21

 

La goccia che fece traboccare il vaso fu un obelisco saldamente fissato alla base da qualche migliaio d’anni. Il monumento era stato scoperto nel tempio di File dall’egittologo Bankes nel 1815. Belzoni ne aveva preso legalmente possesso durante un suo precedente viaggio. Il monolite era rimasto in attesa che qualcuno si prendesse la briga di trasportarlo integro sino al fiume e imbarcarlo.

Belzoni fu interpellato dal console Salt e accettò l’incarico senza battere ciglio: nella sua carriera d’esploratore si era cimentato in imprese assai più ardue. Non fece cenno alla sua cronica mancanza di fondi, diventata ancor più preoccupante dopo che si era allontanato da Lovatier.

Il monumento era alto sei metri e mezzo e Bankes si era impegnato ad acquistarlo perché aveva riconosciuto, nella base, dei caratteri greci che gli avevano consentito di identificarvi alcuni cartigli reali. Lo studioso era infatti convinto di riuscire, attraverso la comparazione delle parole greche con i corrispondenti simboli egizi, ad avvicinarsi alla decifrazione della misteriosa scrittura geroglifica.

«Quello è il vero traguardo, signore!» esclamò Belzoni rivolto a Bankes. «Immaginate che cosa potrebbe significare andare alla ricerca dell’antica cultura egizia e dei suoi tesori, riuscendo a comprendere che cosa ci hanno lasciato scritto.»

«Sono in contatto con il francese Champollion e altri che da tempo lavorano in tal senso», rispose Bankes. «Giudicano l’obelisco di File piuttosto importante per i loro studi e non vedono l’ora di poterlo esaminare in Europa.»

«Non tarderanno molto. Se volete, posso prendere un calco delle parti che vi interessano. Ci vorrà del tempo prima che il monumento giunga a destinazione.»

«Non ho fretta, Belzoni. Piuttosto ho il timore che qualcuno possa soffiarci il reperto», aggiunse l’inglese.

«E chi mai potrebbe: voi l’avete trovato, io l’ho regolarmente acquisito dalle autorità egiziane.» Giovanni sventolò dei fogli scritti in arabo. «A scanso di equivoci ho lasciato anche una guardia armata a presidiarlo. Non vedo chi sarebbe tanto incosciente da tentare...»

«Davvero non lo sapete?» insinuò malizioso l’inglese.

«Se intendete chi intendo io, il console Drovetti ha appena ricevuto una serie di diffide scritte di mio pugno. Credo gli convenga lasciarmi in pace per un po’.»

 

Drovetti si era convinto che l’obelisco di File celasse qualche misterioso segreto e, quando aveva saputo che ci aveva messo sopra le mani Belzoni, era montato su tutte le furie. Non si era però perso d’animo e, sapendo che il padovano sarebbe dovuto transitare per Luxor, lo aveva aspettato al varco.

Il tono dell’incontro tra i due fu all’apparenza amichevole: visionarono insieme gli scavi che il piemontese stava eseguendo, dissertarono su tecniche e reperti come due affabili colleghi. Ma quando Belzoni nominò l’obelisco e lo scopo della sua missione, Drovetti cambiò tono e tentò di farlo desistere dall’impresa ricorrendo persino alle minacce.

«Vedete, Drovetti, il vostro risentimento è del tutto inutile», tagliò corto il padovano. «Bankes ne ha opzionato l’acquisto.»

«Vedremo se sarete voi a venderglielo, Belzoni, o il suo legittimo proprietario, cioè il sottoscritto.»

 

Antonio Lebolo era un agente di Drovetti privo di scrupoli. Giunto dinanzi al giudice locale, riuscì a far credere ai giurati che l’obelisco fosse di proprietà degli antenati di Drovetti. E alla domanda se ne possedesse le prove, Lebolo rispose: «È scritto nei geroglifici scolpiti sul monumento».

A quel punto fu fatto divieto a Belzoni di violare la proprietà francese del monumento. E il caso sembrava prossimo a diventare un intrigo internazionale: il console Salt e il proprietario Bankes si recarono a colloquio con il giudice e gli fecero intendere le loro ragioni. L’agà – così era chiamato – si rimangiò il precedente verdetto e, prima che potesse ripensarci, Belzoni iniziò i lavori per il trasporto.

«Portate là quelle pietre!» ordinò il gigante indicando un punto del moletto che stava facendo costruire. «Mi raccomando, battete il terreno alla perfezione: non vorrei avere sorprese mentre ci passiamo sopra con il peso dell’obelisco.»

La premonizione di Giovanni si rivelò azzeccata: mentre il monumento transitava sul molo, trainato a braccia dai fellah, la rampa cedette e l’obelisco precipitò verso l’acqua scivolando lungo la frana.

