16
Egitto. Anno 706 a.U.c. (settembre 48 a.C.)
L’inseguimento tra i due rivali sembrava senza fine. Cesare e Pompeo, già triumviri di Roma e amici, avevano interrotto ogni rapporto quando Giulia, figlia di Cesare e moglie di Pompeo, era morta di parto e il padre aveva imputato al genero la causa del decesso: Pompeo era giunto a casa ferito dopo un attentato e lo spavento aveva innescato un parto prematuro. In realtà i due condottieri mal si sopportavano sin dai tempi della comune esperienza politica e i nodi, nelle alterne vicende dei potenti, sono destinati a venire al pettine, prima o poi.
Il fuggitivo Pompeo aveva trovato asilo presso l’esiliata Cleopatra. Entrambi vaneggiavano di eserciti invincibili, pronti a marciare contro il nemico. Dei due, solo la regina egizia era riuscita e infoltire le sue file con turbe di schiavi acquistati nelle piazze arabe. Pompeo, invece, era convinto che fosse sufficiente un piccolo aiuto per farlo primeggiare sulle agguerrite legioni di Cesare. Proprio per questo aveva insistito presso Tolomeo XIII per ottenere i rinforzi che gli erano stati promessi.
L’emissario di Pompeo era appena uscito dal salone della reggia. Tolomeo XIII, quattordici anni appena, aveva assunto un’aria preoccupata e si era rivolto ai consiglieri nei quali riponeva assoluta fiducia.
«Avete ascoltato anche voi», aveva detto il re. «Pompeo minaccia ritorsioni se i nostri uomini non verranno aggregati al suo esercito. Tra qualche giorno arriverà in città e pretenderà una risposta.»
«Giusto il tuo timore, figlio degli dei. Come giusta è la tua incertezza sulla corretta strada da intraprendere.» Achilias, capo della milizia reale, nascondeva la sua perfidia dietro ai toni adulatori.
«È anche vero che, qualora concedessimo al romano le truppe che pretende, l’ira di Cesare, anch’egli romano, si scatenerebbe contro l’Egitto. Siamo stretti in una morsa dalla quale non è facile liberarsi», disse il consigliere Teodoto di Chio.
La voce squillante di Potino echeggiò nelle alte volte della sala: «Non parteggiare per nessuno significherà avere entrambi come nemici. Dobbiamo scegliere».
Il re continuava a far rimbalzare lo sguardo tra i suoi consiglieri. Aveva un’espressione falsamente aggrottata. Quella di un bambino che gioca a fare l’adulto.
«Ascoltatemi, forse ho un piano...» disse Achilias con aria cospiratoria.
L’imbarcazione con cui Pompeo navigava in direzione di Alessandria era agile e veloce. Per ovvie ragioni di opportunità, il romano aveva evitato di presentarsi nella capitale egizia al comando di una nave da guerra o, peggio, della sua minacciosa flotta. Davanti alla moglie Cornelia e a uno dei suoi figli stava provando l’orazione che avrebbe declamato in lingua greca dinanzi al popolo egizio.
Il condottiero s’interruppe proprio mentre un peschereccio affiancava la sua nave.
Lucio Settimio aveva un aspetto che lo rendeva indimenticabile: era di statura gigantesca e orbo da un occhio. Prima di trasferirsi in Egitto aveva rivestito il ruolo di tribuno militare agli ordini dello stesso Pompeo.
Le due imbarcazioni si affiancarono e Lucio trasbordò su quella del suo ex comandante. Mentre si avvicinava a Pompeo aveva un sorriso dipinto sul volto e le braccia aperte, come se volesse abbracciarlo.
Non riuscì a celare l’emozione mentre mormorava: «Imperatore, mio imperatore», rivolto a Pompeo.
Rapido come un serpente, Lucio Settimio aveva però, nei gesti dell’abbraccio, estratto uno spadino e l’aveva conficcato nella schiena del proconsole. Pompeo cadde a terra ferito a morte, incolpò l’innocente Cesare per quell’attentato e spirò quasi subito tra le braccia della moglie.
A quel punto dalla stiva del peschereccio sbucarono i soldati egizi che presero possesso della nave romana.
Il corpo di Pompeo fu orrendamente mutilato e, privo della testa, fu abbandonato nudo su una spiaggia.
Era il 28 settembre del 48 a.C. In quella data aveva termine la guerra fratricida che aveva contrapposto non solo due validi generali romani, ma anche amici e parenti che si erano visti schierati gli uni contro gli altri nelle milizie delle opposte fazioni.
Non era invece finita quell’instabilità fatta di piccole arguzie, grandi disegni, tranelli e tradimenti che contraddistingueva la politica.
