Capitolo 5

Maggie

«Andiamo a fargli visita?», chiede lo svedese sorpreso, quando io prendo la strada piena di buche che forse conduce ad April.

Dovrei sentirmi in colpa, visto che non solo sto rimandando il momento in cui lo lascerò andare ma in un certo senso lo coinvolgo anche nei miei problemi; il fatto è che mi sento più sicura con lui a bordo. Il cosiddetto ragazzo di April, uno che tutti chiamano Tito, non è alto ma è robusto e cattivo. Un’altra Colt 45 e vince un tatuaggio gratis in faccia.

«Voglio solo vedere se lei è là. Ci metterò un minuto».

Passa qualche secondo e io mi rendo conto che sta rimuginando sulla cosa. Alla fine chiede a bassa voce: «Che ne pensano i tuoi genitori di questa storia?».

Mi irrigidisco. Eccola, quella cazzo di domanda.

Ma naturalmente non sta insinuando niente di male. Proprio come tutti gli altri.

Eppure questa domanda riesce sempre a mandarmi nel panico.

«Sono morti», rispondo senza giri di parole. Non ha senso ammorbidire il colpo. Più lo fai più ti trattano come se fossi un bambino. Una specie di fragile fiocco di neve che sta per squagliarsi. A volte lo sono, ma non oggi.

«Mi dispiace per la tua perdita», commenta.

E non dice altro.

Nella sua voce c’è un peso e una solennità che mi fanno capire che comprende, e se anche non è così, almeno si prende la briga di provarci. Ma la semplicità della sua risposta è liberatoria. Non devo spiegare nulla.

Proseguiamo in silenzio per qualche minuto, e il mio cervello salta da un pensiero all’altro. Cosa farò una volta arrivata, busserò alla porta o mi fermerò là davanti, seduta al volante, solo per aspettare e vedere? Cosa dirò ad April? Sarò calma e decisa, trasudando delusione, cosa in cui era bravissimo mio padre? O urlerò e darò in escandescenze come avrebbe fatto mia madre quando perdeva le staffe?

Poi la mia mente si concentra su di lui, questo stupendo esemplare d’uomo seduto nella mia macchina che riempie lo spazio con la sua energia calma, gli occhi indagatori e quel-
la presenza forte e capace. Non dovrei sentirmi tanto a mio agio con qualcuno che non conosco per niente, e invece è
così.

Forse però a mio agio non è l’espressione più adatta. Non sono esattamente rilassata vicino a lui. Ho le pulsazioni accelerate, mi sento le guance calde e la pelle formicola come se ci fosse elettricità nell’aria. C’è tensione tra noi, magari esiste solo nella mia testa, ma esiste comunque. Non ho questa sensazione di tira e molla nei confronti di qualcuno da… be’, non l’ho mai sentita. Non così.

Sei una ragazza davvero triste, mi dico. Questo qui non è soltanto di passaggio durante le sue vacanze, è anche decisamente fuori dalla tua portata e decisamente troppo buono per te.

Merda. La verità fa male.

Per un attimo mi sono dimenticata chi sono.

Rallento avvicinandomi alla casa senza neppure accorgermene.

Tito vive in una palazzina a due piani, di un azzurro scolorito dal sole, annidata in una macchia di pini morti. Il viale è disseminato di rottami di macchine, una vecchia station wagon e mucchi di sacchi della spazzatura. Ci sono pezzi di vetro a luccicare nell’erba troppo alta lungo il vialetto di ghiaia che conduce all’ingresso.

«È qui?», mormora lo svedese mentre io fermo la macchina. Non mi viene da pensare a lui come Johan. Chissà perché non mi sembra adatto a lui. «Non mi pare il posto giusto dove crescere dei bambini».

Gli rivolgo un sorriso amaro. «Ha diciannove anni. Vive qui con un mucchio di altri sfigati».

«Non è illegale? Tua sorella ha quattordici anni, giusto?»