Fortuna aveva voluto che in quel punto il fiume fosse poco profondo e una parte dell’obelisco ne rimanesse fuori. Facendo leva sulla porzione emersa, Belzoni riuscì a far imbragare nuovamente il monolite, così che poté essere imbarcato.

Drovetti ripose il cannocchiale proprio mentre la feluca issava la vela. Sul volto aveva un’espressione furibonda. «Belzoni pagherà anche per questo affronto», sibilò il piemontese. Erano infatti molte le frecce che, a partire dal busto del giovane Memnone, il gigante aveva messo a segno a discapito dell’orgoglio di Drovetti e dei suoi.

 

Sarah Belzoni sedette allo scrittoio, aprì il diario e vergò queste righe: «Di questo mio ultimo viaggio serberò un prevalente ricordo: le pulci. Ho alloggiato in giacigli di fortuna e sotto al cielo stellato. Ho maturato, a fianco di mio marito, uno strenuo spirito di sopportazione a ogni tipo di avversità. Ma le pulci proprio non le sopporto». Sarah non mentiva, non certo riguardo alle pulci, ma per il suo spirito d’adattamento e di osservazione. A questo si univa la sua istintiva propensione a schierarsi contro le discriminazioni nei confronti delle donne. E, in territori come quelli che era solita frequentare, prendere certe posizioni poteva risultare fuori luogo.

 

Era rientrata da un viaggio in Palestina dove non aveva mancato di far parlare di sé: dopo aver «tentato di minare la tranquillità delle famiglie, istigando le femmine con idee dettate dal demonio» – così la pensavano alcuni potenti indigeni –, Sarah si era resa protagonista di un episodio che avrebbe potuto costarle la vita, complice la sua innata curiosità.

Giunta nella Città Santa, aveva chiesto di poter visitare la spianata delle Moschee. La guida le aveva allora risposto che alle donne era precluso l’accesso. La signora Belzoni non si era persa d’animo e aveva convinto un mamelucco ad affittarle i suoi abiti variopinti per qualche ora. Si era quindi travestita da guerriero del deserto e così agghindata era riuscita a penetrare laddove le donne e gli infedeli, pena la morte, non potevano nemmeno sognare di introdursi.

Ma qualcuno si era accorto dello strano comportamento di Sarah e aveva incominciato a pedinarla. Così la signora Belzoni aveva terminato anzitempo il suo viaggio, ripreso la via dell’Egitto e raggiunto l’amato Giovanni.

I coniugi stavano trascorrendo in serenità le festività natalizie.

Una sera, dinanzi a Henry Salt, Belzoni manifestò quanto gli mancassero i buoni frutti del suo orto a Padova.

«A questo c’è rimedio, Giovanni», rispose il console britannico. «Possiedo un terreno a Tebe, a poca distanza dal fiume. Ve lo cedo in cambio di qualche ortaggio quando li raccoglierete.»

Il gigante prese a trascorrere buona parte del suo tempo libero nel campo. Una mattina un contadino egiziano che lavorava per lui gli corse incontro urlando: «Dei bianchi mi hanno malmenato, guardate come mi hanno conciato!»

Giovanni diresse l’asinello che montava nella direzione indicata dal malcapitato, ma presto due scagnozzi di Drovetti, Lebolo e Rosignani, gli sbarrarono il passo, spalleggiati da una ventina di arabi.

«Adesso facciamo i conti, gigante dei miei stivali!» disse Lebolo puntandogli un fucile al petto.

«E quali conti dovrei avere in sospeso con persone come voi?» ribatté pronto Belzoni.

«Un obelisco rubato vi dice niente?» disse Rosignani.

Gli arabi tutto intorno rumoreggiavano scalmanati.

«Non ho rubato nulla. Toglietevi di torno e lasciatemi il passo!» esclamò Giovanni perentorio.

«Per non parlare delle dicerie che mettete in giro», continuò Lebolo facendo compiere dei cerchi alla bocca del fucile proprio sotto gli occhi del padovano.

Belzoni non resistette oltre: afferrata la canna dell’arma che gli veniva puntata addosso, la strattonò fino a disarmare l’avversario. Gli arabi, nel frattempo sempre più minacciosi, lo avevano circondato. Belzoni fece tesoro del suo passato da fenomeno del circo, inarcò le spalle e caricò la turba usando il fucile sottratto a Lebolo come una mazza. Nell’aria risuonò un colpo di pistola sparato alla volta di Giovanni che, in men che non si dica, si ritrovò nuovamente accerchiato.

La situazione sarebbe degenerata a scapito del povero padovano se Drovetti, alla guida di un altro gruppo, non fosse giunto sul posto.

Il piemontese iniziò a rivolgergli un’altra sequela di accuse e insulti e, ancora una volta, Belzoni tentò di aprirsi un varco a suon di spintoni e di pugni.