Di queste, come di altre arti, Cleopatra era diventata una vera e propria maestra. Salire sul carro di Cesare era la mossa giusta da fare se voleva ritornare sul trono dell’Egitto. La regina era convinta che sarebbe riuscita ad ammaliare anche il valoroso Gaio Giulio Cesare, se solo avesse avuto la possibilità di avvicinarlo, manifestargli le sue ragioni e conquistarlo con il suo fascino. La difficoltà risiedeva nelle mosse del romano: Cesare stava marciando alla volta di Alessandria, in mano all’odiato fratellastro Tolomeo, per risiedervi assieme al suo esercito prima di sferrare l’attacco finale.
Giulio Cesare si avvicinava guardingo a bordo di una nave al porto d’Alessandria. Dietro di lui, lungo le vie d’acqua o di terra, avanzavano quattromila legionari e ottocento cavalieri. Erano trascorsi solo quattro giorni dall’assassinio di Pompeo, perciò ancora non era a conoscenza della misera fine del rivale.
La nave militare egizia che si fece incontro ai romani aveva il ponte cosparso di fiori per festeggiare l’arrivo dell’invincibile condottiero.
«Mi chiamo Teodoto di Chio, consigliere del re Tolomeo. Chiedo il permesso di salire a bordo, generale.»
Una volta sul ponte della nave romana, Teodoto posò dinanzi a Cesare una cesta con gesti rituali e, come si trattasse del regalo più prezioso, lo invitò a scoprire la sorpresa che vi era racchiusa. «Questo è il prezzo per la tua amicizia, conquistatore del mondo», disse l’egizio.
Cesare non si fece pregare e intuì il contenuto appena estrasse una toga macchiata di sangue rappreso. Con un gesto repentino il generale scagliò lontano l’involto e il capo reciso di Pompeo rotolò sul ponte.
La reazione del condottiero fu immediata. Il suo sguardo si fece di fuoco e vibrò parole violente alla volta di Teodoto: «Ciò mi offende più dell’odio di Pompeo!» Poi strinse l’anello con il sigillo dell’avversario, un leone armato di una spada, e disse: «Era mio intendimento vincere per godere della soddisfazione di graziare il mio nemico. Se fossi stato io a soccombere, oggi a rotolare sul ponte ci sarebbe la mia testa!»
Cesare sembrava davvero furioso e disperato. Arrivò sino a versare alcune lacrime quando ricordò i momenti felici trascorsi con l’ex genero.
Si ricompose e, dato che la strada era sgombra, ordinò ai suoi di entrare in città.
«Alcuni carovanieri provenienti da Alessandria mi hanno riferito, mia regina, che il grande Cesare è scoppiato in lacrime dinanzi alla testa mozzata del suo nemico», disse Teie. «C’è anche chi sostiene, però, che il condottiero abbia inscenato il suo dolore e che in realtà gioisse perché tuo fratello Tolomeo gli ha facilitato il compito.»
«Credo sia tempo d’incontrare il generale romano», disse Cleopatra risoluta.
«Non è possibile: Cesare è ospite del palazzo. Qualsiasi tentativo di incontrarlo si tradurrebbe in una tua condanna a morte: dovresti superare sbarramenti di guardie armate e ti muoveresti nel territorio di chi ha sentenziato la tua fine. Forse sarebbe meglio desistere. A meno che tu non disponga del dono dell’invisibilità, mia regina», disse ancora la Cinnane.
Cleopatra aggrottò la fronte, ma non pareva preoccupata: «Lasciami pensare. Conosco bene il palazzo e, aguzzando l’ingegno, troverò un modo».
Le due file di lictores procedevano allineate. Sorreggevano aquile, fasci, stendardi. Tutto per far capire agli alessandrini dove risiedessero il potere e l’autorità cui dovevano assoggettarsi. E ogni cosa, in quel secondo giorno d’ottobre del 706 a.U.c., lasciava presagire che tutto sarebbe cambiato e che l’Egitto sarebbe stato privato della sua semilibertà.
Gaio Giulio Cesare avanzava, con la toga orlata di preziosa porpora, alla testa del suo esercito. Alessandria l’accoglieva ancora imbrattata dalla sabbia trasportata da una violenta quanto improvvisa tempesta che aveva imperversato per giorni, prima del trionfale ingresso del dittatore.
Ma il sogno di Giulio di indossare i panni di Alessandro Magno e celebrare il proprio trionfo su quella civiltà millenaria s’infranse contro il malcontento della popolazione locale. I primi tafferugli scoppiarono mentre ancora era in corso il corteo.
Cesare, uomo di guerra, riconobbe il pericolo e rafforzò i ranghi e le difese cittadine preparandosi a fronteggiare un’eventuale rivolta.