«Già. È illegale se… non voglio pensarci». Con un sospiro chiudo gli occhi per un istante, perché c’è un’onda di emozioni dentro di me che sta montando e so che sto per sfogarla su di lui. Non dovrei. Proprio non dovrei. Lui vuole solo tornare in albergo, alla sua casa e al suo paese.

E invece…

«La verità è che proprio non so più cosa fare», dico scuotendo la testa, e a quel punto esce tutto fuori. «E mi sento come se fosse in gran parte colpa mia. Subito dopo aver finito la scuola e aver messo da parte abbastanza soldi per andarmene da questa fogna, l’ho fatto. Sono partita e basta, senza guardarmi indietro. In quegli anni in cui stavo a New York… tra parentesi, vivevo a New York, studiavo all’università, è come se avessi dimenticato da dove venivo. Sono stata una pessima sorella. Una pessima figlia».

Oh, merda, adesso mi metterò a piangere? Guardo il tettuccio del furgone e chiudo gli occhi per cacciare indietro le lacrime. «Non mi facevo sentire molto con la mia famiglia. Non quanto avrei dovuto. Ero così immersa nella mia nuova vita, a cercare di essere la persona che ho sempre sognato di diventare. Non avevo idea di quel che succedeva a casa. La distanza tra me e April si è accentuata. Non ho più saputo chi lei fosse o chi stesse diventando. Poi, quando i miei sono morti e io sono tornata qui, mi sono ritrovata a forza dentro questa… questa famiglia che era la mia e al tempo stesso non lo era più. E stiamo male, sai? Stiamo tutti male e siamo tristi, stiamo ancora raccogliendo i pezzi e nonostante questo non facciamo che allontanarci sempre più gli uni dagli altri. Adesso guardo April e non vedo mia sorella, vedo un’estranea. E lei mi odia».

Mi fermo a riprendere fiato. Il cuore mi romba nel petto ancora più forte di prima. Nell’abitacolo c’è silenzio, a parte il ticchettio del motore. Lancio un’occhiata allo svedese.

Mi sta guardando con quella calma intensità negli occhi, e c’è comprensione nel suo essere accigliato. «A me sembra che tu stia facendo del tuo meglio», dice, e benché la sua voce sia morbida, essa contiene un rombo basso e profondo che riesco a sentire nelle ossa. «Non dovresti essere così dura con te stessa».

Potrebbe aver ragione. Ma se non sono dura con me stessa come potrò mai migliorare? Migliorare? Devo essere dura con me stessa per crescere. Ho la responsabilità di questa famiglia, adesso, e fallire… non è un’opzione.

Apro la bocca per dirglielo ma un movimento vicino alla casa attira il mio sguardo.

Allungo il collo per guardare oltre lui e vedo la porta d’ingresso aprirsi e April uscire camminando verso la station wagon. Ha i capelli neri davanti al viso e indossa gli stessi jeans e cardigan che le ho visto addosso ieri, le Converse sporche ai piedi.

«Eccola», dico, e prima di rendermene conto sono fuori dal furgone e attraverso la strada a grandi passi per andare da lei. Spero che lo svedese abbia abbastanza presenza di spirito da restare in macchina mentre mi occupo di questa faccenda.

«April», abbaio capendo subito che non assumerò il ruolo di mio padre, fatto di calmo disappunto, ma quello vulcanico di mia madre.

Per la sorpresa lei sussulta e fa un passo indietro, fermandosi accanto a dei cocci di bottiglie di birra. «Che ci fai tu qui?», domanda, e io vedo il suo sguardo che passa da scioccato ad arrabbiato. È arrabbiata perché mi sono intromessa in quella parte della sua vita, e per il fatto che io ho l’ardire di comportarmi come se fosse mia figlia.

«Non sei tornata a casa stanotte», le dico facendo del mio meglio per mantenere calma la mia voce, per tenere a bada le emozioni.

