Capitolo 20

Maggie

U
na settimana vola via in un batter d’occhio.

Il minuto prima mi sto facendo il culo coi turni extra, mi sforzo a mettere a posto la casa per Pike, per rendergli il lavoro il più possibile facile, quello successivo sto salendo su un aereo per Stoccolma.

In prima classe!

Ho perfino il mio letto e tutto il resto. È quasi meglio di quello che ho a casa. E ho anche il mio maggiordomo personale, proprio come Viktor.

Okay, è vero che gli assistenti di volo non sono camerieri, ma di fatto qui ti portano champagne e qualsiasi altra cosa chiedi, prima ancora che l’aereo decolli.

Provo una acuta fitta di rimorso per il fatto che mentre io faccio questa cosa i ragazzi sgobbano a scuola, ma il senso di colpa scompare quando realizzo che loro faranno altrettanto, anche se in pullman, tra due settimane. Fino ad allora io sarò da sola con Viktor in Svezia.

Lui ha detto che farà del suo meglio per proteggermi dal mondo. Sembra una cosa un po’ romantica, questa di essere tenuta nascosta come una concubina. Ha detto che le uniche persone che lo sapranno sono il suo segretario personale Freddie, il suo maggiordomo e poche guardie del corpo. In seguito mi presenterà al resto della famiglia, ma è sembrato piuttosto irremovibile sul fatto di mantenere il segreto, all’inizio.

Non mi importa. Ho menzionato il fatto che Meghan Markle e il principe Harry si sono frequentati per mesi, prima che lo stesso principe William lo scoprisse. Se loro ce l’hanno fatta possiamo farlo anche noi. Detto questo, è pur vero che saremo tutti e due a Stoccolma, non in un campo safari da qualche parte in mezzo al nulla, e diventerà tutto ancora più complicato una volta che arrivano i ragazzi, ma ce ne preoccuperemo quando sarà il momento.

Quello che conta ora è che ho preso una decisione e sto partendo.

Per la Svezia, cazzo!

Terra dell’acquavite e degli alci, di Ikea e degli abba, della Volvo e della copertura sanitaria universale!

Ci sono mille altre cose per cui essere emozionata, ma mentre l’aereo decolla e la rampa dell’aeroporto di Los Angeles si allontana sotto di me, vengo assalita da qualche preoccupazione. La più grande riguarda il mio lavoro. A Juanita sarebbe andato bene se mi fossi presa due settimane di ferie, ma più di un mese? Tutt’altra storia.

Siamo rimaste in rapporti amichevoli, anche se lei pensa che sia stata pazza a fare un passo del genere, e mi ha detto che mi avrebbe ridato il mio posto una volta tornata, ma la verità è che fino ad allora sono fuori.

In altre parole, ho lasciato il mio impiego per Viktor.

Ora, io so che Viktor mi ha detto più volte che si sarebbe preso cura di me e so anche che ho dei risparmi che possono sostenerci tutti se verrà fuori che devo cercarmi un altro lavoro (chiaramente quei risparmi li devo a Viktor), ma ciò non toglie che io stia facendo una cosa abbastanza da irresponsa-
bili.

Neppure Annette e Sam pensano che sia una buona idea. Cioè, tutte e due ritengono che sia romantico e che sarà una cosa stupenda per i ragazzi fare per la prima volta un viaggio, specialmente dal momento che verranno trattati come reali. Ma per questo motivo ho effettivamente rinunciato al mio lavoro, il che è un passo enorme. E sebbene io ami Viktor alla follia, non c’è al momento alcuna garanzia nella nostra relazione. È tutto così nuovo.

E anche questo per me è un cruccio. Al momento il piano è che tornerò in America con i ragazzi, anche se Viktor ha detto che deve ancora comprarmi il biglietto di ritorno. Pensa di potermi far cambiare idea. Pensa che possa decidere di restare. Dice che sarà la sua missione del prossimo mese, convincermi a restare.

Ma come ha detto Sam al telefono, come andrà a finire questa cosa? Che prospettive ci sono? Non posso semplicemente trasferirmi in Svezia, ho dei bambini di cui devo prendermi cura e una vita a Tehachapi. E anche se restassi, che succederebbe? Me la sento di rischiare tutto, e intendo dire assolutamente tutto e tutti, per amore?

