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Tenendosi il braccio rotto stretto al petto per immobilizzarlo, Rachel si concentrò per compiere un ampio cerchio attraverso il bosco. Era dalla parte sbagliata dell’autostrada. Doveva dirigersi verso il lago. Nessuno si sarebbe aspettato che andasse verso una strada senza uscita, giusto?
Le girava la testa, avrebbe voluto fermarsi e vomitare. Aveva la milza in fiamme e un dolore crudele le mordeva il braccio a ogni passo.
Cancellò ogni cosa dalla sua mente ed evocò l’immagine del lago. La freschezza dell’acqua. Le onde riposanti. La fuga. Doveva riuscire ad arrivare al lago.
Continuò a correre, inciampando in milioni di sassi e radici, ma non si fermò. Se rallento sono spacciata. Solo quel pensiero le diede la forza di proseguire.
Stava correndo nella direzione giusta? Avrebbe voluto fermarsi per riprendere fiato, solo un attimo, ma non osava farlo. Potevano essere subito dietro di lei.
Non erano stati sparati altri colpi, ma come poteva sapere che non la stessero seguendo furtivamente, aspettando che commettesse un errore?
Dopo un’ora di dolore lancinante, dopo aver perso una scarpa e aver martoriato il suo piede nudo, riemerse dal bosco, cadde sull’argine del fiume e infine nell’acqua sottostante.
Il freddo fu uno shock, e lei riuscì a stento a trattenere l’urlo di dolore quando il braccio rotto impattò con l’acqua. Sollevò la testa dalla corrente gorgogliante. L’acqua le era entrata nel naso e aveva bevuto.
Boccheggiò per prendere aria. Poi, al di sopra del dolce mormorio delle onde, udì delle voci. Erano vicini. Oh, dio.
Si lanciò verso la riva scoscesa, nuotando disperatamente per raggiungere quel riparo. Era la sua unica possibilità di rimanere nascosta e doveva pregare perché non scendessero fino al fiume.
Si rannicchiò sul suolo umido e fangoso, cercando di farsi più piccola che poteva. Le voci adesso erano vicine e Rachel udì il conducente urlare all’altro di separarsi.
Il respiro le si mozzò quando della terra le piovve addosso. Era lì. Proprio sopra di lei.
Sentì il sudore scenderle lungo il collo. Ogni muscolo del suo corpo era indolenzito. Doveva muoversi, spostarsi, fare qualcosa, qualsiasi cosa.
«La cagna dev’essere tornata indietro. Non poteva farcela nell’acqua» urlò l’uomo al suo compare.
Rachel però aspettò, paralizzata dalla paura, con il cuore che batteva così forte da farle temere che l’avrebbe tradita. Restò lì seduta per un’eternità, mentre il panico la sommergeva a ondate.
Proprio quando iniziò a spostarsi con cautela, ci fu un leggero rumore e della terra franò di nuovo sulla riva. Rachel la fissò terrorizzata, raggelando per l’errore che aveva rischiato di commettere. Lui la stava aspettando. Sospettava che fosse lì da qualche parte, solo non sapeva dove. Le aveva teso una trappola e lei aveva rischiato di caderci in pieno.
Chiuse gli occhi, decisa a tenere duro. Non si sarebbe mossa. Non avrebbe respirato. La sua vita dipendeva da quello.
Dopo un tempo che le parve interminabile e atroce, allungò le gambe, raddrizzandosi con estrema cautela. Il suo braccio era rigido e gonfio e faticava a muoverlo.
Non voleva tornare nel bosco. La stavano sicuramente aspettando. Ed erano in vantaggio.
Il fiume. Non doveva fare altro che immergersi di nuovo e raggiungere il lago per quella via. Fortunatamente non era troppo lontano. L’acqua era bassa, ma sapeva che in alcuni punti c’erano delle pozze profonde.
Strisciò da sotto la riva che l’aveva protetta e lentamente tornò verso l’acqua. L’istinto le urlava di correre, di buttarsi in acqua e spingersi verso valle il più in fretta possibile.
Rachel invece raccolse tutte le sue forze e scivolò silenziosamente nel fiume. Arrivò al centro, dov’era più profondo, e si immerse sapendo che sarebbe stato più facile se si fosse lasciata trasportare dalla corrente. Era esausta e talmente dolorante che non avrebbe potuto camminare ancora per molto.
