39

 

«Padova», disse Sara indicando piazza delle Erbe nel centro storico cittadino, «si apre improvvisa alla meraviglia.»

«Ha davvero ragione, Sara. E mi stupisce ancor più poter toccare con mano gli oggetti di tanti miei studi e ricerche. Quello è il Palazzo della Ragione, se non sbaglio.»

«Esatto. La sua costruzione risale all’inizio del tredicesimo secolo. Al suo interno si trova una delle aule sospese più grandi d’Europa: più di ottanta metri di lunghezza per quasi trenta di larghezza. Il tetto, costruito invece nel quattordicesimo secolo, è a forma di carena di nave rovesciata. Mi segua, saliamo.»

Giunti alla sommità dello scalone, Isam si fermò davanti alla porta orientale della sala.

«Qui Belzoni volle che fossero sistemate le statue che aveva donato alla sua città», disse lo studioso egiziano indicando i due lati dello stipite. Sul portale troneggiava un bassorilievo raffigurante l’esploratore patavino.

«Corretto, dottor Al Akim. Le due statue in diorite raffigurano la dea Sekhmet e sono alte più di due metri. Ai tempi di Belzoni ancora non si conosceva il culto della dea, figlia di Rha e incarnazione del bene e del male. Belzoni stesso riteneva che raffigurassero Iside. Furono spostate nel Museo degli Eremitani nel 1985. Possiamo fare un salto a vederle da vicino, prima di immergerci ancora una volta nella fitta corrispondenza di Belzoni.»

La sala egizia del museo conteneva altri pezzi pregiati, oltre alle due statue in diorite, in buona parte provenienti dal lascito disposto da Belzoni. I due studiosi si attardarono a visionare i reperti e, dato che la struttura museale era annessa al complesso della Cappella degli Scrovegni, non persero l’occasione di ammirare gli affreschi di Giotto.

Sara abbassò gli occhi dalla volta color cobalto. Si sentiva quasi stordita da tanta meravigliosa maestria, quando una coppia singolare, che stava uscendo dalla Cappella degli Scrovegni, attirò la sua attenzione. A prima vista potevano apparire come un uomo non più giovane, un nonno forse, che tiene per mano un ragazzino, seguiti da una giovane signora dal fisico atletico. Un bel quadretto familiare. Ma Sara sapeva che non era così.

 

La casa sicura che aveva consigliato il referente a Padova del Mossad, il potente servizio segreto israeliano comandato a lungo da Oswald Breil, si trovava a due passi dal Caffè Pedrocchi.

Autorizzato dallo stesso Breil, Bernstein aveva raccontato solo una parziale verità sulla sua singolare richiesta di trovare alloggio a Padova: una questione personale del dottor Breil e sua moglie, aveva risposto l’esperto tecnologico.

In quella maniera, se il Mossad avesse verificato – e un servizio segreto efficiente verifica sempre le notizie, tanto più quando riguardano personalità come Oswald Breil –, avrebbe appreso che Sara si trovava a Padova e che i due coniugi avevano sospeso la loro crociera.

Occupata la casa, un confortevole appartamento che si affacciava su via VIII febbraio, si poneva ora un problema più incalzante: il volto di Oswald Breil era tra i più noti al mondo. Non passava giorno che i rotocalchi internazionali non pubblicassero foto del personaggio che, in moltissime occasioni, aveva salvato l’intera umanità da catastrofi planetarie.

«Facciamo come al solito», aveva detto Oswald ai suoi. «Travestiamoci da famiglia in libera uscita. Lei farà il nonno, Bernstein, Toba la mamma e io il giovane figliolo portato a spasso.»

E così, anche nel giorno dedicato alla visita alle bellezze patavine, avevano assunto l’identità di una normale famiglia intenta a una gita di piacere.

«Ci hanno riconosciuto?» chiese Breil, non appena il terzetto fu fuori dalla Cappella degli Scrovegni.

«Sua moglie credo di sì. Non penso che Al Akim ci abbia notati.»

«Se Sara sa di poter contare su di noi sono più tranquillo», disse Oswald. «Adesso, però, diamo per terminata la ricreazione e iniziamo a lavorare. È riuscito a ottenere le informazioni che ci servono?»

«Certo, maggiore», rispose Bernstein. «Il Caffè Pedrocchi è dotato di un sistema d’allarme perimetrale assai elementare, con dei sensori a raggi infrarossi interni che però non vengono mai inseriti. Ci sono sei telecamere in tutto, ma sarà un gioco da ragazzi neutralizzarle quando necessario. Stessa cosa per le sale al piano superiore.»

