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Londra. Fine febbraio 1832
Un vento gelido spazzava le strade della capitale del Regno Unito. In cielo si rincorrevano le nuvole alternando scrosci di pioggia a sprazzi di sereno. Per fortuna, le brezze invernali erano riuscite a rimuovere la densa coltre di nebbia che gravava su Londra ormai da giorni. Per le strade la gente camminava veloce, imbacuccandosi nei baveri di giacche, marsine e mantelle. La carrozza si fermò davanti a un portone anonimo, identico a tanti altri che si affacciavano sulla via. Dalla vettura scese un signore distinto, avanti con gli anni, ma dal fisico ancora asciutto e tonico.
Dorian Émile Lovatier aveva dipinta in volto, per l’occasione, un’espressione affranta che mal si conciliava con i suoi modi subdoli e arroganti.
Rivolse alcune parole di condoglianza alla donna che l’aveva appena invitato a sedere nel salotto. «Sono qui, signora Belzoni, per esprimervi il mio più sincero dispiacere per la scomparsa di vostro marito. Giovanni Battista era il più valido esploratore che mai abbia calpestato i deserti d’Egitto.»
Sarah Belzoni si era ritrovata improvvisamente sola da qualche anno e ancora il vuoto pesava su ogni sua azione, anche le più semplici. Era sempre stata una donna forte ma, senza il suo gigante, aveva più volte percepito la paura di non farcela ad andare avanti. Il volto era smagrito, gli occhi cerchiati, anche il fisico sembrava provato dal dolore.
«Gradite un tè, generale?» chiese Sarah.
«Volentieri, signora Belzoni. Voi sapete che, per noi francesi, riuscire a sorseggiare un tè inglese è un lusso al quale non è possibile rinunciare.»
Sarah si assentò, mentre il generale passava in rassegna i cimeli che arredavano la casa.
«Ho avuto modo di finanziare alcune delle imprese di vostro marito», disse Lovatier poco dopo, davanti a una tazza fumante. «Vi assicuro, mai mi sono entusiasmato così tanto per una spedizione. Vostro marito possedeva fiuto e capacità come nessun altro.»
«Giovanni sembrava agire spinto da un inspiegabile istinto», rispose Sarah con una punta di malinconia. «Eppure ogni sua scoperta era preceduta da studi approfonditi, ispezioni, sopralluoghi, disegni. Mettendo assieme tutte queste attenzioni preliminari è riuscito dove altri non sono arrivati. L’unico rammarico che ho – e penso che anche mio marito lo abbia avuto – è quello di non aver mai recuperato quel tesoro a lungo inseguito e mai raggiunto. Un ritrovamento che ci avrebbe cambiato la vita.»
«Eppure Belzoni è penetrato in siti leggendari, sepolcri sconosciuti.»
«Questo è vero. Purtroppo, se mai c’erano state ricchezze, i predatori di tombe le avevano già prelevate», tagliò corto Sarah. Quell’uomo non le era mai piaciuto e non piaceva neppure a Giovanni, che non ne aveva mai parlato bene.
«Credo che sappiate, signora Belzoni, che vostro marito era affiliato alla loggia massonica che ho l’onore di dirigere.»
«Certo, generale. Ma, se non ricordo male, Giovanni vi aveva comunicato l’intenzione di rassegnare le sue dimissioni. Mi pare comunque che la decisione di mio marito sia passata in subordine, quando la massoneria parigina ha disposto la liquidazione della loggia da voi governata.»
Quella donna era un osso duro e non sarebbe stato facile per Lovatier riuscire a sapere ciò che voleva.
«Certo, certo», disse il generale. «Vostro marito non può fare parte di un’organizzazione che non esiste più. Lo dicevo solo per farle presente il profondo legame che ci univa. Proprio per quel legame sono qui oggi a offrire quello che posso in caso di bisogno...» i toni dell’uomo si fecero insinuanti. «Capisco che una donna sola e vedova possa andare incontro a... difficoltà economiche.»
«Non navigo nell’oro, generale, ma non mi occorre nulla. Vi ringrazio.»
Non era vero: le finanze di Sarah non erano allegre. Ma, prima di accettare un aiuto da un ceffo simile, avrebbe preferito precipitare nella più cupa indigenza.
