Capitolo 2

Maggie

«Chi sente la musica con gli auricolari uscendo dalla doccia?», mi chiede Annette con un sorrisino da sopra la sua birra.

«A essere onesta, non credo fosse appena uscito dalla doccia», le dico. «Non era per niente bagnato. Completamente asciutto». E liscio. E pulito. In ogni centimetro della sua pelle tonica e bronzea.

«Anche in quel caso, è il La Quinta, mica il Four Seasons», ribatte lei. «Chi mai vorrebbe andarsene in giro nudo per la stanza ascoltando musica?».

Rabbrividisce, al che io mi sporgo e le do un pugno leggero sul braccio, per poco non le faccio versare la birra. «Ehi. Io quelle stanze le pulisco. Potresti strusciare tranquillamente il tuo culo nudo su e giù per quel tappeto. È lindo e
pinto».

«Sto scherzando», risponde fingendosi lievemente disgustata, poi raccoglie un tovagliolino e asciuga il collo della sua bottiglia. «Mi sa che devo stare attenta a come parlo oggi, miss Sensibile».

Rovescio gli occhi al cielo e bevo un sorso del mio vino. «Non sono miss Sensibile. Ho solo avuto una giornataccia».

«Motivo per cui siamo qui», replica lei gioviale riferendosi al Faultline Bar. Il Faultline è uno dei bar più carini della città. Niente di lussuoso, ma almeno i cocktail sono buoni e il personale è gentile. Un punto in più se lo aggiudica per non essere zeppo di impiegati del carcere ed ex detenuti. Non che sia mai andata in quei locali in passato, ma di certo non potrei reggerli adesso. È là che quasi sempre trovavi mio padre a fine turno, e sono certa che ne sentirei ancora la presenza intrisa nelle pareti, per non parlare degli avventori che probabilmente non vedrebbero l’ora di parlarmi di lui, evocando tutti i fantasmi.

Non che vada così spesso nei bar, comunque. Non ho né il tempo né il denaro. Ma era qualche settimana che non mi vedevo con Annette, lei mi ha detto che voleva offrirmi da bere e Pike che avrebbe badato lui a tutti mentre ero via. Non ha neppure tentennato. Forse lo stress che accumulo mi sta corrodendo la faccia.

Annette ha passato i cinquanta, a dirla tutta è la migliore amica di mia madre. O lo era. È difficile decidere quale sia il giusto modo di dire: si smette forse di essere amici di qualcuno dopo che è morto? Annette non ha mai smesso di esserlo per mia madre, anche se lei non è più tra noi.

Comunque sia, conosco Annette da sempre, e mi è sempre piaciuta, nonostante il suo essere volgare ed esplicita, o forse proprio per questo. Dopo la morte dei miei abbiamo cominciato ad avvicinarci. È una persona splendida con cui parlare perché sta ancora vivendo il lutto esattamente come me; inoltre sta affrontando un brutto divorzio, e passare del tempo con un’amica le fa bene. Il suo futuro ex marito lavora anche lui alla prigione come direttore ed è molto rispettato, per cui credo che Annette gradualmente perderà il suo giro di amici in città, visto che la maggior parte di loro si schiererà dalla parte del marito.

Mi appoggio allo schienale del divanetto con un sospiro. «Devo andarmene da questa città», le dico, e subito vengo trafitta da un milione di fitte per il senso di colpa e il rimorso. Non c’è modo di andarsene, non ora.

«Lo sai, quando te ne vorrai andare puoi farlo», dice Annette. «Continuerò a dirlo finché non mi crederai, ma sarei più che felice di guardare i ragazzi per un weekend. Vattene in macchina a Los Angeles e divertiti un po’. Comportati come la ventitreenne che sei. Sei troppo giovane per dover sopportare tutto questo».

«Non posso prendermi dei giorni di ferie», le spiego.