«E lei come fa a saperlo, sergente Bernstein?» chiese Oswald.

«Semplice ’bava elettronica’, signore. Ogni sistema collegato o collegabile a un computer lascia dietro di sé tracce indelebili del suo utilizzo.»

Tra i due uomini e Toba c’era un salto generazionale. La giovane incursore li osservava con una punta d’ammirazione, mentre continuavano a parlarsi con il tono marziale e i titoli militari risalenti a diversi anni prima.

«Penso che usando le dovute cautele non dovremmo avere problemi a visitare il sito che ci interessa», concluse Bernstein.

 

La visita agli Scrovegni era appena terminata. Rivedere Breil aveva regalato sicurezza a Sara. Sapere che si stava prendendo cura di lei era una dolce garanzia.

Considerava però eccessiva l’attenzione di cui lei stessa era oggetto: Isam al Akim le pareva un ottimo archeologo e una persona bene educata. Si era accorta di non essergli indifferente per via di alcune frasi dette a metà e del lungo momento d’imbarazzo mentre recuperavano il tonno appena pescato. Ma si trattava solo di semplici sensazioni e in ogni caso, al termine della loro collaborazione, si sarebbero diradate anche eventuali idee che Isam poteva essersi messo in testa.

Forse, aveva pensato Sara, le parole allarmate di Oswald erano state dettate dalla gelosia. La gelosia, sorrise la donna, non è un sentimento contemplato nei cromosomi di persone come Oswald Breil. Tanto più che non ne aveva motivo: lei aveva tenuto un comportamento esemplare. Ma alla gelosia poco importa della realtà.

«Buongiorno, dottoressa», disse Al Akim raggiungendola nella sala adibita alla prima colazione dell’hotel Majestic Toscanelli. «Mi hanno confermato l’appuntamento con il responsabile del Caffè Pedrocchi tra circa un’ora. Appena finita la colazione ci mettiamo in marcia.»

I due piani del Caffè Pedrocchi erano, in pianta, a forma di triangolo, simbolo geometrico caro ai rituali massonici. Il loggiato e le terrazze sovrastanti conferivano alla facciata principale un profilo altero e imponente. Posizionato al centro della città, aveva l’aspetto di un monumento ricercato, eretto a celebrare la memoria del committente e l’abilità di chi ne aveva curato i lavori. Forse era proprio quello il vero scopo per cui era stato edificato: passare alla storia cittadina.

Il responsabile del Caffè Pedrocchi si mostrò disponibile: l’interesse di una personalità internazionale come Sara Terracini per il suo locale poteva tradursi in un efficace messaggio pubblicitario del tutto gratuito.

«Se volete seguirmi», disse il gestore Andrea Giromini, «vi farò fare un rapido giro per la struttura. Poi mi direte quali ambienti v’interessano maggiormente per i vostri studi su Belzoni.»

Naturalmente i due non avevano fatto cenno al motivo del loro interesse, liquidando la visita come propedeutica alla realizzazione dell’ennesimo volume sull’esploratore patavino.

Il Caffè Pedrocchi (pianta)

Il Caffè Pedrocchi (pianta)

Nel corso della visita, Giromini si soffermava su particolari della nascita del Pedrocchi che Sara e Isam già conoscevano, ma i due si guardarono bene dall’interrompere l’entusiasmo del loro ospite per non urtarlo.

Al piano terreno si trovavano le sale pubbliche come la caffetteria, la pasticceria, la sala ristorante e i laboratori. L’arredo era elegante, tipicamente ottocentesco. Le sale, chiamate con i nomi dei colori d’arredo dominanti, erano gremite di avventori.

La scala d’accesso al piano superiore era, pur nelle sue ridotte dimensioni, monumentale come quelle dei palazzi principeschi. Il loggiato era contornato da balaustre con motivi floreali in pietra e lo scalone terminava in un vestibolo dalla volta a cupola sul quale si aprivano i corridoi che conducevano alle sale più riservate.

La scala era formata da trentatré gradini, numero caro ai rituali massonici. Al termine erano collocate le due colonne del Tempio di Salomone, anche queste presenti in ogni luogo deputato all’Ordinanza. Salendo, a Sara parve di accedere al cuore di un sito sacro, di violare il sancta sanctorum di un culto antico forse migliaia di anni. Si riscosse, elettrizzata dalla sensazione di essere sempre più vicina alla soluzione.