«Questo mi solleva, ma se voleste realizzare un guadagno vendendo dei reperti appartenuti a vostro marito, sappiate che potete trovare in me il migliore acquirente.»
«Dopo le recenti mostre mi sono rimasti pochi oggetti. Forse non saranno neppure sufficienti per allestirne un’altra, signor Lovatier.»
Anche questa era una colossale bugia alla quale il generale aveva fatto finta di credere: l’esposizione allestita in Leicester Square a Londra nel 1825 si era rivelata un fiasco e anche le vendite successive non avevano dato buoni risultati. La donna viveva grazie a qualche sporadica cessione di oggetti ancora in suo possesso. Ma non poteva andare avanti tanto a lungo. Per questo Sarah meditava da qualche tempo di trasferirsi altrove. Povera o no, mai avrebbe rivelato le sue difficoltà a Lovatier, anche se il generale sembrava assai bene informato.
«Non credo che quello che cerco possa essere annoverato tra i reperti presentati in una mostra. Si tratta di un antico scritto, in lingua greca, dove si fa riferimento a una regina egizia.»
«Non ne ho mai sentito parlare, generale. Se dovessi rinvenire qualche oggetto che corrisponde alla vostra descrizione, sarà mia premura contattarvi», disse Sarah.
Quando Lovatier se ne fu andato, la donna si avvicinò a un secrétaire, estrasse la chiave dalla tasca dell’abito e mise mano a un carteggio di lettere. Le esaminò con attenzione e ne scelse una. Stringendo la lettera in mano scese in cantina, dove ancora erano ammassati gli oggetti esposti nella sfortunata mostra di Leicester Square. Individuò il sarcofago di legno e ne rimosse il coperchio. La mummia era avvolta nelle sue bende, fatta eccezione per una buona parte del collo e la parte inferiore della mandibola. Sembrava che l’antico sacerdote la deridesse con un sorriso sinistro. Sarah ripiegò la lettera, poi la inserì in una fessura poco dietro la mascella. Con un utensile lungo e sottile si aiutò per spingere la busta ripiegata all’interno del cranio.
Adesso rimaneva da dare una risposta a una sua preoccupazione: era quasi certa che Belzoni, prima di morire, non avesse confidato né al generale né a qualcuno a lui vicino ciò che aveva rinvenuto nella tomba scoperta a Berenice. Come faceva Lovatier a sapere dei frammenti del pannello?
Émile Lovatier raggiunse Parigi qualche giorno più tardi e convocò d’urgenza i membri del Sole di Iside per informarli sull’incontro avuto con la vedova Belzoni.
La loggia – ormai una vera e propria setta – aveva perso un gran numero di iscritti, dopo che era stata bandita dalla massoneria tradizionale. Erano rimasti però, questo diceva il generale, i confratelli più fedeli e attivi: una decina di persone che, grazie alle loro notevoli disponibilità finanziarie e alle loro cariche sociali, erano convinte di poter coltivare, sia pure in una forma rivista e più moderna, l’antico culto egizio e di riuscire a individuare il sepolcro dell’ultima sacerdotessa di Iside.
Terminata la riunione del consiglio, Lovatier s’intrattenne con un adepto in particolare.
«Sarah Belzoni è una donna energica», disse Lovatier. «Mi ha cortesemente messo alla porta senza neppure ascoltare la mia offerta.»
«Lei», disse il visir Bahir Hadi, «è rimasta la nostra sola speranza per risalire al tesoro dell’ultima sacerdotessa di Iside.»
«Sono d’accordo con voi, eccellenza. Dovremo individuare dei segugi che la tengano d’occhio. Ho già rischiato nel recarmi a Londra sotto falso nome. Come ben potete immaginare, un ex ufficiale napoleonico non è ben visto da quelle parti.»
«Non vi preoccupate. Vedrò che cosa riesco a fare con i miei uomini», concluse il collaboratore del viceré d’Egitto.
Gli uomini su cui il visir poteva contare per svolgere ogni tipo di lavoro, anche i più «sporchi», erano due: l’elegante Saud, un assassino senza scrupoli che sapeva come accoppare un uomo in pochi minuti, e Hussam, il fratello del commerciante di legnami che aveva venduto a Belzoni il necessario per costruire la sua macchina. Mentre il primo era esperto in veleni da somministrare alle sue vittime per aver militato spesso al fianco dell’interprete Shomu come suo assistente, il secondo era ben più rozzo e grossolano del raffinato collega, anche nelle modalità operative: amava uccidere a mani nude. I due possedevano un solo fattore comune: entrambi erano incapaci di provare rimorso per le loro azioni.
