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La fortuna sembrò invece arridere alla spedizione: erano appena sbarcati che un peschereccio, diretto in Africa orientale, si offrì di trasportarli.
La fortezza di Mazagan, a sud di Casablanca, lungo la costa atlantica del Marocco, sorgeva dal mare come un baluardo inespugnabile. Poco distante la costa cambiava improvvisamente il suo profilo monotono e offriva un riparo nell’insenatura a ridosso di Capo Bianco.
Lì Belzoni e i suoi furono sbarcati poco prima del calare delle tenebre: dopo le pressioni del re del Marocco e la rinuncia ufficiale del padovano, la spedizione poteva considerarsi illegale. Quindi, meno persone sapevano della loro presenza meglio era, anche per tenere alla larga eventuali malintenzionati.
Erano ormai trascorsi cinque mesi da quando il padovano aveva lasciato Londra.
«Ecco la guida che stavate cercando, effendi», disse Shomu indicando un indigeno al suo fianco. «Si chiama Rashad. È originario di Houssa, l’altra leggendaria città lungo il corso del Niger. Conosce bene il percorso del fiume e ogni sentiero per raggiungere Timbuctù.»
L’uomo portava una barba scura e folta che gli copriva parte del viso, dove spiccavano due occhi neri, vivaci e profondi. Aveva un fisico massiccio e braccia forti. Reperire una guida non era facile a quelle latitudini e l’indigeno sembrava facesse al caso della spedizione.
«Parla la nostra lingua?»
«No, effendi», disse Shomu. «Solamente ajami. Ma anche il signor Houston sa che si tratta di una persona fidata. Parlatene con lui.»
John Houston risiedeva in Benin da molti anni e, nella città di Bobee, intratteneva un proficuo commercio. L’Africa orientale rappresentava il passaggio obbligato per tutte le merci esotiche che andavano a ruba tra gli europei. Belzoni si era presentato a lui con una lettera di referenze. Simpatia e fiducia erano scoccate tra i due in maniera spontanea.
«Devo sbrigare alcune faccende a Bobee, Belzoni», disse Houston, un aitante uomo di mezz’età con la brama di una vita avventurosa, mentre il padovano stava per mettersi in marcia. «Ma vi raggiungerò presto e mi farò promotore delle vostre istanze presso l’oba del Benin. La vostra spedizione rappresenta un sogno che coltivo da tempo. Figuriamoci se perderò l’occasione di addentrarmi nel cuore del Sahara e raggiungere le sorgenti del fiume Niger.»
Era il 25 novembre del 1823. Giovanni estrasse dalla tasca di pelle alla cintura l’elenco delle attrezzature e dei bagagli che avrebbero accompagnato la spedizione. Shomu gli era a fianco e traduceva gli ordini di Belzoni ai portatori: il giorno seguente, all’alba, sarebbero partiti. I suoi occhi s’illuminarono quando il padovano maneggiò la borsa all’interno della quale erano rinchiusi anche i disegni.
Come previsto, Houston e Belzoni si rincontrarono due giorni dopo la partenza.
«Come tutti i locali», disse Houston, «anche l’oba era inizialmente diffidente. Non capiscono come si possano percorrere chilometri e chilometri in condizioni disagiate senza un tornaconto economico. Sono stato costretto a dire al sultano una piccola bugia: ho detto che siete un possidente indiano di ritorno in patria che desidera soggiornare a Houssa e visitare Timbuctù. Una piccola bugia, unita a un piccolo regalo, ha aperto ogni porta.»
«Non so come ringraziarvi, John», disse Belzoni. «La solita storia degli europei alla ricerca di indicibili tesori. Magari ci fossero!»
La discussione procedeva serenamente. I due erano seduti vicino al fuoco nell’accampamento. Accanto a loro i portatori e gli altri componenti della spedizione. Tra le tante cose che si raccontarono, Houston confessò a Belzoni di essere uno studioso appassionato di lingua greca antica.
Giovanni non ebbe esitazione: sentiva che quell’uomo era una persona di cui potersi fidare. Estrasse uno dei disegni dalla borsa e lo mostrò a Houston.
«’... dove il sepolcro della regina si trova, ultima sacerdotessa di Iside...’» disse l’inglese traducendo i caratteri greci a braccio.
Rashad, la guida, non era distante dai due europei. Aveva lo sguardo puntato sul fuoco vivo. Aveva memorizzato ogni singola parola pronunciata dai due. Adesso sapeva abbastanza.
Giovanni aveva già sofferto in Egitto di quel fastidioso malanno, ma la dissenteria si era arrestata ogni volta da sola dopo qualche ora. E così sembrava sarebbe stato anche quella mattina: l’indisposizione si era presentata con sintomi assai più blandi che in precedenza.