Il trambusto aveva attirato un folto gruppo di curiosi che osservavano la scena. Intimiditi dalla presenza di testimoni, Drovetti e i suoi abbassarono i toni.

«Me la pagherete di fronte alla legge!» esclamò Belzoni quando la morsa si allentò e fu libero di andarsene.

«Sono pronto a fronteggiarvi dovunque, ladro!» rispose Drovetti.

Tornato all’accampamento, Giovanni raccontò dell’incidente a sua moglie. Sarah lo abbracciò e non perse tempo: «Perché non ce ne andiamo da qui, Giovanni?» disse la donna. «Sono stanca dell’Egitto. Torniamo in Europa. Questa terra non ci è più amica. Lasciamo il sogno di trovare un tesoro a chi sarebbe pronto a uccidere pur di accaparrarselo.»

«Mi stupiscono questi tuoi timori», disse Giovanni con tono quasi scherzoso. «Quando parlo di te dico che sei ’una viaggiatrice che, come me, è diventata indifferente alle comodità’. Mi sbaglio, forse?»

«No, Giovanni», rispose lei. «Ma le minacce che affrontiamo tutti i giorni cominciano a farmi pensare che sarebbe meglio lasciare queste terre a chi le vuole a tutti i costi.»

«Lo farò, te lo prometto, ma non prima di aver portato quell’insolente di Drovetti davanti a un giudice.»

L’episodio aveva comunque segnato il padovano che, seduta stante, comunicò al console Salt che avrebbe abbandonato l’attività a Tebe.

 

Ma le sorprese non erano finite.

Era giunto in città da poche ore, che Lovatier si fece vivo. «Credevo che il nostro accordo fosse chiaro, Belzoni: noi avremmo avuto un diritto di prelazione sulle vostre scoperte!» disse il francese risentito.

«Perdonate, generale. Vi sfugge forse un particolare del nostro accordo: la prelazione sarebbe scattata in caso di vostro finanziamento. E finanziamento non c’è stato. Per i reperti recuperati sull’isola di File l’impresa era a carico del console Salt e poi del signor Bankes, acquirente finale del reperto.»

Il gigante era già sufficientemente di cattivo umore per l’incursione patita. Non aveva abbastanza pazienza per sentirsi fare una paternale dal gran maestro.

«Voi sapete quanto sia importante per la nostra Obbedienza il culto della dea», disse il gran ierofante della loggia del Sole di Iside. «Quell’obelisco adornava l’ingresso al tempio dedicato proprio alla dea. E, a quanto mi risulta, l’acquirente pare convinto vi siano scolpite antiche formule sacre alla divinità, il nome della regina Cleopatra e quello di suo padre Tolomeo.»

«Mi sono fatto un’opinione personale, signore, avendo avuto modo di esaminare a lungo il reperto», rispose Giovanni. «Non credo si tratti di quel Tolomeo e di quella Cleopatra. Il manufatto è di epoca antecedente. Soltanto quando saremo in grado di decifrare la scrittura egizia sapremo a chi fa riferimento il bassorilievo sull’obelisco.»

«In ogni caso, abbiamo perso una buona occasione per arredare con antichi oggetti di valenza sacra il nostro tempio di Parigi. Che cosa ne pensate se chiedessimo all’inglese di cederci il monolite, naturalmente garantendogli un buon margine di guadagno...» insinuò il generale. Ancora quella luce malsana si accese nei suoi occhi.

«Non credo che accetterebbe: Bankes vuole studiare il reperto insieme ad altri studiosi europei. Non lo cederebbe per nulla al mondo. E poi, credo che voi siate introdotto meglio di me in certi ambienti: vi suggerisco di tentare senza intermediari la via dell’acquisto.»

«Vi ricordo che siete un confratello della loggia e avete giurato obbedienza.»

«Anche qui un distinguo, signore: ho giurato di non divulgare segreti e di andare in aiuto dei confratelli in difficoltà a costo della mia stessa vita. Ma, anche in questo caso, non mi pare di aver mancato ai precetti.»

Lo sguardo di Lovatier era adesso di fuoco.

«Mi auguro che non si verifichino più altri inconvenienti simili, Belzoni.»

«Non so se interpretare quello che dite come consiglio o come una minaccia, generale. Devo, però, confessarvi una cosa: ero convinto che la massoneria fosse tutt’altra realtà e gli ideali di libertà cui s’ispira mi paiono assai distanti da quelli praticati dalla vostra loggia. Forse non sono adatto per far parte dell’Obbedienza. Vi comunicherò per tempo ogni mia decisione in merito. In ogni caso, non temete: non vi troverete mai più in situazioni analoghe, almeno non per mia colpa. Mia moglie e io abbiamo deciso di lasciare l’Egitto per sempre, non appena avrò avuto ragione in tribunale delle offese patite da Drovetti.»