Pensa come papà, pensa come papà.

«E allora?», risponde in tono di sfida. Si porta le mani ai fianchi e sposta i capelli dietro la spalla.

Non sarà per niente facile.

«E allora per prima cosa ci siamo preoccupati. E in secondo luogo, che cosa ci fai qui? Sai bene che non puoi passare fuori la notte senza dirmelo prima, specialmente non qui!».

«Se te lo avessi detto non me lo avresti permesso».

«Certo. Nessuno sano di mente lo avrebbe fatto», replico avvicinandomi e prendendola per un braccio. «Adesso però tu vieni a casa con me».

«Col cavolo», ribatte liberandosi dalla presa e piantandomi addosso il suo sguardo più acido e ostile, quello che più di tutti mi dice quanto mi odia. «Non puoi costringermi».

La porta di casa si apre e Tito esce dirigendosi subito verso di me. Dall’arroganza e la spavalderia con cui cammina è chiaro che sta per arrabbiarsi con me. «Che cazzo sta succedendo? Cazzo, Maggie McPherson. Ti trovo bene».

«Sì, ciao Tito. Stavo solo riportando a casa mia sorella quattordicenne», rispondo allungando di nuovo la mano per affer-
rarla.

«Vaffanculo», esclama April riparandosi dietro Tito. «Stiamo andando al centro commerciale».

«Centro commerciale?», ripeto io. «Quale centro commerciale? Non c’è nessun dannato centro commerciale in questa città».

«C’è a Bako», replica Tito facendo un passo verso di me. «April vorrebbe qualche vestito nuovo per scuola. Lo sapevi che la trattano tutti male per via dei vestiti di merda con cui la fai andare in giro?»

«Io non la faccio andare in giro in nessun modo!». Ma che cazzo. Guardo April. «Chi ti tratta male?».

Lei scrolla le spalle. «Sono stufa di indossare roba di seconda mano. Tito mi comprerà un guardaroba nuovo».

«Certo, come no, e tu cosa gli dai in cambio?»

«Vaffanculo», protesta April.

Sto per rispondere “vaffanculo tu” ma non posso, proprio non posso. Devo resistere e fare quella saggia, quella matura, la tutrice, la genitrice. Che cazzo, andrebbe bene anche solo la sorella maggiore.

Indico con la testa il furgone. «Per favore, April. Andiamo».

«Lei non viene», dice Tito mettendomi una mano sulla spalla e spingendo fino a farmi fare un passo indietro. «Cazzo, mica sei sua madre».

Questo non dovrebbe ferirmi, invece è così. Al punto che dimentico di spaventarmi per il fatto che quello stronzo mi ha messo le mani addosso.

«Sono la sua responsabile legale». Le parole mi escono a fatica, lotto per tenere a freno le lacrime. «Lei viene con me».

«Va’ a casa, Maggie», mi fa April, ma ora il suo tono di voce è basso e incerto. Anzi, sembra un po’ spaventata finché non si rimette i capelli davanti alla faccia, nascondendola.

«Già, tornatene a casa, stronzetta», esclama Tito facendomisi sotto. Puzza di erba, ha gli occhi iniettati di sangue, la fronte è pallida e sudata. Non fa niente se devo chiamare la polizia, non lascerò mia sorella con lui. Mi potrà odiare per il resto della mia vita, ma non cederò di un passo.

«Va tutto bene, Maggie?», sento dire una voce dietro di me, al che lo stomaco mi si annoda. Mi guardo indietro e vedo lo svedese che si avvicina velocemente. E malgrado la sua figura così magnificamente alta da essere imperiosa gli conferisca quasi l’aspetto di un cavaliere dall’armatura scintillante, so che le cose non si stanno mettendo per niente bene.

«Ma che cazzo?», ringhia Tito squadrando lo sconosciuto. «Questo chi cazzo è?»