Ma il suo ottimismo andò attenuandosi a mano a mano che si protraeva la visita. Se davvero Jappelli aveva nascosto i frammenti del pannello d’argilla nel suo capolavoro, non avrebbero saputo da dove incominciare. Da buoni archeologi quali erano sapevano bene che la vastità dello spazio fisico della ricerca può precludere anche il risultato più facilmente raggiungibile.

Nemmeno al primo piano del Caffè Pedrocchi, il loro accompagnatore lesinò le descrizioni e i riferimenti, indicando i personaggi celebri che si erano seduti via via nella sala Romana, in quella Barocca, in quella Ercolana.

Quando giunsero al vertice inferiore sinistro della pianta triangolare, Giromini fece una pausa per riprendere il fiato e disse: «Eccoci arrivati nella celebre sala Egizia. Questa sala fu costruita con marcati riferimenti al rito egizio della massoneria e, soprattutto, per celebrare la figura di un padovano illustre, fraterno amico di Jappelli: Giovanni Battista Belzoni».

Guardandosi attorno, Sara si ritrovò a pensare quanto riuscissero le immagini a modificare la realtà. La sala Egizia che aveva immaginato, studiandone ogni particolare attraverso le sue ricerche, era molto più grande di quella che aveva davanti. Anche gli oggetti d’arredo erano di misure inferiori a quelle che si era aspettata osservandoli in fotografia.

Sara si fermò vicino al portale in pietra grigia e avvicinò lo sguardo ai simboli scolpiti.

«Si tratta di una copia», si affrettò a dire Andrea Giromini. «L’architetto Jappelli si servì di ottimi artigiani per riprodurre antiche vestigia avendo a modello gli originali o, come in questo caso, una semplice descrizione e alcuni disegni nella Description de l’Égypte, monumentale opera redatta dagli studiosi al seguito dell’armata napoleonica. Il portale è una replica quasi fedele della porta Nord del tempio di Dendera.»

Sara osservò le scene d’offerta sui montanti e il sole alato al centro dell’architrave. Il battere delle nocche di Andrea sulla finta roccia fece tramontare il suo sogno: «Lo sente: suona a vuoto. Non si tratta di preziosi porfidi e graniti, ma di gesso sapientemente modellato e verniciato. Come finto porfido è quello delle nicchie con le sfingi dorate», aggiunse Andrea indicando i lati della stanza. «In gesso sono anche costruite le due statue raffiguranti la dea Sekhmet che vedete agli angoli. Sono simili a quelle originali, donate da Belzoni alla città.»

 

Le belle giornate della fine di marzo avevano trasmesso un allegro brivido primaverile alla città. Al calar della sera una brezza sostenuta e fresca s’infilava tra le case e nelle piazze, sin sotto ai portici cittadini. Fatta eccezione per poche osterie affollate di giovani, i padovani facevano rientro presto nelle loro case.

L’appartamento abitato da Breil e dai suoi era confortevole e dotato di un arredo essenziale e moderno.

La riunione operativa fra i tre israeliani era iniziata da pochi minuti. Non avevano molto da dirsi: solo concordare una minima strategia per consentire loro di accedere al Caffè Pedrocchi con un buon margine di sicurezza e riuscire a verificare le intuizioni di Oswald Breil.

«Non credo», disse Oswald, «che l’architetto Jappelli, dovendo nascondere del materiale prezioso, lo abbia celato tra i laboratori di pasticceria o nelle sale destinate ad accogliere gli avventori. La logica direbbe che un buon nascondiglio debba trovarsi negli ambienti più esclusivi del locale e quindi al piano superiore. E se io dovessi preservare dei reperti egizi dalla curiosità di gente pericolosa, li nasconderei proprio nella ’sala Egizia’, quella dedicata al proprietario dei reperti. Quindi, penso che inizieremo da lì la nostra ricerca. Ha detto che deve spiegarci qualche cosa, sergente?»

«Sì, grazie.» Bernstein posò sul tavolo una borsa in materiale plastico antiurto. Da questa estrasse una sorta di complicato binocolo dotato di una cerchiatura regolabile per essere indossato stabilmente sul volto. «Si tratta di un sistema di visore notturno di ultima generazione. Dato che opereremo nottetempo, entrando nel Caffè illegalmente, ho pensato non fosse il caso di richiamare l’attenzione di guardiani o passanti accendendo luci o dirigendo il fascio delle torce. Questi visori sono dotati di una doppia tecnologia – termica e a raggi infrarossi –, per consentire a chi li indossa di vedere al buio. In questo modo potremo muoverci con sufficiente dimestichezza anche nell’oscurità assoluta. Senza contare che un microcircuito interno riprenderà le immagini e ci consentirà di riesaminare i particolari che potrebbero esserci sfuggiti a prima vista.»