Immagino che la risposta per il momento sia sì. Lasciare il lavoro, di cui avevo bisogno, per un uomo, è una cosa che la vecchia Maggie non avrebbe mai fatto, ma a quanto pare la nuova Maggie di questi tempi sta buttando ogni prudenza dalla finestra, in cambio della possibilità di continuare a fare del buon sesso.

Del buon sesso con un principe.

Buon sesso con un uomo che amo.

Forse per questo valeva la pena licenziarmi.

Per le restanti tredici ore di volo riesco a non arrovellarmi troppo, perché l’assistente di volo pensa che sia super nervosa e quindi continua a portarmi alcolici. Mi metto a guardare dei film e dopo un po’, quando le luci in cabina si abbassano, mi addormento definitivamente.

Quando mi sveglio stanno servendo la colazione e prima che me ne renda conto l’aereo sta atterrando all’aeroporto Arlanda di Stoccolma.

Guardo fuori dal finestrino in cerca dei primi scorci su quel nuovo paese e i miei occhi annebbiati restano abbagliati da tutto quel bianco.

Neve.

Nient’altro che neve.

Tanto che la rampa che si avvicina velocemente all’aereo sembra proprio una pista di pattinaggio su ghiaccio.

Oh mio Dio, moriremo tutti.

Hanno dimenticato di spazzare la rampa!

Mi guardo attorno frenetica per vedere se c’è qualcun altro in posizione d’emergenza, pronto allo schianto, ma sembrano tutti perfettamente calmi.

Atterriamo senza incidenti. Non ho idea di che razza di gomme da neve monti quest’affare.

Poco dopo esco dal velivolo e mi ritrovo in questo aeroporto, davvero pulito e moderno, e realizzo finalmente che…

sono arrivata in svezia!

Le scritte sono in svedese, la gente parla in svedese, e tutti sembrano top model o i cattivi di un film con James Bond, e improvvisamente mi sento così stanca, in preda al jetlag e sopraffatta dalla contentezza.

Ma anche spaventata. Vorrei aver fatto questo viaggio insieme a Viktor quando lui è ripartito, o che fosse rimasto a Tehachapi con me, anche se so che non avrebbe potuto trovare il tempo.

Arrivo al controllo passaporti e consegno il mio a un uomo molto poco sorridente.

«Cosa la porta in Svezia?», mi domanda.

Oh, merda. Non posso dire che andrò dal principe. È tutto top secret.

«Devo fare visita a un amico».

Guarda qualcuno in fila dietro di me, come se volesse ucciderlo. «Come si chiama il suo amico?».

Cosa?

«Ehm, Johan Andersson».

«Dove vive?»

«A Stoccolma».

«A quale indirizzo?»

«Perché, mi volete controllare?», tento di scherzare.

Mi inchioda con i suoi occhi serissimi. «Qual è l’indirizzo di Johan Andersson?».

Oh, cazzo. Qui la gente non scherza.

«È 110… Skarsgård».

Quello socchiude gli occhi e mi studia per qualche secondo.

Trattengo il fiato.

Quanto è evidente che me lo sono appena inventato?

«Come ha conosciuto Johan Andersson?»

«Ha soggiornato nel mio albergo».

«Come dice?»

«L’ho conosciuto in California, in un albergo. Siamo andati a Disneyland. Io mi sono innamorata ed eccomi qui». Sorrido, un po’ imbarazzata. «Ta-da!».

Scuote la testa, mette il timbro sulla pagina e mi restituisce sbrigativamente il passaporto. «Buona giornata a lei».

Lo riprendo in tutta fretta e proseguo velocemente. Santo cielo, che scopa in culo.

Ora che ho superato il controllo passaporti ci sono altre cose di cui preoccuparmi.

E se non fosse venuto nessuno a prendermi? E se devo prendere un taxi, e Viktor mi ha avvertito sui taxi, ma cos’è che mi ha detto esattamente?

Mentre rifletto su tutto questo recupero il mio bagaglio dal nastro trasportatore, passo attraverso la dogana e arrivo alla parte del terminal degli arrivi.

È allora che vedo un volto familiare.

