, parvero rivolgerle un silenzioso saluto. La badessa si avvicinò con cautela, senza sfiorarla neppure con i piedi. A spaventarla non erano le sue proprietà venefiche, quanto le voci sulle pratiche magiche legate a essa. I filtri ricavati dal suo succo erano in grado di infondere la libido e la follia, e forse anche la capacità di levitare. Si chiese pertanto, nonostante la fiducia riposta nell’infirmaria, quale beneficio potesse offrire a una giovane in minaccia di aborto.
Il famiglio la mise in guardia: «Prima di raccogliere l’erba delle streghe, domina, sarebbe meglio tracciarvi tre cerchi intorno e tapparsi le orecchie…».
«Non abbiamo tempo», lo zittì Eudeline. «Limitatevi a legarla con un cappio e a sradicarla, senza entrarci a contatto».
L’uomo annuì, si fece il segno della croce, ma non accennò a muoversi.
«Fatevi da parte, vigliacco!», esclamò la badessa, spazientita. Gli strappò la corda di mano e la legò intorno all’arbusto, dando sfogo allo sdegno. Prima il tono autoritario dell’infirmaria e ora l’insubordinazione di un servo. Era davvero troppo! Tirò con foga, pensando alla povera Aleydis in preda al dolore. Almeno io saprò cosa significa essere madre. Tirò più forte. “Forse no, bambina mia”.
Appena vide la radice uscire dalla terra, arretrò d’istinto. Era scura e più piccola di quanto si aspettasse, di una somiglianza impressionante con un infante. Nella parte superiore presentava persino l’abbozzo di un naso e le cavità degli occhi. Nessuna esalazione mefitica, tuttavia. Né tantomeno urla laceranti o vagiti demoniaci.
Avvolse quindi la pianta in uno straccio e, tenendola fra le braccia, fece ritorno alla prigione.
L’infirmaria era ancora china sulla ragazza, in trepidante attesa. Eudeline le porse il fagotto con la mandragora e fissò l’espressione sconvolta di Aleydis. Non capiva. A dispetto della rabbia che ancora nutriva nei confronti di quella traditrice, non riusciva a trattenere la compassione. Si inginocchiò al suo capezzale e le accarezzò la fronte. «Come sta?»
«Le contrazioni dell’utero non cessano», spiegò l’infirmaria, esaminando il contenuto dell’involto. «Proveremo a lenirle con un decotto».
«Con un’erba velenosa?», obiettò la badessa.
«La mandragora è velenosa soltanto in dosi eccessive». Così dicendo, la monaca le porse dei guanti di tela. «Indossateli», ordinò, «e passatemi il coltello e il mortaio».
Suor Eudeline non avrebbe saputo dire se fu grazie al decotto di mandragora o alla clemenza di Dio, ma di fatto Aleydis fu liberata dagli spasmi. Il succo della pianta l’aveva sprofondata in un dormiveglia allucinato, quasi estatico. Nonostante le rassicurazioni dell’infirmaria, la badessa aveva finito per tenerle compagnia sino a tarda sera.
La verità era che si sentiva colpevole. Forse, se a suo tempo avesse rinchiuso la ragazza in un luogo più confortevole, non si sarebbe giunti a quell’evento. Eppure non era riuscita a evitarlo. Scoperti i misfatti di Aleydis, si era sentita in diritto di sfogare su di lei le paure e gli insuccessi accumulati negli ultimi mesi. Compreso l’amore impossibile per Vermandois e l’apprensione per il fratello. E l’aveva fatto quasi con godimento, senza riflettere sulle proprie azioni, fino a quel giorno.
“Che cosa sono diventata?”, si chiese.
Terse la fronte di Aleydis con una pezza bagnata e le sistemò i riccioli. Le era piaciuta fin dal primo momento. Graziosa e determinata, desiderosa di riscatto. L’aveva seguita da lontano nei progressi della vita conventuale, incoraggiandola in ogni occasione, a costo di lasciar trapelare la sua predilezione.
E poi, il tradimento. Non era stato quello, però, a ferirla. Era stata l’invidia. Pur compiendo un imperdonabile errore, una semplice novizia le aveva mostrato il coraggio di infrangere le regole e di mettersi in gioco più di quanto lei avrebbe mai osato fare. Quel pensiero l’aveva fatta rigirare tra le coltri per notti intere, fomentando il desiderio di fuggire con Robert, mandando al diavolo il peccato, il velo e le paure che l’avevano spinta a prendere i voti.
Non era però ad Aleydis che doveva imputare le colpe di un simile tormento. Con una ritrovata dolcezza, la reverenda posò lo sguardo sul suo ventre e pensò al bambino che dormiva dentro, di nuovo al sicuro.
Forse la ragazza si era sbagliata, pensò.
Anche lei, dopo tutto, avrebbe appreso il significato di essere madre.
La ragazza si svegliò di colpo, scrutandola sorpresa.
Suor Eudeline prese congedo da lei con un’ultima carezza. «Starà bene», disse, levandosi in piedi. «E ve lo lascerò tenere».
Padre Claret rimase acquattato dietro i tralci di una vite finché non scorse la badessa uscire dalla vecchia ghiacciaia. Ormai imbruniva e, benché avveduta, la donna si sarebbe accorta della sua presenza. Attese per maggior sicurezza che si fosse allontanata, poi si avviò allo scoperto verso lo stabile da cui se ne era appena andata.
Aveva approfittato del piccolo scompiglio di quel giorno per impossessarsi delle chiavi del seminterrato. Doveva riporle al più presto, tuttavia, se non voleva rischiare di fomentare dei sospetti. Fece scattare la serratura e scese al barlume di una lucerna, attento a non scivolare sui gradini smussati. Sarebbe stato imbarazzante se, in seguito a una caduta, fosse stato trovato morto o svenuto in quel luogo. Imbarazzante e pericoloso, per i giochi oscuri del cardinal du Pouget.
Usando sempre maggior cautela, aprì l’ultima porta e si trovò faccia a faccia con la prigioniera.
«Dunque siete voi», disse il procurator, «la prima emissaria di sua eminenza».
Richiuse il battente, dirigendo la fiammella verso l’espressione sconcertata di Aleydis. «Ora mi direte tutto ciò che sapete sulla badessa», aggiunse minaccioso. «Ogni cosa, e con dovizia di particolari. O, giuro su Dio, la vostra vita diverrà un inferno».