«Cazzate», replica tamburellando le unghie color rosa acceso sul tavolo. «È un anno che lavori lì, ti spettano un paio di settimane. Devi solo prendertele».

«Ma probabilmente mi serviranno in caso di emergenza. Che succederà quando April si diploma e vorrà andare al college e io dovrò accompagnarla, dovunque questo sia?». Faccio una pausa. «Merda, probabilmente neppure ci andrà al college. Non avrà una borsa di studio, non col comportamento che sta tenendo e sappiamo bene che non possiamo permetterci di pagare l’università, adesso. Potrebbe perfino non farcela a diplomarsi».

«Fa lo stesso, Maggie», replica lei con enfasi. Anche se ha smesso di fumare anni fa, ha ancora la voce di una che fuma cinque pacchetti al giorno. «È il futuro, e sai che non ha senso farsi prendere dall’ansia per qualcosa che è ancora lontano nel tempo. Le cose cambiano».

«Invece non cambiano», obietto. «Callum ha solo sette anni. Io sarò il suo tutore per altri undici. Fino ad allora Tehachapi è la mia prigione».

«Ascolta, Maggie, è una prigione per un sacco di gente. Letteralmente».

Non ho più voglia di parlarne. Mi sembra inutile, e soprattutto mi sento marcia dentro per il solo fatto di volermene andare. Senza di me i miei fratelli e sorelle non hanno nessuno che faccia andare avanti le loro vite. Che ci piaccia o no, siamo nella stessa barca. E a nessuno di noi piace. Tutti quanti preghiamo ogni notte desiderando che ci vengano restituiti i genitori, ma preghiere e desideri non cambiano niente.

«Allora, come ti va la scrittura?», domanda Annette con un repentino cambio di argomento.

Non è un argomento migliore, però. È letteralmente la peggiore domanda si possa fare a uno scrittore.

«Va… bene», rispondo lentamente dopo un sorso di vino. Bugia. Non va bene. Ogni sera, dopo che sono andati tutti a dormire, provo a rubare un’ora per me stessa da dedicare alla scrittura, ma sta diventando sempre più difficile. Non sono ispirata, sono esausta.

«E hai rinunciato a lavorare per il quotidiano locale?».

Ah, già, il quotidiano locale, il «Tehachapi News». Non proprio quello a cui miravo quando andavo alla nyu, ma ora morirei per avere l’opportunità di scrivere per loro, anche se mi dovessi occupare soltanto delle gare locali di mountain bike. Ma per quante volte mi sia fatta vedere nei loro uffici o abbia spedito curriculum per email chiedendo di scrivere per il giornale, non ho cavato un ragno dal buco. Ricevo il benservito tramite una lettera precompilata, senza alcuna vera spiegazione.

«Ho rinunciato a un sacco di cose, Annette», le dico con un sorriso perché non voglio che la nostra serata diventi deprimente. Smettila di lamentarti e vivi il momento, mi dico. Goditi questo tempo fuori casa con la tua pazza amica, finché puoi.

«Sembra che tu non sia l’unica ad aver mollato», mi dice indicando il bancone.

I miei occhi fluttuano fino a raggiungere un uomo chinato sul piano del bar, che sembra addormentato o svenuto. Lo avevo già visto prima, quando sono entrata, la mia mente lo aveva catalogato tra gli elementi dello sfondo. Ma ora che Annette mi ci fa prestare attenzione, mi ritrovo a guardarlo in modo diverso.

C’è qualcosa nella sua sagoma, forse perfino nell’aura che emana, che sembra attirarmi. Spalle incredibilmente ampie. Lunghe gambe infilate sotto lo sgabello. L’unica parte scoperta del corpo è dietro il collo, insieme ai capelli lucenti e color oro brunito; il viso è nascosto sotto le braccia. Non è di qui ed è di grossa stazza, sarà alto più di un metro e novanta e…

Oh mio Dio.

«Oh mio Dio, credo che sia lui».