«Nick!», esclamo quando vedo l’uomo dal naso a becco con un cartello in mano che dice “McPherson”.

«Miss McPherson», risponde lui con aria decisamente riservata, o forse comincio a pensare che è così che sono fatti tutti gli svedesi. «Da questa parte».

È vestito di nero come tutti gli autisti di limousine, quasi facciano tutti parte dello stesso esercito segreto, ma solo Nick cammina come se mi stesse accompagnando in caserma.

La sensazione è quella, anche perché, porco cazzo, non appena esco all’aperto mi rendo conto di quanto sia vestita leggera. Viktor mi ha detto di portarmi il cappotto più caldo, e anche se Tehachapi viene soprannominata la Città delle Quattro Stagioni (il che probabilmente fuori dalla California non ha molto senso), a quanto pare il mio cappotto più pesante non è all’altezza.

Fa più freddo che a New York d’inverno.

Più della tetta di una strega.

Più delle dita dei piedi di un orso.

Fa un cazzo di freddo.

Tremando mi abbottono alla svelta il mio schifoso cappotto e seguo Nick fino al parcheggio, superando una lunga fila di persone che aspettano il loro taxi, e nessuno di loro sembra infreddolito come me, tutt’altro. Li maledico istantaneamente e il vento aumenta come in risposta, spruzzandomi la neve in faccia.

Per fortuna non ci vuole molto prima di salire sul sedile di dietro di quella che sembra la versione extralusso di una macchina a noleggio. Qui dentro fa caldo e in un attimo siamo sull’autostrada, che sembra ancora più ingombra di neve della pista dell’aeroporto, senonché ogni macchina sfreccia alla massima velocità. Rallentiamo solamente quando la visibilità è così bassa che davanti a noi tutto diventa un muro bianco, e anche allora siamo comunque sopra gli ottanta all’ora.

«È sempre così, ehm, nevoso?», domando a Nick.

«Non sempre, a novembre, ma quest’anno l’inverno è cominciato prima».

Oh, perfetto. Non riesco più a vedere niente fuori dal finestrino, cosa che mi mette ansia, quindi mi rilasso sul sedile, lascio che il calore del riscaldamento mi sommerga finché il jetlag mi si deposita nelle ossa, e dopo un po’ Nick mi scuote la gamba.

«Siamo arrivati», dice.

Lentamente mi tiro su e mi guardo attorno. Sono sempre in macchina. Fuori è tutto bianco.

Esce e apre la portiera posteriore, e una folata di aria sorprendentemente fredda penetra nell’abitacolo e mi colpisce in faccia. Nick ha un ombrello che tiene aperto sopra la mia testa, anche se la neve sembra arrivare da tutte le parti, e mi aiuta a uscire.

«Questa è l’entrata posteriore della tenuta», mi spiega; io guardo oltre la macchina e vedo l’alto edificio a tre piani che sembra confondersi fin troppo bene con la neve. «Quello è Bodi, le preparerà ogni cosa».

Un uomo esce in fretta dalla porta posteriore e prende la mia valigia dal bagagliaio. Ho già sentito parlare di Bodi il maggiordomo, ma per qualche maniera me lo immaginavo vestito, insomma, da maggiordomo. Suppongo sia solo uno stereotipo, come se io al lavoro indossassi una divisa da cameriera francese.

Bodi perde un po’ i capelli, ma ha una selvaggia chioma rossa e brillanti occhi color smeraldo che fanno pendant con il suo abito di velluto verde.

«Benvenuta, miss McPherson», mi saluta indicando la porta. «Prego, mi segua all’interno».

Guardo Nick mentre i fiocchi di neve si accumulano sui suoi capelli. Anche se qui è pomeriggio il paesaggio sembra scurirsi e c’è un bagliore grigio-blu che ricopre il terreno.

«Dov’è Viktor?», domando a Nick. Pensavo che sarebbe uscito di casa insieme a Bodi.

«Tornerà più tardi», risponde, poi rientra in macchina, le ruote slittano per un attimo sulla neve e poi il veicolo si allontana sbandando.

«Miss», mi sprona Bodi sulla soglia.

Annuisco e vado verso di lui, quasi scivolo per due volte sulla neve prima di arrivare alla porta.