 

Sara inserì la chiavetta nella presa laterale del suo portatile. Il baluginare del led azzurro della memoria esterna le confermò che le immagini stavano per essere trasferite sul computer. Di lì a poco, incominciarono a scorrere sul video.

In quello stesso istante una voce risuonò alle sue spalle.

«E queste da dove saltano fuori?» chiese Isam indicando lo schermo.

«Da una microcamera miniaturizzata nascosta nel bottone del mio giubbotto. Una delle diavolerie tanto care a Oswald. Ho filmato per intero la nostra visita al Pedrocchi, soffermandomi sui dettagli che consideravo più interessanti. Riguardando il nostro percorso, mi rendo conto di essere lontana da una soluzione. Non saprei proprio dove cercare.»

«La sala Egizia è certamente quella più enigmatica e ricca di richiami esoterici. Forse proprio lì si cela l’indicazione per giungere al nascondiglio dei frammenti», disse Isam.

«Sempre ammesso che esistano ancora i frammenti e che qualcuno – Giuseppe Jappelli nella fattispecie – li abbia nascosti al Pedrocchi», obiettò Sara.

«Non si perda d’animo, dottoressa Terracini. La chiave del nostro enigma non può essere stata svelata: la scoperta del sepolcro di Cleopatra e Antonio avrebbe generato scalpore anche nell’antichità. Figuriamoci in tempi moderni. Diamoci da fare.»

 

Le cene a bordo del Pharaon King erano sempre state formali ed eleganti. A tavola, nonostante l’appartenenza alla religione musulmana dei proprietari, venivano serviti vini di pregio e i cibi che la cucina di bordo preparava erano di altissima qualità. Sara si era trovata a rimpiangere sin da subito le serate familiari del Williamsburg: un colpo di spazzola, jeans e maglietta e una cena frugale per poi sistemarsi in salotto, accoccolata accanto a Oswald a discutere di qualunque argomento.

Sara sedette nel ristorante poco distante dalla piazza delle Erbe, dove la segretaria di Isam aveva prenotato un salottino riservato per loro. L’ambiente del Dante – questo il nome del locale – era informale ma elegante. Isam indossava un paio di pantaloni sportivi, una camicia e un maglione a girocollo di cachemire.

Avevano riso sulla rigorosa etichetta delle cene sullo yacht.

«Mio padre», le aveva detto l’archeologo egiziano, «ama, quando è a bordo, cenare in maniera formale ogni sera. Noi cerchiamo di non deludere questo suo desiderio.» Munahid al Akim, in effetti, non era una presenza fissa. Ma l’etichetta, con o senza di lui, veniva rispettata. Data la fretta con cui aveva lasciato il Williamsburg, Sara aveva condotto con sé solo pochi abiti sportivi e così, sin dalla prima sera, l’armatore aveva provveduto a rifornire l’armadio della sua cabina con un assortimento di capi di pregiata fattura. Sara li aveva accettati in «comodato» sino a che si fosse trovata a bordo.

Per la cena aveva indossato un tailleur sportivo che metteva in risalto i suoi colori mediterranei e le sue curve morbide.

Isam la osservò con aria estasiata, prendendo posto non appena lei si sedette.

La conversazione fu piacevole, fino a che improvvisamente Isam si rabbuiò.

«Oggi, quando ha nominato Breil, ho notato un po’ di nostalgia nel suo sguardo.» Isam aveva pronunciato il nome con un tono dispregiativo che infastidì Sara.

«Credo sia normale: mio marito mi manca. Tanto più che, per una serie di circostanze, ci siamo sentiti molto poco da quando ho lasciato la nave.»

«Per quanto tempo ancora, Sara?»

«In che senso, professore?»

Lo sguardo di Al Akim era duro, penetrante, volitivo. «Per quanto ancora le mancherà Oswald Breil? Io posso darle tutto quello che la maggior parte delle donne desidererebbe.»

«Mi sembra che io ne stia già approfittando abbondantemente», rispose Sara fingendo di non aver capito il senso di quella frase.

«La smetta di giocare al gatto col topo. Sa bene quanto io sia attratto da lei.» Isam si alzò e avanzò nella sua direzione.

«Non parliamone neppure, Isam. Io sono una compagna di lavoro e nulla più.»

Isam le prese la mano con una stretta ferrea.

«Rimanga con me, Sara. Avrà una vita felice.»