«Che?».

La fisso a bocca aperta e noto lo sguardo sospettoso sul suo volto. «Credo che sia lui».

«Ma lui chi?»

«Il tizio nudo».

«Mister Pisello Magico?».

Alzo gli occhi al cielo e abbasso la voce e mentre parlo il mio corpo sembra farsi più piccolo contro il tavolo. «Non ho detto che era magico, solo che era grosso».

«È la stessa cosa, tesoro».

Osservo l’uomo svenuto riverso sul bancone e stavolta tutti i pezzi vanno al loro posto. È lui. L’ho visto nudo, quindi posso riconoscerlo da vestito.

Che diavolo sta succedendo? Quante probabilità c’erano di ritrovarlo qui stasera?

Be’, in realtà parecchio alte, visto che Tehachapi non ha proprio questa scintillante vita notturna.

«Verrebbe da credere che un uomo delle sue dimensioni, e sto parlando dell’altezza, non pensare subito a cose sporche, sia capace di reggere l’alcol un tantino meglio», commenta Annette e mentre dice quelle parole i miei occhi salgono fino a incontrare quelli della barista. È una con cui andavo a scuola, di due anni più giovane, e benché non la conosca davvero mi sta guardando con aria supplichevole, come se le servisse aiuto.

Probabilmente dovrei restarmene seduta ma qualcosa mi spinge a controllare la situazione un po’ più da vicino. Forse perché questo sconosciuto ha fatto per la seconda volta la sua comparsa nella mia vita e di nuovo in uno stato di vulnerabilità. Non che lui sembrasse esattamente vulnerabile quando l’ho visto nudo – anzi, sembrava fosse completamente padrone della situazione.

Ma sento lo stesso che devo fare qualcosa, come se fossi responsabile di quel che accade alle sue chiappe. Chiappe deliziose e belle sode, tra l’altro.

«Ti prendo un’altra birra», le dico alzandomi.

«Ah-ah, e vedi di prendere qualcosa anche per te».

Devo guidare, perciò per me il limite è un bicchiere di vino.

Mi faccio strada fino al bancone e sorrido alla barista. «Posso avere un’altra Bud Light?», chiedo, e poi butto un occhio al tipo. Ora che gli sono più vicina sento una scarica di energia che mi attraversa, ed è una sensazione che mi prende di sorpresa, come se ogni nervo del mio corpo avesse preso vita e stesse danzando.

«Certo». La barista scocca un’occhiata diffidente all’uomo. «Lo conosci?»

«Soggiorna nell’albergo dove lavoro. Non so altro», ammetto. Be’, ci sarebbe anche il fatto che da nudo è uno spettacolo. «Mi sa che ha bevuto un po’ troppo, vero?».

Lei si stringe nelle spalle e prende la birra. «Credo di sì. Quando è arrivato qui sembrava a posto. Ha ordinato una vodka con ghiaccio e basta. La seconda volta che l’ho visto stava partendo per il fottuto mondo dei sogni. L’ho scosso un paio di volte ma tutto quel che fa è emettere qualche gemito».

Uhm. Un po’ preoccupante. «Non ti ha detto nulla?»

«No». Fa scivolare la birra sul bancone verso di me. «Ha chiesto da bere e basta. Ma di certo non è di queste parti. Si capisce dall’accento. Di sicuro scandinavo, il che fa ancora più strano. Ho passato qualche settimana in Svezia e Norvegia l’anno scorso, e fattelo dire: quella gente l’alcol lo regge. Questo qui non direi proprio».

Appare un altro cliente all’altra estremità del banco e si aggiudica l’attenzione della barista, che mi lascia solo con il misterioso scandinavo ubriaco.

Dovrei portare subito la birra ad Annette, che mi sta fissando impaziente, invece mi prendo qualche altro secondo per guardarlo meglio.