«Spiacente», mi fa indicando alle mie spalle. «In genere il percorso viene spalato. So che Sua Altezza Reale vuole che sia installato un viale riscaldato, ma questo posto è molto vecchio».

Alzo una mano per liquidare la cosa, non voglio farne una questione. Chi cavolo penserei di essere altrimenti, una ragazza povera che si presenta al palazzo reale e dà in escandescenze perché il viale non è stato spalato!

E poi mi fa un po’ ridere che abbia detto «Sua Altezza Reale vuole questo», come se fosse sarcastico ma invece non lo è per niente. Perché stava parlando della madre di Viktor. Posso anche non aver mai chiamato Viktor se non Viktor, ma non posso andare da sua madre e uscirmene con «Ehilà, come butta, signora N, che si dice?».

Pensa se fossi sposata con Viktor, mi dico mentre Bodi mi conduce in quello che sembra un gigantesco ripostiglio. Dovrei chiamare mia suocera Sua Altezza? Non mi pare corretto.

Ma mi tolgo subito dalla testa quel pensiero perché anche se sto seguendo un maggiordomo attraverso un palazzo svedese, dato che frequento il principe, quel tipo di preoccupazioni sembrano alquanto remote.

In fondo abbiamo soltanto passato una settimana insieme in California.

Ma che succede se passiamo un mese insieme in Svezia?

Per certi versi il palazzo è esattamente come me lo aspettavo. Quando si pensa a un palazzo uno si immagina carte da parati a strisce, alti soffitti con modanature riccamente decorate. Si pensa a eleganti tavoli d’antiquariato, statue e grandi dipinti a olio con le cornici dorate appesi alle pareti. O poltrone e sedie di velluto, più o meno come quello del vestito di Bodi, e una profusione di seta, stoffe e cuoio. Tutte queste cose riempiono infatti le tante stanze del palazzo.

Manca quel tocco scandinavo che io credevo di trovare qui, come uno showroom di Ikea sotto steroidi, ma sinceramente sono così stupefatta e affascinata dal palazzo che non mi importa.

È come un sogno che diventa realtà.

«Questa è la sua stanza», mi dice Bodi aprendo una porta.

E io resto senza fiato.

Non solo perché sono appena salita per tre piani facendo scale molto ripide.

L’ambiente occupa l’intera torre più alta del palazzo e i soffitti sono alti almeno quattro metri e mezzo. C’è un enorme letto a baldacchino, una piccola zona giorno da una parte con un televisore widescreen, nell’altro lato una scrivania vicino alla finestra che deve dare sul davanti del palazzo, un mobile bar, una porta che immagino conduca al bagno, armadi e altre cose.

«Questa è la mia stanza?»

«Questa è la stanza di Sua Altezza il principe», spiega Bodi, e giurerei che mi abbia fatto l’occhiolino. Porta dentro la mia valigia e la deposita sul portapacchi già sistemato per l’occasione. «Si senta libera di esplorare la casa. Se le porte sono chiuse probabilmente è perché le stanze appartengono a qualcuno dello staff. Le suggerisco di fare una passeggiata nel parco e in giro per i terreni, ma non col clima di oggi». Accenna al bianco indistinto fuori dalla finestra. «Magari più in là questa settimana».

Mi rivolge un lieve inchino e si gira per andarsene.

«Un momento», lo richiamo io. «Quando torna Viktor?»

«Difficile dirlo», risponde sollevando un sopracciglio. Probabilmente non è abituato a sentirlo chiamare Viktor. «Deve tenere un discorso a una delle università, questo pomeriggio, e credo che sarà a Palazzo Drottningholm per cena. È dove risiedono il re e la regina». Si ferma sulla soglia. «Lei pensi solo a rilassarsi e ad ambientarsi. Se ha fame o ha bisogno di me per qualsiasi cosa, basta suonare questo campanello e io arriverò subito». Tocca un interruttore vicino alla porta. «Oh, e cerchi di non addormentarsi fino a un’ora ragionevole. Altrimenti non farà altro che peggiorare il jetlag».

«Okay. Grazie», rispondo a bassa voce chiudendo la porta dopo che se n’è andato.