Il visir, appena rientrato in Egitto, convocò i due sicari.
«La moglie di Belzoni conosce la tua faccia, Saud, perché ti ha visto diverse volte in compagnia del tuo maestro Shomu. Tu invece, Hussam, l’hai vista una sola volta, appena arrivata in Egitto. Sono passati molti anni e non credo riuscirebbe a riconoscerti. Seguila. Devi sapere che cosa fa e riuscire a rovistare tra le sue cose per cercare notizie sul sepolcro della regina.»
«Mi dispiace, signora Belzoni. Vi ho concesso più credito di quanto potessi. O mi corrispondete gli affitti arretrati, oppure sarò costretto a sfrattarvi», disse il padrone di casa.
Sarah non provò neppure a controbattere: erano ormai tre mesi che non pagava la pigione e quello che l’uomo le aveva appena detto corrispondeva al vero. Anche se fosse riuscita a vendere la sua intera collezione ai prezzi di mercato, avrebbe potuto vivere a Londra per un anno, forse. Poi sarebbe ricaduta nell’indigenza. La soluzione era una sola: lasciare la città.
Avrebbe potuto illudersi che la lettera dell’amico Jappelli, al quale si era già rivolta in cerca di aiuto, contenesse una chiave per raggiungere l’agiatezza. Ma Sarah era convinta che anche quel «tesoro» facesse parte delle fantasie del suo povero Giovanni. In ogni caso, una ricerca in tal senso comportava la disponibilità di fondi che lei certo non possedeva.
Insomma, era giunto il momento per Sarah di migrare ancora una volta. Lo fece con qualche rimpianto, ma con minor dolore di quanto avesse supposto.
La scelta della vedova Belzoni ricadde su Bruxelles, Ixelles in particolare, quartiere che aveva avuto modo di visitare qualche anno prima nella sua costante ricerca di un compratore per i suoi reperti. Anche in questo Sarah mostrava una certa rigidità nel determinare i prezzi, dettata dalla convinzione di essere in possesso di oggetti unici e dal rispetto che provava nei confronti di reperti antichissimi scoperti dal suo Giovanni.
C’erano altri due motivi che l’avevano spinta ad abbandonare la natia Gran Bretagna: le idee democratiche di Sarah erano viste come cospiratorie nella conservatrice Inghilterra di Guglielmo IV. La cronica carenza di fondi, inoltre, si era ancor più acuita con la scomparsa dell’amato Mr. B, come lo chiamava lei con affetto. Sarah aveva così scelto il Belgio per il basso costo della vita, per le libertà garantite e perché, almeno pareva, i reperti egizi godevano ancora di un discreto mercato.
Sarah prese alloggio al numero 2 di Glacis de Waterloo hors de la porte Louise, una casa modesta su due piani, composta da quattro stanze e un piccolo giardino, ma grande a sufficienza per contenere tutti i reperti che componevano il suo museo viaggiante.
Ogni volta che la malinconia l’assaliva, Sarah rileggeva le pagine che aveva scritto a corredo di un saggio del marito. Si riferivano alla condizione della donna nei Paesi dell’Africa che aveva visitato e suonavano come una chiamata a stabilire i minimi presupposti di esistenza decorosa per le donne africane. Come poteva lei, che incitava le altre ad alzare il capo, cadere vittima della depressione?
Così, appena giunta in Belgio, la vedova si diede da fare e offrì i suoi pezzi da collezione al Museo reale delle Belle Arti. Nelle sue trattative, Sarah aveva trovato una valida alleata: Pauline Ferguson, l’agiata moglie di un diplomatico inglese conosciuta durante una delle frequenti rimpatriate dei cittadini del Regno Unito.
Tra le due donne era nata una profonda e sincera amicizia. Pauline abitava in un appartamento poco distante dal quartiere delle ambasciate in rue du Lac. La sua cameriera personale era una giovane e massiccia gallese che viveva per la sua signora. Amalia, la simpatica cameriera, usciva ogni giorno alle dieci per fare la spesa nel vicino Marché Flagey.