«Se sta dicendo seriamente, con altrettanta serietà le risponderò. Non è l’agiatezza a mancarmi, credo ci siano altre cose oltre alla ricchezza e al lusso per le quali vale la pena di vivere. L’amore è una di queste. E io sono innamorata di mio marito Oswald Breil», rispose Sara, ritirando la mano.

«Innamorata di quel... quel nano?» disse al Akim, negli occhi quella stessa espressione pericolosa che Sara aveva notato mentre si accaniva sul pesce che avevano catturato.

Sara si alzò, ripiegò con calma il tovagliolo sul tavolo e tornò a piedi in albergo.

 

Oswald e i suoi sgattaiolarono fuori dal portone e si avviarono sotto i portici di via VIII febbraio verso piazza Cavour. Indossavano abiti comodi e di colore scuro. L’ingresso posteriore del Caffè Pedrocchi era a pochi passi da loro ma, per raggiungere lo scalone che portava al piano superiore, dovevano aggirare l’intero edificio.

Sempre camminando protetti dai portici si avvicinarono all’entrata che conduceva alla scala posta tra i due loggiati. Bernstein arrivò per primo al portoncino, estrasse un grimaldello da una delle tasche esterne del giubbotto e armeggiò per qualche minuto con la serratura, avendone alla fine ragione. Quando la porta cedette, Oswald e Toba raggiunsero il compagno e sgattaiolarono all’interno dell’edificio.

Appena richiuso il battente alle loro spalle indossarono i visori e salirono al primo piano, avvolti dall’oscurità e dal silenzio più assoluto.

L'ombra di Iside
9788830456563-cov01.xhtml
9788830456563-presentazione.xhtml
9788830456563-tp01.xhtml
9788830456563-cop01.xhtml
9788830456563-occhiello-libro.xhtml
9788830456563-ded01.xhtml
9788830456563-fm_1.xhtml
9788830456563-fm_2.xhtml
9788830456563-p-1-c-1.xhtml
9788830456563-p-1-c-2.xhtml
9788830456563-p-1-c-3.xhtml
9788830456563-p-1-c-4.xhtml
9788830456563-p-1-c-5.xhtml
9788830456563-p-1-c-6.xhtml
9788830456563-p-1-c-7.xhtml
9788830456563-p-1-c-8.xhtml
9788830456563-p-1-c-9.xhtml
9788830456563-p-1-c-10.xhtml
9788830456563-p-1-c-11.xhtml
9788830456563-p-1-c-12.xhtml
9788830456563-p-1-c-13.xhtml
9788830456563-p-2-c-14.xhtml
9788830456563-p-2-c-15.xhtml
9788830456563-p-2-c-16.xhtml
9788830456563-p-2-c-17.xhtml
9788830456563-p-2-c-18.xhtml
9788830456563-p-2-c-19.xhtml
9788830456563-p-2-c-20.xhtml
9788830456563-p-2-c-21.xhtml
9788830456563-p-3-c-22.xhtml
9788830456563-p-3-c-23.xhtml
9788830456563-p-3-c-24.xhtml
9788830456563-p-3-c-25.xhtml
9788830456563-p-3-c-26.xhtml
9788830456563-p-3-c-27.xhtml
9788830456563-p-3-c-28.xhtml
9788830456563-p-4-c-29.xhtml
9788830456563-p-4-c-30.xhtml
9788830456563-p-4-c-31.xhtml
9788830456563-p-4-c-32.xhtml
9788830456563-p-4-c-33.xhtml
9788830456563-p-4-c-34.xhtml
9788830456563-p-4-c-35.xhtml
9788830456563-p-5-c-36.xhtml
9788830456563-p-5-c-37.xhtml
9788830456563-p-5-c-38.xhtml
9788830456563-p-5-c-39.xhtml
9788830456563-p-5-c-40.xhtml
9788830456563-p-5-c-41.xhtml
9788830456563-p-5-c-42.xhtml
9788830456563-p-6-c-43.xhtml
9788830456563-p-6-c-44.xhtml
9788830456563-p-6-c-45.xhtml
9788830456563-p-6-c-46.xhtml
9788830456563-p-6-c-47.xhtml
9788830456563-p-6-c-48.xhtml
9788830456563-p-6-c-49.xhtml
9788830456563-p-6-c-50.xhtml
9788830456563-p-7-c-51.xhtml
9788830456563-p-7-c-52.xhtml
9788830456563-p-7-c-53.xhtml
9788830456563-p-7-c-54.xhtml
9788830456563-ind01.xhtml
Il_libraio.xhtml