«Un amico», risponde lo svedese inclinando la testa; si ferma accanto a me e osserva Tito come se fosse un animale allo zoo. «E tu saresti?»

«Fottiti», risponde Tito, anche se io colgo una nota di esitazione nella sua voce. Lo svedese si fa avanti torreggiando su di lui e anche se Tito è un fascio di muscoli, so per esperienza diretta che lo è anche lo svedese.

«Non sei molto educato», ribatte lo svedese fingendo di pulirsi la saliva di Tito dalla faccia.

«Chi è questo?», sibila April guardandolo da capo a piedi.

«Lui è il signor Sverige», rispondo; cazzo, nella frenesia mi sono dimenticata il suo vero nome. «Un mio amico».

Averlo al fianco adesso mi dà il coraggio di girare attorno a Tito per afferrare di nuovo April.

Lei indietreggia ma vedo tornare la paura sul suo viso, come se fosse in balìa di se stessa, e adesso Tito fa un passo di lato, bloccandomi la vista, e la sua mano carnosa e sporca mi colpisce alla spalla spintonandomi indietro.

«Lei non vuole to…».

Prima che Tito possa finire la frase, lo svedese piazza le mani sulla spalla di Tito e lo spinge via. È una spinta così forte che quello inciampa e per poco non cade a terra.

«Cazzo!», urla Tito aprendo le braccia e una finisce contro il petto di April, che perde l’equilibrio.

Lei cade con un urlo e io mi precipito su mia sorella proprio mentre Tito si lancia contro lo svedese.

«Stronzo!», ruggisce Tito che, a braccia aperte, cerca di colpire lo svedese di testa, ma lui è veloce e scarta di lato senza sforzo. Solo che invece di evitare il contatto cala il gomito sulla nuca di Tito, che crolla immediatamente a terra.

«Oh mio Dio», esclamo, e lo svedese mi guarda col fiato corto e con l’aria un po’ colpevole. «Ma è…?».

La mia domanda trova risposta ancora prima che riesca a finirla.

Come Terminator, Tito torna in piedi in un attimo davanti ai miei occhi. Lo svedese ha appena il tempo di voltarsi prima che Tito gli tiri un pugno, colpendolo alla mandibola.

Io urlo.

April urla.

L’unica reazione dello svedese è lo sguardo fiammeggiante che ha negli occhi.

Con un movimento fluido ma potente piazza un pugno in faccia a Tito, lo fa roteare su se stesso e crollare nuovamente al suolo. Quello atterra con un gemito tenendosi la testa tra le mani, cerca di tirarsi su senza riuscirci.

Lo svedese sventola la mano sussultando per il dolore, poi si guarda attorno ansiosamente. «Dovremmo andare, che
dici?».

Io guardo Tito. Sembra che stia bene ma…

«Tito!», esclama April disperata, pronta a buttarsi in ginocchio accanto a lui come una derelitta Giulietta sul suo Romeo teppista, ma io la prendo per un braccio e la strattono in direzione del minivan.

«Starà bene», le dico, le dita che affondano disperatamente nella lana del suo cardigan.

«Dobbiamo andare», ripete lo svedese e io mi chiedo perché sia tanto in apprensione. Forse se ti arrestano per rissa e sei straniero ti deportano, chi lo sa. Ma neppure io ho intenzione di restare nei paraggi.

«Non voglio venire con te!», mi urla April con le lacrime agli occhi, e per un secondo mi assale la paura più grande: e se scappasse via? Se opponesse fisicamente resistenza? Sono alta solo un metro e sessantaquattro. Lei è di tre centimetri più bassa e meno muscolosa di me, ma sa battersi come un animale selvaggio, messa alle corde. Se non è spaventata da me, dalla mia autorità, se non gliene frega niente e mi odia ed è piena di rabbia, come farò a cavarmela? Come farò a superare i prossimi quattro anni?