Una mattina stava costeggiando lo stagno d’Ixelles, le sporte strette nelle mani, quando sentì una voce dall’accento incerto alle sue spalle.
«Signorina! Signorina», disse lo sconosciuto. «Perdonatemi, ma credo voi abbiate perduto questo»; così dicendo l’uomo, carnagione scura e occhi neri, quasi certamente uno dei tanti manovali mediorientali che affollavano la capitale belga, le mostrò un involto di verdure.
«Non sono mie, signore. Vi sbagliate...» rispose lei. Ma si sentì attratta sin da subito da quello sguardo profondo.
«Lo so bene, signorina. Sono giorni che vi osservo raggiungere il mercato e ritornare sui vostri passi. Perdonate il mio ardire, ma non vedevo l’ora di rivolgervi la parola.»
Amalia sentì le gambe cedere. Non oppose resistenza quando lo sconosciuto si offrì di aiutarla con le sporte e accompagnarla sino alla sua destinazione.
Da quel momento in poi si videro sempre più spesso. Hussam scoccò la sua freccia dopo circa un mese di «fidanzamento segreto», quando era convinto che Amalia fosse pazza di lui al punto di seguire ogni sua istruzione.
Pauline Ferguson si recava a fare visita all’amica Sarah Belzoni ogni giovedì pomeriggio. Le due donne sedevano nel salotto della casa di Glacis de Waterloo e si trovavano ad ammirare i reperti egizi. Spesso Sarah raccontava le storie del suo Giovanni in terra d’Egitto e Pauline e le altre ospiti rimanevano ad ascoltare estasiate quelle meravigliose avventure che si svolgevano in un mondo assai lontano nello spazio e nel tempo.
«Per rispondere alla tua domanda, Pauline, so per certo che Giovanni non ha mai rinvenuto resti di particolare valore, altrimenti non mi troverei oggi in questa spiacevole condizione. Vero che Giovanni chiese a un amico di custodire alcuni particolari reperti. Ma ho deciso di lasciarli là dove si trovano. Sarebbe troppo gravoso per chiunque organizzare oggi una spedizione per seguire solo un labile indizio.»
Le due donne continuarono per un po’ a parlare del misterioso scritto recuperato da Belzoni in una tomba, ma Sarah si fermò lì, senza riferire del carteggio con l’architetto Jappelli e senza svelare a quale regina si riferissero le iscrizioni sul reperto.
Amalia, solitamente, trascorreva il tempo della visita nella cucina della casa di Sarah. Da lì ascoltava ogni parola, la teneva a mente e la riferiva, nella maniera più fedele possibile, all’amato Hussam. Quella conversazione le era parsa particolarmente interessante.
L’egiziano la baciò con passione. Il luogo dove si davano appuntamento era una macchia di vegetazione che costeggiava gli Étangs d’Ixelles. Lì, le ripeteva spesso Hussam, nessuno avrebbe potuto scorgerli.
Appena posate le labbra su quelle dell’amante, Amalia prese ad ansimare: l’uomo che avrebbe amato per tutta la vita aveva risvegliato in lei molti desideri mai espressi.
«Aspetta, Amalia», disse lui fermando la mano della donna che inaspettatamente si stava insinuando nelle parti intime. «Raccontami che cosa si sono dette quelle due...»
«Sembra quasi che tu sia interessato più ai segreti della mia padrona che alla sottoscritta», disse la povera Amalia, facendosi ancora vicina con mosse che solo lei considerava sensuali.
«Non dire eresie. Ma voglio sapere che cosa quella donna ha rubato al mio Paese.»
Per giustificare il suo interesse, Hussam aveva inventato di sana pianta un suo arruolamento in un corpo segreto che, per conto del governo egiziano, andava alla ricerca di esportazioni clandestine di ogni genere. Comprese le vestigia dell’antico regno dei faraoni. E così la simpatica Amalia, infatuata dal sentimento e stuzzicata dall’alone di segretezza, non esitava dinanzi a nessuna richiesta.
«Ti racconterò tutto se riceverò in cambio quello che sai», gli disse un giorno protendendo la mano verso di lui. «Facciamolo qui, adesso. Come l’altra volta. Ne ho voglia, amore», così dicendo posò nuovamente la bocca su quella di Hussam, che invece l’allontanò.