Lentamente i miei occhi assorbono ogni dettaglio. La lucentezza dei suoi capelli, tra il bronzo e il dorato ma mescolati con un marrone intenso, capelli lunghi quel tanto che basta da volergli dare una bella strattonata, per poi farteli scivolare tra le dita come seta. La nuca è lievemente abbronzata e dalla leggera peluria bionda, un punto che sembra dolorosamente scoperto e segretamente vulnerabile, che scompare sotto il colletto della giacca di pelle nera. La quale si abbina perfettamente alle sue spalle ampie, come un guanto, e il materiale ha un’aria al contempo soffice e di ottima fattura. Mentre la mia attenzione si sposta verso i suoi jeans e gli stivali grigio scuro mi rendo conto di quanto tutto il suo abbigliamento sembri costoso e di qualità. Non mi sembra il tipo di persona che soggiornerebbe al La Quinta per proprio piacere. È più adatto a posti e alberghi di prima qualità. Un uomo d’affari.

Ma di che tipo di affari potrebbe trattarsi?

Porno. Con un pisello del genere, dev’essere per forza il porno.

«Ehi», mi sento dire con voce morbida, avvicinandomi per dargli un colpetto al braccio col gomito. «Allora, sono la ragazza che oggi ti ha visto nudo per sbaglio e volevo farti le mie scuse. Non è stata una cosa intenzionale». Faccio una pausa, conscia del fatto che potrebbe stare ascoltando, come del fatto che Annette è ancora laggiù che mi guarda con aria perplessa. «Per essere precisi, è successo in albergo. Io ero la cameriera e tu stavi, ecco, stavi uscendo dal bagno completamente nudo. Immagino non mi avessi sentito. Ma perché poi stavi ascoltando la musica? Quale musica potrebbe essere tanto importante da infilarti gli auricolari e andartene in giro come se fossi a casa tua? E parlando di casa, da dove diamine vieni?».

Resto a guardarlo ancora per qualche minuto, vedo la sua schiena che si alza e si abbassa. Finalmente emette un suono strozzato e muove la testa avanti e indietro finché non si ferma con il viso rivolto verso di me, gli occhi chiusi.

L’intimità di questo momento mi colpisce, sono esterrefatta da quanto appaia bello visto da vicino. In precedenza era stato difficile concentrarsi sul suo viso per ovvie ragioni, ora però mi sento di poterlo contemplare in tutta tranquillità.

Anche se la sua mandibola è robusta, ampia e coperta da un filo di barba, c’è qualcosa di innocente nel suo aspetto. Forse sono tutti così dolci quando dormono, ma le sue ciglia sono assolutamente da invidia e le labbra piene paiono curvate in un lieve sorriso, in contrasto con la cavità che ha sotto gli zigomi pronunciati.

Anche vestito e ubriaco marcio dentro un bar resta l’uomo più stupendo che abbia mai visto.

«Forse dovrei chiamare la polizia, dopo», dice la barista con un sospiro spezzando l’incantesimo, mentre si avvicina e guarda il gigante dormiente con sdegno.

«Perché? Cos’ha fatto?».

Incrocia le braccia e mi fa uno sguardo del tipo ma dici sul serio? Improvvisamente so che aspetto avrà April quando sarà più grande. «Questo qui è enorme. Potrò essere più tosta di quel che sembro ma non ce la farò mai da sola a trascinare le sue chiappe fuori da qui a fine serata».

«Ma non ha fatto niente di male», obietto timidamente.

«Se ti va di occuparti di lui, accomodati pure», replica prima di voltarsi e darmi le spalle.

Io gli do un’altra occhiata, poi torno da Annette.

«Cosa. Cavolo. Stavi. Facendo?», domanda strappandomi di mano la birra. «Avevi detto che andavi solo a prendermi da bere».

Con un’alzata di spalle scivolo sul divanetto di fronte a lei. «Non lo so. Volevo vedere com’era la situazione».

«E?»

«E non lo so. È ubriaco».