Ma per qualche ragione – sia ringraziato il Signore – lei cede. Si lascia portare al furgone e io la guardo senza fiato mentre sale sul sedile di dietro, temendo che all’ultimo minuto se la svigni.

Invece no. La portiera scorre chiudendosi con uno scatto.

Lascio andare un lungo sospiro tremante e guardo lo svedese, che mi sta accanto.

«Non sai quanto mi dispiace che tu abbia dovuto vedere tutto questo», gli dico con voce colpevole. «Che abbia dovuto assistere a questa scena. E fare quel che hai fatto». Guardo le sue nocche spellate e sanguinanti. «Merda».

Lui si guarda la mano con noncuranza e scrolla le spalle.

«Non ci sono mucche sul ghiaccio», risponde con un caloroso sorriso. «Sto bene, anzi, sono contento di essere venuto
qui».

«Non ci sono mucche?», ripeto, stupita da quella strana frase e dal modo in cui è venuto in mio soccorso, dal modo in cui mi guarda adesso, come se per lui sia stato un onore.

Il suo sorriso si accentua e si lascia andare a una risata che mi riempie lo stomaco di farfalle. «Sì. Perdonami. È un nostro modo di dire. Det är ingen ko på isen», dice in svedese, e quella lingua mi sembra melodiosa e bellissima. «Non ci sono mucche sul ghiaccio. Significa non preoccuparti».

«Perché se ci fossero delle mucche sul ghiaccio ti preoccuperesti?»

«Be’, sì. Tu no?».

Nonostante tutto mi scappa una risata. «Immagino di sì». Gli tocco la mano, la sua calda, forte mano, e la stringo, esaminando le nocche. «Dobbiamo medicarti».

«Peccato che non ci sia un’infermiera in albergo», commenta con voce bassa, fissandomi intensamente. Non saprei dire se è per l’adrenalina che abbiamo in corpo o perché siamo così vicini, ma giurerei che il suo sguardo si sia incupito, come se delle nuvole coprissero il cielo in un giorno d’estate. Nulla di minaccioso, però, solo un’avvisaglia di qualcosa che cambia, come un crescendo di intensità.

Deglutisco. «Devo portare April a casa. Ti spiace venire con me? Di nuovo?»

«Affatto. Non devo andare da nessuna parte e al momento tu sei l’unica persona che conosco in questa città. Credo che mi sentirei un po’ solo se tornassi nella mia stanza d’albergo, adesso. Di sicuro mi annoierei. Lì non ci sono molte occasioni di fare a pugni».

«Ma neanche mucche sul ghiaccio», gli faccio notare girando attorno al furgone.

«Stai già imparando lo svedese. Sono fiero di te».

Adesso sto sorridendo come un’idiota e per un attimo dimentico tutta l’orribile vicenda appena capitata.

Mi torna in mente nell’istante in cui salgo in macchina.

April sta piangendo sul sedile posteriore e quando le chiedo se sta bene lei senza smettere di singhiozzare mi mostra il medio. Fuori, Tito si rialza barcollando e torna nel suo covo da drogato. E poi c’è lo svedese che si allaccia la cintura accanto a me, con le sue lunghe gambe e le nocche sanguinanti. Non riesco a credere che abbia atterrato quella bestia di Tito in quel modo. Mi è difficile digerire tutte queste cose, sono successe troppo in fretta.

Ma invece di un imbarazzante silenzio nel tragitto fino a casa, lui alleggerisce l’atmosfera parlando del suo viaggio in America. Di come ha iniziato da New York e ha passato lì qualche giorno, prima di comprare una Mustang d’epoca da un collezionista, attraversare il Midwest fino alle Montagne Rocciose e arrivare qui, prima che la sua auto decidesse di mordere la polvere.

Odio ammetterlo, ma sono invidiosa. Ecco un uomo che sembra davvero sicuro di sé, e che se ne va in giro per l’America facendo quel che vuole. Il denaro non pare essere un problema. Il tempo neppure. Mai visto qualcuno dall’aria tanto libera.