Le rocce le graffiarono le ginocchia e il piede nudo. Ogni volta che vi sbatteva contro, doveva impiegare tutte le sue forze per non urlare.
In alcuni punti il fondale era così basso che l’acqua arrivava soltanto alle caviglie e Rachel camminò sul fondo ghiaioso, tanto era il timore di lasciare delle impronte se avesse raggiunto la riva fangosa.
Quanto tempo era passato da quando era fuggita? Sembravano ore, ma il cielo era ancora nero come la pece, e se guardava verso est non scorgeva ancora nessun segno dell’alba. L’acqua divenne di nuovo profonda e lei si immerse stancamente, desiderosa soltanto di galleggiare per un po’.
Superò una curva stretta e trattenne il fiato quando vide aprirsi di fronte a lei la distesa nera come l’inchiostro del lago.
L’idea di raggiungerla così, nel cuore della notte, la spaventava a morte.
Eppure, era meglio dell’alternativa. Qualsiasi cosa sarebbe stata preferibile al beccarsi un proiettile perché Castle la voleva morta. Un uomo che pungolava la sua memoria ma rimaneva avvolto nelle ombre.
Rachel avanzò stancamente, provando a nuotare a dorso.
La scarica di adrenalina stava per esaurirsi e lo shock si stava attenuando. Aveva bisogno di raggiungere in fretta un posto sicuro, prima che svanisse completamente.
Rigirandosi, nuotò con un braccio tenendo l’altro vicino al corpo. Batteva i piedi con forza, ma le sembrava di essere sempre nello stesso punto.
Si concentrò, decisa a farcela, a mettere la maggior distanza possibile fra sé e i suoi inseguitori.
Completamente intorpidita, frastornata dalla spossatezza, proseguì tenendo lo sguardo fisso sul lago. In lontananza, le luci del ponte le facevano l’occhiolino, deridendola. Rachel fece una risata sarcastica. Quel maledetto ponte l’aveva quasi uccisa, e adesso la guardava da lontano, da una distanza che le sembrava impossibile coprire.
La casa di Sam si trovava prima del ponte. La sua proprietà arrivava fino al limitare dell’acqua. Avrebbe riconosciuto il suo molo al buio? Quanto distava l’abitazione dal ponte?
E quanto avrebbe dovuto nuotare ancora? Avrebbe dovuto superare due insenature? Tre? E poi, dove si trovava adesso?
Le onde le lambivano il viso e lei lottò per mantenere la testa alta. Stava resistendo appesa a un filo sottilissimo. Sarebbe stato più facile lasciare che l’acqua la inghiottisse.
Delle voci insidiose le mormoravano all’orecchio. Alcune la deridevano, le dicevano di arrendersi. Altre la incitavano. La sua famiglia aveva affrontato cose ben peggiori. Ethan e tutti i suoi fratelli erano stati colpiti da proiettili, feriti, avevano sfidato ogni difficoltà e lei non riusciva nemmeno a nuotare con un braccio rotto.
I commilitoni di Ethan si sarebbero fatti delle grosse risate.
In quel momento avrebbe voluto accanto un SEAL, magari tre. Per loro sarebbe stata una passeggiata.
Oh, dio, stava delirando.
Si rianimò quando si rese conto che mentre inseguiva quei pensieri ridicoli aveva fatto dei progressi. Se non altro, qualcosa stava lavorando in suo favore. Si stava muovendo con la corrente.
La sua priorità sarebbe stata trovare la casa di Sam. O una casa qualunque. Se avesse fallito, sarebbe andata verso il ponte, pregando di riuscire ad arrivarci.
Troppo stanca anche solo per abbozzare una nuotata, si girò sulla schiena e si lasciò portare dalla corrente.
Teneva il viso girato verso la riva ed esaminava la costa, cercando qualsiasi cosa le sembrasse familiare. Delle luci in lontananza attirarono la sua attenzione. Una casa? Più di una?
Nuotò goffamente verso la riva. Mentre si avvicinava, scorse nel buio il profilo di un molo. L’eccitazione cancellò leggermente il dolore. Non c’erano molti moli a causa dei regolamenti per le nuove costruzioni. Sam possedeva quella casa da anni.
Gli alluci strisciarono sul fondo e Rachel piantò i piedi sforzandosi di arrivare più vicino alla riva.
Due moli. Sam viveva accanto a qualcuno che ne possedeva uno?