Porco cazzo.

Quindi Viktor ha questo Bodi a sua completa disposizione che può chiamare ventiquattro ore su ventiquattro? Voglio dire, capisco che è quel che fanno i maggiordomi, ma non ne avevo mai visto uno dal vero prima. Né ne avevo sentito parlare. Cioè, le celebrità a Los Angeles hanno il maggiordomo? E i Kardashian?

Per giunta, Bodi sembra ben disposto a servire. Dà l’idea di amare il suo lavoro. In realtà mi fa provare vergogna per non provare il minimo orgoglio per quello che faccio per lavoro. Certo, nessun altro guarda con simpatia a camerie-
ri e domestici, ma questo non significa che non dovrei far-
lo io.

Quello che facevi per lavoro. Ricordati che ti sei licenziata. Usa il passato.

Merda. Stupida voce.

A questo punto mi arriva addosso un’ondata di nausea e la stanza comincia a girare. Improvvisamente non mi sembra giusto che debba stare ancora sveglia.

Però mi faccio forza, determinata a superare il jetlag. Ripongo tutti i vestiti nella cassettiera e nello spazio dell’armadio che chiaramente Viktor ha liberato per me. Poi sistemo tutte le mie cose da toilette nel bagno e mi faccio una lunga doccia calda, cosa che mi fa sentire un pochino meglio.

La cosa strana è che non ho per niente fame. Vado alla finestra e passo alcuni minuti a guardare di fuori, cercando di capire se riesco a scorgere qualcosa attraverso la neve che vortica e la luce che si affievolisce, o se sono solo i miei occhi che mi ingannano.

Abbasso lo sguardo sulla sua scrivania. C’è un blocco di fogli, insieme a una penna e a un sacchetto di…

Lo prendo e lo annuso.

Mi si scioglie il cuore.

Lavanda. È lavanda.

Aveva davvero profumato le lettere.

Mi permetto per un attimo di sentirmi estasiata, perché insomma, wow.

Viktor è uno che fa sul serio.

Sospiro di contentezza, poi faccio uno di quei movimenti assolutamente da principessa Disney, una piroetta sorridente e svolazzante in mezzo alla stanza, e mi butto sul letto.

Nel momento in cui la coperta soffice tocca la mia guancia capisco che è stata una brutta mossa.

Il sonno mi salta addosso come una bestia feroce e poi…

Crollo.

 

«Maggie?», sento una voce fluttuare nei miei sogni.

Apro gli occhi nel buio.

Un fascio di luce mi trafigge la visione come una spada.

Poi si spegne.

Mi spengo anche io.

Un’altra luce sfarfalla dietro le palpebre.

Riapro gli occhi e vedo Viktor in piedi accanto al letto, ha acceso la lampada sul comodino, i pantaloni sbottonati, e si sta slacciando la cravatta. Gli scorre tra le dita con uno schiocco secco che mi arriva alle orecchie, rimbombando in questa stanza enorme.

«Non volevo svegliarti», mi dice con voce morbida. «Mi spiace di non esser rincasato prima».

Mormoro qualcosa tipo «Niente mucche sul ghiaccio», ma le parole mi escono in un sussurro ingarbugliato. Mi schiarisco la voce e cerco di sollevarmi sui gomiti, gli occhi mezzi chiusi e i capelli arruffati. Ho ancora i vestiti addosso.

«Che ore sono?», bisbiglio con la voce roca. Ho bisogno di acqua.

«Sono appena passate le dieci. Di sera. Ti porto l’acqua. Vuoi qualcosa da mangiare?».

Continuo a non avere fame. Voglio solo tornare a dormire.

«L’acqua va bene», riesco a dire.

Mi rivolge un sorriso caloroso e va in bagno. Sento il rubinetto che scorre e poggio di nuovo la testa sul letto.

«Ecco», dice, e a un tratto è seduto al mio fianco, con un bicchiere in mano.

Cerco di tirarmi su, non tanto quanto prima, e lo prendo, lo vuoto in tre grosse sorsate e alla fine tossisco violentemente.

«Piano, Maggie», mi dice riprendendo il bicchiere. «Te ne porto un altro. Ti offrirei del vino rosso o del brandy, ma non credo tu abbia bisogno di niente».