«Quello lo vedo».

«Ma c’è qualcosa che non torna», aggiungo con un cenno in direzione del tipo. «La barista dice che ha bevuto un drink e poi è crollato. In più secondo lei è scandinavo o roba simile e quindi la vodka la beve a colazione. E c’è anche il fatto che è ricco».

Annette alza un sopracciglio truccato. Questo ha attirato la sua attenzione. «Ricco?»

«Ha vestiti costosi. È davvero ben messo».

«E cosa ci fa un uomo ricco a Tehachapi?».

Faccio spallucce. Quella è la cosa che mi lascia perplessa. «Non so. Magari è solo di passaggio».

«Ed è scandinavo?»

«A detta della barista. Svedese, danese o giù di lì».

Annette serra le labbra e mi fissa.

«Cosa?», faccio io, automaticamente sulla difensiva per il modo in cui mi guarda.

«Ti stai interessando davvero troppo a questa persona».

«Prima tu stavi parlando del suo pisello magico», le ricordo con un’occhiataccia.

«Non mi aspettavo di vederlo qui. Tesoro, sto solo cercando di proteggerti. Non farti coinvolgere da qualcuno che soggiorna nel tuo albergo».

«Ma quale coinvolgimento?», domando incredula alzando le braccia. «Sono solo una cittadina preoccupata».

Si appoggia allo schienale con una scrollata di spalle, la bottiglia alle labbra. «Non è una preoccupazione che ti riguarda, e tu sei sempre stata una che per aiutare gli altri si faceva in quattro, ma credimi, ti stai già moltiplicando fin troppo». Si ferma un istante poi riprende. «Ti ho detto quello che diceva Hank?».

Hank è il suo futuro ex marito e c’è sempre qualcosa che diceva o faceva. Annette si lancia nella sua ennesima tirata e io mi rassegno ad ascoltarla. So bene che le serve un’amica e qualcuno che le presti orecchio quanto serve a me.

Ma i miei occhi invece trovano sempre il modo di tornare allo straniero ubriaco. Continuo a domandarmi come abbia fatto a ridursi in quello stato bevendo: uno tanto alto e ben piazzato non è un peso piuma; mi sfugge anche il motivo per cui sia qui a Tehachapi, col suo accento scandinavo e i suoi vestiti costosi. E sì, la mia mente continua a tornare all’immagine di lui nudo. Ancora e ancora e ancora.

Sarà per la storia triste o per il fatto che nessuna delle due esce da un po’, comunque sia lei si prende un’altra birra e io finisco a bere un altro bicchiere di vino, da lei gentilmente offerto. Quando siamo pronti per andarcene il bar è vicino alla chiusura.

È tutta la sera che tengo un occhio su quel tipo. Non si è mosso per niente. Adesso pare proprio che non possa evitarlo e la barista lo sta scuotendo, e intanto mi lancia un’occhiata preoccupata come se ora il problema sia anche mio.

«Puoi riportarlo in albergo?», mi chiede ad alta voce mentre ci avviciniamo alla porta. «Sennò chiamerò la polizia e uno strappo glielo daranno loro». Sembra quasi che mi stia minacciando, come se il fatto che l’ho già incontrato oggi signifi-
chi che quel tizio sia per chissà quale motivo di mia compe-
tenza.

Annette sbuffa aria dal naso e le risponde: «Cara, non è un problema nostro. Non lo conosciamo».

«Ma non è neppure un mio problema».

L’uomo farfuglia qualcosa in una lingua straniera e per la prima volta si mette effettivamente a sedere sulla sedia, spingendo via il braccio della barista.

Annette fa un passo indietro e io lo fisso, sorpresa.

«Se non porti via il culo da qui chiamo la polizia!», intima la donna con la voce grossa ma tremante.

Quello a malapena apre gli occhi, ma sembra capire. Biascica qualche altra parola incomprensibile, la maggior parte delle quali secondo me sono imprecazioni, poi cerca di alzarsi in piedi.