Scosse la testa. Non le importava che fosse l’abitazione di Sam. Sperava soltanto che chiunque vivesse lì fosse in casa.
Scivolò sotto la superficie quando inciampò in un sasso. Ogni singolo movimento le provocava lacrime di dolore che le scorrevano lungo le guance. Alla fine decise di procedere strisciando nell’acqua bassa. Giunta al molo, con la mano sana avvolse l’altro braccio intorno a uno dei pali di legno.
Per parecchi minuti rimase con la fronte appoggiata sul legno e inspirò con dolorosi, corti respiri. Il braccio rotto era afflosciato lungo il suo corpo. Le faceva male al minimo movimento, e Rachel aveva voglia di urlare per il dolore e la frustrazione.
Servendosi del molo per sostenersi, avanzò rasentandone il fianco, finché non raggiunse la riva. Ogni passo richiedeva un monumentale sforzo di volontà. Dei gemiti animaleschi di dolore le sfuggivano dalle labbra, ma Rachel non se ne rese conto finché non iniziarono a rimbombare nel silenzio.
Si fermò sulla battigia e alzò lo sguardo sforzandosi di scorgere qualcosa nel buio. Non era l’abitazione di Sam e non c’era una sola luce accesa, dentro o fuori, a suggerire che ci fosse qualcuno in casa.
Mentre risaliva la pendenza, le gambe cedettero e Rachel cadde in ginocchio. La nausea salì velocemente, con prepotenza, finché non vomitò. Lottando per mantenere quel po’ di controllo che le era rimasto, piantò un pugno nella terra e si costrinse a rialzarsi.
Andò alla porta sul retro e la martellò di pugni con la mano sana. Attese a lungo, ma ci fu solo silenzio. Nessuna luce si accese.
Arrancò intorno alla casa fino alla porta principale. Suonò il campanello e tirò la maniglia. A quel punto non le interessava più che ci fosse qualcuno. Le serviva soltanto un telefono e un posto sicuro per nascondersi.
Quando il catenaccio non si spostò e nessuno venne alla porta, Rachel prese a ispezionare con lo sguardo il buio che la circondava. Una cassetta della posta. Se non altro le avrebbe detto dove si trovava.
Percorse il breve vialetto più velocemente che poté e sbirciò il lato della cassetta. Il suo cuore accelerò. Se i numeri erano corretti, quelli erano i vicini di Sam. La sua casa era a poco più di mezzo chilometro.
Con rinnovato vigore, Rachel si mise quasi a correre sulla strada dissestata. Sassi e pezzi d’asfalto le bucavano la pianta del piede nudo, ma lei ignorò il fastidio. In confronto alla sofferenza che le dilaniava il braccio, il resto era trascurabile.
Quando raggiunse la cassetta della posta di Sam, quasi svenne. Appoggiò la mano sulla scatola di metallo e ansimò. Le lacrime le pungevano le palpebre e chiuse gli occhi mentre lottava per trovare la forza di andare avanti.
Sembrava che le luci fossero accese in ogni stanza. C’era qualcuno in casa? Rachel si precipitò alla porta e quasi pianse di gioia quando la trovò aperta.
«Sam! Garrett!» urlò mentre se la richiudeva alle spalle.
Ma la accolse solo il silenzio.
Passò da una stanza all’altra ma non vi trovò nessuno. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato da quando lei ed Ethan erano stati spinti fuori strada. Probabilmente Sam e Garrett erano con lui. Oppure la stavano cercando.
La paura la travolse quando si rese conto che gli uomini che li avevano aggrediti dovevano per forza sapere dove fossero stati lei ed Ethan. Dovevano averli seguiti fino a casa di Sam e poi dovevano aver aspettato che se ne andassero. Il che significava che sarebbero potuti tornare.
Un’ondata di panico la travolse. Rachel corse da una stanza all’altra spegnendo tutte le luci finché l’intera casa non fu immersa nelle tenebre.
Un telefono. Le serviva un telefono.
Andò in cucina e strappò il cordless dal caricatore, poi scese nel seminterrato. C’erano molti posti in cui poteva nascondersi e guadagnare tempo nel caso in cui i suoi inseguitori fossero tornati.
Quando trovò l’angolo più nascosto del minuscolo ripostiglio che ospitava la caldaia, crollò sul pavimento e chiamò il 911.