«No», dico agguantandolo. Mi ci vuole qualche istante per rendermi conto che adesso è senza vestiti, indossa solamente i pantaloni del pigiama e nient’altro. Stringo le dita attorno al tessuto. «Per favore resta. Non mi sento… bene».

Una bassa risata. «Il jetlag è un bastardo, come dicono tutti. Mi ci vogliono sempre un paio di giorni per riprendermi quando torno a casa. Può essere davvero pesante. Hai preso della melatonina?».

Scuoto la testa. Me l’aveva detto, ma non credevo fosse necessario. Pensavo che il jetlag fosse quello che ho provato quando ho fatto il viaggio dalla California a New York. Ma questo è tutt’altra razza. Mi fa sentire come se avessi i postumi di qualche droga parecchio strana, e non di quelli buoni, del tipo che ci vogliono giorni prima che se ne vada.

Mi accarezza la testa e io ricado nel letto. «Pensa solo a dormire, Maggie. Domani è un altro giorno. Un giorno migliore. Io sarò qui in mattinata».

«E dove vai?», gli chiedo, afferrandolo di nuovo, con più forza.

«A una serata di gala».

Lo guardo e strizzo gli occhi. È sempre il mio Viktor, più bello che mai. Il jetlag non cambia questo fatto. «Okay».

«Ovviamente ti inviterei, ma…»

«Ma io sono un segreto».

«È meglio così, fidati, ti prego».

Sospiro e affondo la faccia nelle coperte. «Ti credo. È la questione Meghan e Harry».

«Non capisci. Voglio passare del tempo da solo con te. Non voglio doverti dividere. È tutto così nuovo per noi e il tempo insieme, il nostro tempo, è fondamentale».

Sorrido con gli occhi chiusi. «Lo capisco».

Capisco davvero. Riesco a sentire ogni singola parola che gli esce dalle labbra, il modo in cui irradiano dal suo cuore.

Mi accorgo che si sdraia accanto a me e quando apro gli occhi il suo viso è di fronte al mio, la guancia appoggiata al copriletto. «Ascolta, Maggie, ti ho fatto venire qui perché è qui che ti voglio, ho bisogno che tu ci sia, e farò quello che posso perché ne valga la pena per te. Qualunque stupida cosa abbia organizzato, qualsiasi impegno che non sia importante io lo cancellerò per te. Se c’è un evento a cui potrò evitare di andare, lo disdirò. Resterò a casa. Dirò alla gente che ho la febbre, non lo so. Ma farò tutto quel che posso per assicurarmi che le prossime due settimane e quelle dopo, con la tua famiglia, siano tutte concentrate su di te. Sarò qui al tuo fianco, per quanto potrò. Come Viktor, non come un principe. Come tuo amico, tuo amante, il tuo uomo. Capisci?»

«Sì. Erano un sacco di parole che mi volavano in testa, ma capisco», mormoro contro le coperte, gli occhi che stentano a metterlo a fuoco. Sorrido e allungo una mano alla cintura del pigiama, la faccio correre lungo la superficie soda della sua pancia, lungo la morbida linea di peli. «Tu capisci questo?».

Mi sorride, quello stesso maledetto sorriso che mi prende sempre alla sprovvista e libera tutte le volte le farfalle nel mio stomaco. «Capisco molto bene. Ma tu hai bisogno di dormire, mia cara».

Si avvicina, tira indietro le coperte e mi mette le mani sotto le braccia, praticamente sollevandomi finché non mi ritrovo nella posizione corretta.

A quel punto comincia a spogliarmi. Jeans, maglione, camicia. Reggiseno. Resto solo con le mutandine e una parte di me si chiede se ho un cattivo odore, poi ricordo di essermi fatta la doccia. I capelli devono essere un completo disastro ora, non ho avuto modo di pettinarli.

«Dormi bene», mi dice rimboccandomi le coperte «Ti vedrò domani mattina». Fa una pausa. «Se ti svegli nel cuore della notte sentiti libera di guardare la tv o fare quello che vuoi. Io riesco a dormire in qualsiasi condizione».

Non ho neppure il tempo di pensare a quel che ha detto, ripiombo immediatamente nel sonno.