A quel punto comincia a barcollare, è sul punto di cadere in avanti, allora senza pensarci mi precipito da lui, le mani sul suo petto per spingerlo indietro e tenerlo in equilibrio. È come cercare di impedire a una sequoia di abbattersi al suolo, eppure in qualche modo funziona e lui torna ad accasciarsi sulla sedia. Fosse stato davvero un peso morto sarei rimasta schiacciata.

«Lo prendiamo noi», dichiaro col cuore che batte forte tanto siamo vicini, e per la forza assurda che sono riuscita a tirare fuori.

Sono sorpresa di aver detto quelle parole.

E anche Annette.

Si avvicina e mi afferra un braccio, allontanandomi da lui con uno strattone. «Che diavolo ti prende? Non è mica un cucciolo in un canile che puoi adottare, Maggie».

«Buona fortuna», borbotta la barista con un gesto noncurante, come un insegnante che consegna un bambino discolo ai suoi genitori.

Ormai mi sono impegnata.

In che cosa, non lo so.

Gli agito un braccio davanti al viso. Ha ancora gli occhi chiusi e il mento continua a ricadergli sul petto. Quel petto. Duro come il cemento. Non riesco a credere che un attimo prima ho premuto le mani contro quel petto. Non puzza neppure di alcol, solo di qualcosa di muschiato e boscoso, un aroma accogliente, confortevole.

«Non possiamo lasciarlo qui», dico alla mia amica.

«Sì invece». Annette si guarda attorno in cerca di qualcun altro che possa salvarci da quella situazione, ma siamo le ultime persone rimaste. «Non è un tuo problema. E di certo non è un mio problema. Lascia che la ragazza chiami la polizia. Possono sbrigarsela loro».

Di certo è la scelta più facile e più saggia. Non so dire perché stasera mi sento di voler essere il cavaliere dall’armatura scintillante per questo sconosciuto, però è così. «O mi aiuti a portarlo in albergo o lo farò da sola».

Annette mi guarda.

Io le restituisco lo sguardo.

Ho preso la mia decisione.

Alla fine sospira, alza gli occhi al cielo e si passa le unghie rosa lungo le braccia. «E va bene. Ma sto cercando di pensare come se fossi tua madre. Lei non approverebbe».

«Mia madre sarebbe fiera che mi do da fare per aiutare uno sconosciuto. Questo è proprio il genere di cose che lei farebbe». Il suo commento mi punge sul vivo, spingendomi sulla difensiva. Mia madre era quella che andava sempre in soccorso degli altri.

«Be’, io temo che tu sia stata abbagliata dal suo cazzo e non stia pensando lucidamente», ribatte.

«Sshhh!», le faccio perentoria, poi lo guardo per capire se ha sentito. Non saprei dirlo. In realtà sembra che stia per cadere dallo sgabello da un momento all’altro.

Annette sospira di nuovo. «D’accordo, andiamo. Tu mettiti da una parte, io lo prendo dall’altra».

Lo affianchiamo, io gli alzo un braccio e me lo metto sopra la spalla, premo nuovamente le dita sul suo petto e faccio un cenno ad Annette. Con un gemito lo tiriamo su, alzandolo in piedi. Non è facile visto che è più alto di me di oltre trenta centimetri, ma in qualche modo riusciamo a tenerlo.

Fortunatamente ho parcheggiato vicino all’ingresso, e muovendoci in sincrono riusciamo ad accompagnarlo di fuo-
ri, anche se un paio di volte lui incespica e quasi ci porta giù
con sé.

Lo adagiamo sul sedile di dietro del minivan, dove si accascia immediatamente, poi mi metto alla guida e partiamo in direzione dell’hotel.