In breve la lussuriosa Alessandria si trasformò in una città sotto il dominio militare: legionari romani schierati a ogni angolo, opere di difesa in allestimento. Persino il faro, meraviglia dei tempi, fu occupato militarmente dallo straniero, mentre i tumulti attraversavano la città.
«Spero che tu abbia abbandonato la malsana intenzione di recarti a palazzo, mia regina», disse Teie. «Con quello che succede ad Alessandria, il sito del tuo esilio sembra il luogo più sicuro dove risiedere.»
«La vita da fuggitiva non fa per me», rispose la regina. «La mia città mi manca. Mi manca la sua capacità di accogliere le genti e le loro diverse culture. Mi manca la possibilità di consultare uno scritto, documentarmi, conoscere.»
«Ti manca forse anche un compagno, mia regina?»
«Non ho bisogno di un uomo, Teie. Ne trovo quanti ne voglio allo schioccare delle mie dita. Ho necessità di un purosangue da piegare alle mie esigenze. Non è facile, però. Ma torniamo alla città. Che cosa sai tu degli avvenimenti più recenti?»
«Pare che il perfido Achilias stia compiendo azioni incessanti tese a fiaccare la sicurezza di Cesare con imboscate e attacchi a sorpresa. Sembra anche, però, che le perdite nelle file romane siano esigue, rispetto a quelle egizie. Nel contempo tuo fratello continua a fingersi un ospite premuroso nei confronti dello straniero che i suoi stessi consiglieri combattono.»
In quell’istante, fuori dalla tenda dove alloggiava la regina, si percepì del trambusto. Poco più tardi il messaggero era dinanzi alle due donne.
«Achilias ha tentato una sortita, mia regina», disse la staffetta. «I romani avevano posto sotto sequestro le navi egizie e le tenevano alla fonda in porto. Achilias ha cercato di salire a bordo e d’impossessarsene. La battaglia, violentissima, era ancora in corso quando ho lasciato Alessandria. Achilias stava comunque avendo la peggio. Tra gli alessandrini regna il malcontento: la reggenza di Tolomeo ha portato solo guerra e stenti. In molti si sono messi a invocare l’ascesa al trono della tua giovanissima sorella Arsinoe, mia regina.»
«Arsinoe? Ma se è solo una bambina», esclamò Cleopatra.
«Il popolo è davvero stanco di lotte fratricide e di conquistatori sanguinari. Reclama pace anche a costo di doversi impegnare in una sanguinosa guerra per ottenerla.»
Giulio Cesare osservava il terreno di scontro dal patio del suo appartamento a palazzo, che si affacciava sull’acqua.
La baia di Alessandria era divisa in due dal molo che collegava la città all’isola di Pharos. Sulla sinistra si trovava il porto mercantile, sulla destra quello militare. Quest’ultimo, a forma di C, recava alla sua estremità superiore il famoso faro, in grado di indicare giorno e notte la rotta ai naviganti. Qui erano state ormeggiate le navi della flotta egizia: a causa dell’instabilità, Cesare aveva pensato di ridurre la minaccia di vedersi attaccato anche dal mare, mettendo sotto sequestro il naviglio.
Non appena capite le intenzioni di Achilias, il condottiero romano aveva comandato alle sue navi di colpire quelle nemiche ormeggiate con una pioggia di fuoco greco. Il pericoloso materiale incendiario a base di pece aveva trovato un’ottima esca nei legni stagionati e l’incendio era scoppiato in maniera violenta e inarrestabile. Rose dalle fiamme, alcune navi si erano disormeggiate e ora vagavano come torce all’interno dello specchio acqueo del porto e la corrente le spingeva pericolosamente verso riva.
«Guarda quella, Cesare», disse uno dei generali al suo comandante. «Sta andando contro la banchina degli arsenali.»
Il fuoco divampato sulla nave in fiamme giunse così alla terraferma e si propagò, complice un forte vento dal mare, per buona parte della città. Arsero i magazzini del grano, le case sul porto, i mercati. Soprattutto prese fuoco la biblioteca d’Alessandria, il luogo ove era custodito il sapere dell’umanità.
Nel frattempo la guerriglia dilagava per le vie cittadine e turbe di soldati delle opposte fazioni si fronteggiavano, alzavano barricate e fortificazioni, correvano armi in pugno verso i focolai di una battaglia che avrebbe insanguinato le strade della splendida città egizia per cinque mesi.