Belzoni era chino sulle mappe quando Shomu entrò nella tenda. In mano portava un vassoio con una teiera orientale e una tazza. «Eccomi, effendi. Questa tisana placherà ogni vostro disturbo e vi farà dormire bene questa notte», disse l’interprete.
Giovanni ringraziò e versò l’infuso dal colore verde scuro nella tazza, tastò la temperatura del liquido con le labbra e quindi trangugiò la tisana a lunghi sorsi.
«Grazie, Shomu. Che tu sia benedetto. Speriamo che le vostre erbe mi facciano stare meglio.»
Mezz’ora più tardi, Belzoni si alzò dalla tavola. La testa gli girava e gli sembrava di stare sempre peggio. Uscì dalla tenda e si stiracchiò alzando lo sguardo al cielo. Il rapace, uno splendido esemplare di falco, piombò dall’alto sulla preda. La lotta fu breve e impari: gli artigli del falco fecero scempio dell’altro volatile, ma non riuscirono a ghermirlo, mentre precipitava a terra.
Giovanni si avvicinò al piccione e si chinò sul suo corpo. Il povero animale aveva l’osso del collo spezzato e la testa penzolava in maniera innaturale. Il padovano lo sollevò e si accorse del cilindro in ottone legato alla zampa. Estrasse con cura il messaggio e trasalì: «Nelle copie è rivelato dove si trova il sepolcro della regina. Stasera agiremo indisturbati. Lo svizzero avrà presto un degno compagno».
Conosceva bene quella scrittura: mille volte aveva letto le traduzioni vergate dal suo fedele interprete.
Belzoni non ebbe esitazione e si diresse verso la tenda di Shomu.
Il copto era sdraiato sulla branda ma non dormiva quando Giovanni gli rovinò addosso urlando. Lo sollevò dal letto e lo colpì al volto con un pugno. Le forze andavano scemando, quando prese di mira l’interprete una seconda volta.
«Traditore!» esclamò Giovanni stringendo in una morsa letale il collo dell’altro. «Lo svizzero! Il mio amico Burckhardt...»
La testa aveva preso a vorticargli. Aveva paura di perdere i sensi, prima di averla fatta pagare a quell’assassino.
«Non hai più tempo, infedele!» sibilò Shomu.
«La tisana!» trasalì il padovano. Adesso tutto gli era chiaro. «Mi hai avvelenato! Muori!» esclamò. E con l’ultimo barlume di forza strinse il collo dell’interprete con le sue mani d’acciaio.
Quindi uscì e crollò a terra al centro dell’accampamento privo di conoscenza.
Il sonno di Sarah, quella notte, era scosso da terribili incubi. La visione degli occhi del misterioso assalitore rendeva impossibile il suo riposo.
Gli occhi... ma certo! Quegli occhi! Lei conosceva quello sguardo: l’uomo che l’aveva aggredita dopo essere stato sorpreso a frugare tra i loro effetti era il fidato interprete di suo marito.
Come aveva fatto a non riconoscerlo prima?
Doveva riuscire a comunicare con Giovanni! Metterlo in guardia.
L’angoscia le salì dentro irrefrenabile, mentre pensava al mezzo più veloce per far pervenire un messaggio al marito nel cuore più selvaggio dell’Africa.
E l’ansia non l’avrebbe abbandonata per lungo tempo, neppure dopo aver ricevuto, lei per prima, un drammatico messaggio.
Suo marito era morto di febbri e di dissenteria in Nigeria il 3 dicembre 1823.
Houston era in piedi davanti alla montagnola di terra smossa. Pronunciò commosso alcune parole di commiato, poi rese onore alla salma e ordinò alle guardie del sultano di esplodere una salva di addio. Quindi rientrò in sede per organizzare la spedizione alla vedova di tutti gli averi dell’esploratore defunto.
Belzoni era stato sepolto sotto un grande albero, con una lapide a ricordare la sua vita irripetibile. Non aveva mai ripreso conoscenza, dopo che lo avevano trovato privo di sensi nell’accampamento.
Il mattino del rinvenimento di Belzoni doveva essere un giorno davvero maledetto. Un’altra grana si era abbattuta su Houston, nella sua qualità di garante della spedizione presso le autorità locali: anche l’interprete copto era stato trovato cadavere con evidenti tracce di strangolamento. Houston era certo che tra il padovano in coma e l’interprete strangolato esistesse un nesso. Ma preferì non indagare per salvaguardare la memoria di quel suo generoso, onesto e avventuroso amico.