«Non ci credo che lo stiamo facendo», commenta Annette a bassa voce scuotendo la testa, guardando i lampioni che scorrono lungo la strada. «Non hai neppure pensato fino in fondo a come fare. Come pensi di portarlo nella sua stanza? Ti metterai a cercare la chiave nelle sue tasche?»

«Userò il mio passe-partout di servizio».

«E se ti vede qualcuno del lavoro?».

Uhm.

Forse non ci ho davvero pensato bene.

«Sarò furtiva».

«No, noi proveremo a essere furtivi e provare è la parola chiave, perché tutto questo non funzionerà, dato che chiaramente non hai mai dovuto trascinarti dietro André the Giant prima d’ora. Ti farai beccare. E a quel punto?».

Io mi stringo nelle spalle con noncuranza. «Diremo la verità?»

«Non sembrerà che tu vai a letto con i clienti o qualcosa di simile? Non avete una regola che vi proibisce di fraternizzare con i clienti?»

«Non ufficialmente», rispondo lentamente, ma adesso mi sovviene che quando andavo a scuola una delle cameriere fu sorpresa a fare sesso con qualcuno nella sua stanza e venne licenziata. Credo che avesse cercato di farlo passare per il suo ragazzo ma era chiaro che fosse solo un cliente e che non si conoscevano davvero.

Merda.

Essere licenziata è l’ultima cosa di cui ho bisogno, per non parlare dei pettegolezzi su di me che vado a letto coi clienti.

«Io dico di accostare davanti all’albergo, aprire lo sportello e sbatterlo fuori con un calcio», propone lei. «Rotolerà giù per la discesa fino all’entrata. Una passeggiata».

«Come se ci stessimo sbarazzando di un cadavere?», esclamo a bassa voce esterrefatta.

Lei alza le braccia. «Be’, senti, tesoro, io non so che dirti».

Io sospiro e velocemente faccio inversione a U in mezzo alla strada. Meno male che è tardi e in giro è praticamente deserto.

«Dove stai andando?», chiede guardandosi intorno preoccupata.

«Lo portiamo a casa tua».

«Casa mia?», grida con voce stridula, al che dietro di noi lo sconosciuto si agita e urla qualcosa che sicuramente non è in lingua inglese, dopodiché perde nuovamente i sensi.

Lo guardo dallo specchietto domandandomi se non abbia fatto uno sbaglio colossale. Voglio dire, e se si accorge di dove si trova e comincia a dare di matto mentre sto guidando? Non lo conosco, non so come può reagire. All’improvviso mi immagino nell’atto di rifare con Annette la scena di Tommy Boy, quando il cervo si risveglia sul sedile posteriore.

Motivo in più per mollarlo da lei.

«Sì, casa tua», ripeto.

«Non esiste. No. Nisba. Maggie, ho le spie».

«Spie?»

«Hank ancora si presenta senza avvertire. Siamo sempre in mezzo a una procedura di divorzio. I vicini sono dalla sua parte. Che impressione darebbe se mi portassi un tipo a casa?»

«Non stai facendo niente di male».

Si limita a fissarmi con occhi di fuoco. «Non conta. Non voglio correre rischi, specialmente per qualcuno che non conosco».

Io sospiro e le mie mani stringono il volante. Ha ragione. Non voglio metterla nei guai e non voglio che questa faccenda le crei problemi col divorzio in nessun modo. Qui la gente sa essere cattiva.

Al tempo stesso, non posso portarlo in albergo. Verrei fraintesa e finirei nella merda, lo so per certo.

E neppure mi sentirei bene sapendo che lo sbattono in una cella.

Esalo di nuovo il fiato rumorosamente, sapendo quello che sto per fare.

«Che c’è?», fa lei guardandomi storto.

«Lo porto da me».

«Maggie».

«Lo metto nella stanza di mamma e papà. Lì potrà riprendersi».

«Maggie», dice ancora, stavolta a voce più alta. «No. Tu non lo conosci questo qui. Non puoi portarlo a casa. Non con i tuoi fratelli e le tue sorelle».