 

Forse Belzoni era abituato a un altro corso della giustizia. Dopo che l’ambasciata britannica ebbe presentato formale denuncia nei confronti di Drovetti e dei suoi, gli egiziani convennero che la sede opportuna per il giudizio fosse il consolato francese. Era come se fosse chiesto all’accusato di giudicare sé stesso. Le lungaggini dei tribunali egiziani sarebbero state capaci di fiaccare chiunque. Le conoscenze di Drovetti, inoltre, erano ramificate e solide come le radici di un leccio secolare.

Nell’attesa della sospirata sentenza, Giovanni riuscì a organizzare un paio di spedizioni. Scelse però mete meno celebrate, quasi che cercasse in ogni sua azione di segnalare che lui, con quella terra così poco riconoscente, non voleva avere più nulla a che fare.

Sarah, che avrebbe mal sopportato nuove escursioni nel deserto, aveva preso alloggio a Rosetta presso dei conoscenti. Belzoni, invece, con una dose d’entusiasmo forse inferiore al solito, si era inoltrato nel deserto libico per visitare il lago di Meride.

Ma l’appuntamento con la giustizia lo richiamava al Cairo e, recuperata Sarah, si preparò a rientrare e difendere la sua onorabilità in un’aula.

Giunti presso la loro casa trovarono una brutta sorpresa: l’appartamento che occupavano era stato messo sottosopra. I malintenzionati avevano asportato soltanto poche cose, giusto qualche reperto di facile maneggevolezza. Ma avevano rovistato dappertutto. Apparentemente senza trovare quello che stavano cercando.

Nella sua poco redditizia carriera archeologica, Belzoni aveva sì rinvenuto reperti di valore, ma quasi mai si trattava di beni facilmente smerciabili come monili o preziosi. Vendere il busto di un faraone, un obelisco o un sarcofago non erano operazioni che potevano passare inosservate. Che cosa cercavano quindi i misteriosi ladri?

Giovanni si era quasi scordato dei frammenti del pannello con l’iscrizione recuperati nella tomba a Berenice, quando gli ritornò prepotente alla mente. Poteva essere quello l’oggetto del desiderio dei malintenzionati?

Se così fosse stato, i ladri erano andati a vuoto per puro caso: per abitudine, ogni volta che preparava una nuova spedizione, faceva riporre tra i bagagli il sacco di iuta contenente i cocci.

«Prima o poi», si ripeteva il gigante, «magari durante una sosta, troverò il tempo per assemblare i pezzi e tradurre finalmente il pannello.»

Così quel sacco di iuta contenente i frammenti era diventato un compagno silenzioso dei suoi viaggi e anche nell’ultima spedizione era rimasto all’interno di uno dei bauli che l’avevano accompagnato nel suo recente viaggio.

«Forse so perché i ladri sono entrati in casa nostra», disse Giovanni a Sarah infilando le mani nel baule e tirando fuori il sacco. «Cercavano questo!»

«Che cos’è?»

«Quel reperto di cui ti ho parlato e che ho rinvenuto in una tomba nei pressi di Berenice. Fa parte di una lunga iscrizione in greco e credo sia il diario della vita di una persona vicina a Cleopatra.»

La sentenza nella contesa con Drovetti fu davvero salomonica e giunse infine dopo una serie interminabile di udienze, testimonianze, deposizioni, giuramenti. I due principali imputati per l’aggressione, ovvero Lebolo e Rosignani, se la cavarono con un giudizio, di fatto, assolutorio. La corte stabiliva, poi, che, non essendo di competenza di un foro in territorio egiziano una disputa tra cittadini stranieri, i contendenti dovessero far valere le proprie ragioni dinanzi a un tribunale torinese.

Belzoni, ancora incredulo, s’imbarcò assieme a Sarah alcuni giorni dopo il verdetto. Era il settembre del 1819.

Era deluso e sfiduciato. L’Egitto, il Paese per il quale si era speso senza mai risparmiarsi, gli appariva sollevato dalla loro partenza. Nella ricerca delle origini antiche di quel popolo, Giovanni non si era arricchito; aveva anzi accumulato molti debiti e avrebbe dovuto lavorare sodo per ripianarli.

«Non posso prendermela con gli arabi o con i turchi. Loro non hanno colpe», disse il padovano guardando il porto di Alessandria da bordo della nave che sarebbe salpata di lì a poco. «Il male lo hanno portato alcuni europei e lo stanno diffondendo come untori tra questa gente. Loro sperano di arricchirsi a ogni costo. Forse ci stanno riuscendo e in questo io ho sbagliato: ho sempre cercato la scoperta scientifica, senza mai preoccuparmi del tornaconto economico.» Sarah gli era vicino e teneva stretto il suo ciclopico avambraccio. «Quello che accade sta dando loro ragione: io vado come un rinnegato e loro restano da padroni.»

L'ombra di Iside
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