Cleopatra aveva indossato gli abiti lisi di una contadina, un cappuccio logoro le copriva il capo e parte del volto, anche perché non aveva voluto disfare la complicata e regale acconciatura che era solita portare. Quella pettinatura, che aveva preso piede non solo tra le alessandrine, l’avrebbe resa riconoscibile a chiunque in caso di incontri non desiderati. La regina aveva deciso, infatti, di recarsi a controllare lo stato della sua città dopo mesi di disordini. Per farlo avrebbe marciato, in compagnia dell’inseparabile Teie, a dorso d’asino sino a un’altura alle spalle di Alessandria e posta tra il porto fluviale sul lago Mareotide e il canale orientale.
Così le due finte contadine partirono subito dopo l’alba, quando ancora l’aria era fresca.
«Guarda, Teie», disse la regina indicando la città sotto di loro. «Sembra che un gigantesco mostro marino abbia aperto le sue fauci e divorato mezza città.»
Vista dall’alto, infatti, dalla sponda che affacciava sul porto militare sino all’edificio della biblioteca la città era segnata da un profondo semicerchio di costruzioni carbonizzate e totalmente devastate. Il confine tra distruzione e edifici integri era marcato.
«Devo per forza incontrare Cesare, prima che l’intero Egitto sia ridotto in cenere», disse la regina.
«Voi due, che ci fate lì?» Gravato dalla sua ragguardevole mole, il militare romano avanzava a fatica nella sabbia.
«Nulla, signore. Ci siamo fermate per guardare la città dall’alto», rispose pronta Cleopatra.
«Chi siete e dove siete dirette?» chiese ancora il soldato sospettoso.
«Siamo due contadine e ritorniamo al nostro villaggio nel delta del Nilo.»
«Come si chiama il villaggio?» incalzò il romano.
«Busies», rispose la regina di getto.
«Vicino al campo dove si trova esiliata la regina... scopritevi il capo, fatemi vedere il vostro volto.»
Il soldato le osservò. La pelle liscia e luminosa come quella di due nobildonne, i capelli acconciati dal sapiente lavoro delle ancelle. Chiese a Cleopatra di mostrare le mani e palpeggiò con le sue dita adunche la pelle vellutata del palmo della regina.
«Non mi sembrate proprio due contadine. Seguitemi al distaccamento. Penso che i miei ufficiali vorranno farvi qualche domanda.»
Ancora una volta Teie fu provvidenziale per scongiurare l’identificazione. Da sotto le vesti estrasse la spada e si lanciò contro il soldato. Il veterano sorrise: al seguito delle gloriose legioni di Cesare aveva fronteggiato orde di barbari. Atterrare una donna, seppure armata, sarebbe stato un gioco da ragazzi.
Invece non fu così. Quando il romano provò ad afferrare le braccia di Teie per disarmarla, rimediò soltanto una profonda ferita alla mano sinistra. Estrasse dunque il gladio e assunse la posizione di guardia. Furono sufficienti un paio di scambi per capire che la donna sapeva il fatto suo e conosceva l’arte del combattimento.
Il primo a menare l’affondo fu il legionario. Teie si scansò, colpendo nel contempo l’avversario al ventre con un calcio. Il militare si piegò in avanti e la guerriera gli fu alle spalle. La sua spada calò inesorabile sulla schiena dell’uomo. Il soldato cadde a terra, un fiotto di sangue proruppe dalle sue labbra.
«Andiamo, mia regina», disse Teie. «Abbiamo commesso un’imprudenza ad abbandonare l’accampamento.»
«Hai ragione, ma sono sempre più convinta di dover incontrare il conquistatore», rispose Cleopatra.
Il mattino seguente la dea Iside parve dare ascolto ai suoi desideri: un messaggero romano raggiunse in pace il campo. Era latore di un messaggio da parte di Cesare. Le parole scritte in greco sul papiro arrotolato avevano un tono perentorio, anche se la forma era quella di un invito di cortesia. Il romano conquistatore invitava i legittimi reggenti del regno d’Egitto, Cleopatra e suo fratello Tolomeo XIII, a un incontro «amichevole», nel corso del quale avrebbero potuto discutere, tra le altre cose, anche del risanamento della pesante esposizione debitoria del regno nei confronti di Roma.
«Vedi», disse Cleopatra mostrando lo scritto a Teie. «Ora più che mai non posso astenermi dall’andare. L’Egitto deve una fortuna ai romani e nessuno ha mai reclamato quei debiti in funzione dell’amicizia che legava mio padre a Pompeo. Adesso tutto è diverso e, se Cesare non cambia idea, il nostro Paese patirà la bancarotta e i miei sudditi la fame.»
«Se andrai, tuo fratello troverà un modo per farti fuori», l’avvertì Teie, lapidaria.
«Sarò invece io a trovare un modo per ingannare quell’allocco di Tolomeo», esclamò Cleopatra. La sua bocca carnosa e vermiglia si aprì in un sorriso e i suoi occhi verdi brillarono di una strana luce.