«Non adesso!» esclamò. «Non abbiamo tempo.»
«Dai, prendimi», Amalia alzò la gonna, lasciando che l’uomo vedesse le sue nudità.
Tutto fu veloce e, alla fine dell’amplesso, ancor prima che la ragazza lasciasse ricadere la gonna, lui la incalzò: «Adesso dimmi!»
«Esiste un carteggio di lettere che potrebbe darti ragione: Belzoni ha casualmente scoperto il luogo dove si trova un sepolcro molto ricco. Ma la morte dell’esploratore e la povertà di sua moglie hanno impedito di iniziare le ricerche.»
«Chi possiede questo carteggio? A chi sono scritte queste lettere?»
«Quanta irruenza, amore mio. Prima un altro bacio.»
Hussam obbedì malvolentieri e Amalia riprese: «La signora Sarah non ha fatto cenno a chi fossero indirizzate le lettere o a quale personaggio appartenesse il sepolcro. Ha solo detto alla mia padrona che le prove della scoperta sono custodite molto bene e che lei stessa ha le chiavi di questa cassaforte».
Hussam, soddisfatto, la strinse in un abbraccio, lei reclinò il capo all’indietro e si abbandonò al calore delle labbra dell’uomo sul suo grosso collo.
«Devi rovistare tra i segreti della vedova», bofonchiò l’egiziano. «Dobbiamo riuscire a conoscere tutti i dettagli della loro scoperta prima di far arrestare questi luridi ladri di tombe.»
«Potrei, signora», disse Amalia a Pauline mentre si recavano al solito appuntamento del giovedì pomeriggio con la vedova Belzoni, «riassettare un poco la casa della signora Sarah, dopo aver preparato il vostro tè. Perdonatemi se mi permetto, signora, ma in quell’appartamento mi sembra ci sia un gran disordine.»
«Hai ragione, Amalia. La mia amica Sarah sembra non curarsi troppo delle apparenze in questo periodo. Glielo chiederò. Sei davvero un angelo, Amalia.»
Come previsto, dopo aver servito il tè, la domestica gallese prese a spolverare gli oggetti della collezione privata di Sarah Belzoni. Si trattava di manufatti di piccole dimensioni posizionati in alcune vetrine che facevano parte del mobilio della donna. Al piano superiore, invece, erano collocati i reperti di dimensioni e pregio maggiori.
Il sarcofago stava nell’angolo, in ottimo stato di conservazione. Era di color rosso mattone, istoriato lungo tutti i suoi lati da figure umane, di animali – uccelli in particolare – e divinità egizie. Sopra il sarcofago era posato un tavolato di legno a fare da coperchio. Amalia lo spostò di lato e inorridì. La mummia era composta all’interno della bara. Solo il collo e la parte inferiore del viso non erano fasciati nei bendaggi e lasciavano intravedere le ossa e la pelle scura mummificata. La domestica, impressionata, rimise a posto il legno che sostituiva il coperchio mancante, e ridiscese in cucina, sua prediletta postazione d’ascolto.
«Vedi, Pauline», stava dicendo Sarah. «Ho perso ogni desiderio e l’unica cosa che vorrei, riavere Giovanni al mio fianco, è impossibile da ottenere. Capisco, però, che la mia depressione è contraria allo spirito di ogni ricerca. Si esplora per divulgare, non per tacere al mondo le scoperte. A volte mi sento responsabile della custodia di notizie che invece dovrebbero essere di pubblico dominio.»
«Quelle alle quali accennavi alcuni giorni addietro?»
«Sì, quelle», Sarah sentiva davvero il peso del segreto. Soprattutto di esserne la sola depositaria. Abbassò il tono della voce e sussurrò. «Avrei dovuto distruggerle, ma la mia memoria era troppo fragile per contenerle, così ho chiesto alla mummia di custodirle. Magari presto finirà questo mio periodo sventurato e potrò finalmente riportare alla luce del sole l’ultima scoperta di Giovanni.»
Pauline non mostrò alcuna reazione: sapeva che, al piano superiore, era immagazzinata una mummia attribuita a un’antica sacerdotessa. Forse comprese il messaggio ma, da buona amica e confidente qual era, evitò di fare commenti.