Io voglio questo. Voglio la libertà di mollare tutto e fuggire, semplicemente. Fuggire come una vigliacca, ma almeno sentirei il vento in faccia e la speranza che mi sostiene le ali. Almeno per un po’ potrei vivere fingendo che niente può succedermi, finché il senso di colpa, la vergogna e il dovere non mi trascinino nuovamente a casa.

Odio sentirmi così. E poi mi odio per questo odiarmi.

Un circolo che non s’interrompe mai.

Prima di rendermene conto sto accostando sotto casa e sento il cuore sprofondare. April apre subito la portiera e corre dentro prima ancora che io spenga il motore.

Guardo lo svedese sospirando e gli rivolgo un timido sorriso, poi appoggio la testa sul volante. «Rieccoci qui».

«Stai bene?», domanda alzando lievemente un sopracci-
glio.

Buffo il modo in cui lo chiede, come se fossimo amici da tanto tempo. Invece non siamo neppure amici. Non ci conosciamo. Quasi neanche mi ricordo il suo vero nome. Eppure è una sensazione innegabile.

Solo perché l’hai visto nudo, rammento a me stessa. Non farti ingannare dai tuoi ormoni.

Invece so che non è quella l’unica ragione.

«Starò bene», rispondo con un cenno del capo. «Meglio che entri a vedere come se la cava Pike. Chissà quale versione della storia lei gli sta raccontando».

Mi osserva per un momento da dietro quelle lunghe ciglia. Infine dice: «Sei molto più forte di quel che credi».

Mi prende alla sprovvista. «Cosa?»

«Penso soltanto che non ti stai dando il credito che meriti».

Mi viene istintivo guardarlo con aria di rimprovero. «Non offenderti, mister Svezia, ma tu non mi conosci».

Lui stringe le labbra e fa spallucce. «No, suppongo di no. E neppure tu conosci me». Una pausa. «Ti andrebbe di cenare insieme stasera?».

Io sbatto le palpebre, atterrata da quella proposta. «Cenare?»

Una cena insieme?

Mi sta chiedendo di uscire con lui?

Cioè, tipo… un appuntamento?

Dopo tutto quel che è successo, perché mai dovrebbe invitarmi a cena fuori? Non dovrei essere io a farlo dopo il modo in cui è accorso in mia difesa e ha messo ko Tito?

«Anche tu cenerai, no?», aggiunge.

«Oh, di solito sì».

Continua a guardarmi, in attesa. «E quindi? Ti piacerebbe cenare con me stasera?»

«Ma… perché?», mi viene da chiedere.

«Perché mi piaci», è la sua risposta. Ed è così semplice e schietta che potrebbe essere la cosa più romantica che qualcuno mi abbia mai detto. «Ti trovo molto interessante. E per una volta potrebbe essere bello non cenare da solo».

«Non c’è alcun bel posto dove cenare, qui», obietto, accorgendomi che cominciano a sudarmi i palmi delle mani.

«Ma di certo ci sarà qualche locale dove fanno qualcosa di buono, no?».

Ci sono un paio di ristoranti che personalmente amo, anche se non sono niente di speciale, ma sarà un anno che non ceno fuori casa. Dai tempi di New York. «Devo chiedere a Pike», spiego. «È rimasto lui a casa con i ragazzi ieri sera mentre io stavo… insomma, ero con te al bar».

«D’accordo», risponde annuendo lentamente. «E se lui dice di no stasera, che ne dici di domani sera?».

Dio, è anche insistente.

Sono in paradiso.

Un paradiso per gente con le mani sudate, il cuore che palpita e le vertigini.

«Maggie?».

Il mio nome sulle sue labbra è più soave di una canzone d’amore.

Ritorno sulla terra.

«Mi farebbe piacere», rispondo con un sorriso.