So che quel che dice è sensato. «Adesso sono tutti addormentati. Lo dirò a Pike. Pike è abbastanza grande da gestirlo».

Scuote la testa. «No».

«Annette, farò così. Adesso, vuoi che lasci prima te a casa?»

«Oh, come se ti lasciassi da sola a sbrigartela».

«Senti, gli prendiamo il portafogli e puoi tenerlo come assicurazione o roba del genere. In caso succedesse qual-
cosa».

Mi fissa di nuovo e io so che si sta chiedendo cosa diavolo mi sia preso. Non lo so neanche io. Ultimamente mi sembra di conoscermi sempre di meno, perciò non dovrebbe sorprendere se non seguo più il mio personaggio. O forse è questo adesso il mio personaggio. Forse sono così affamata di qualcosa di differente e nuovo che sono disposta a portarmi un tizio sbronzo a casa e tenerlo nella stanza dei miei come se fosse la cella degli ubriachi.

«Mi dovrei fermare da te stanotte», dice lei.

«Non sarà un problema».

«Le ultime parole famose».

Cinque minuti dopo fermo il minivan sotto casa. La guardo attraverso il finestrino. Le luci sono spente, a parte la lampada all’ingresso e quella nella stanza di Pike. Dobbiamo essere molto disciplinati in fatto di bollette, quindi quando si spengono le luci, si spengono sul serio.

«Tutto questo è ridicolo, lo sai», protesta Annette uscendo dall’auto.

«Lo so».

Il più silenziosamente possibile apriamo il portello scorrevole e riusciamo a tirare fuori il tipo e a portarlo in casa.

Cercando di trascinarlo su per le scale ci parliamo in una serie di bisbigli per non fare rumore, anche se a un certo punto quello sbanda sulla sinistra e quasi mi schiaccia contro il muro. Se non fosse tanto faticoso sarebbe quasi comico. E in qualsiasi altra circostanza sarebbe anche sexy.

Finalmente saliamo al secondo piano e arranchiamo lungo il corridoio, giriamo l’angolo e arriviamo alla vecchia stanza dei miei genitori. Apro la porta e subito accendo la luce.

Non entro qui molto spesso. Per certi versi è come un mausoleo. Le tende in genere sono tirate e tutto è rimasto com’era prima che morissero. Nessuno di noi ha avuto il cuore o il coraggio di cambiare granché. So che le lenzuola sono state cambiate perché abbiamo avuto ospiti e ogni tanto io entro per spolverare, ma non ci resto molto tempo. I ricordi fanno male.

Perfino adesso mi sembra che ci siano fantasmi nelle pareti, ombre nel buio. Fantasmi amorevoli, ma sempre fantasmi. Residui delle vite di un tempo, di un amore che farei di tutto per riavere indietro.

Deglutisco a fatica e torno a concentrarmi sull’uomo svenuto mentre lo spingiamo all’indietro sul letto, dove piomba giù come un albero abbattuto, e la rete sobbalza per il peso della sua grande stazza.

Annette lo gira su un fianco e poi va nel bagno della camera a prendere il cestino dei rifiuti per metterlo sotto di lui, mentre io gli tolgo gli stivali.

«Non dirmi che lo vuoi spogliare completamente», domanda alzando un sopracciglio.

«Shhh», faccio in un bisbiglio. «Tieni la voce bassa».

«Non hai risposto».

La ignoro e finisco di togliergli gli stivali e lei con un sospiro comincia a trafficare con la sua giacca di pelle nel tentativo di sfilargliela. Lui emette un basso gemito, gli occhi ancora chiusi, poi la sua testa affonda nel cuscino quando Annette finalmente riesce a togliergli la giacca.

Mentre la ripiega lo osserva e sospira. «È davvero carino, vero?».

Non dico niente. Non menziono neppure il fatto che gli stivali che indossa sono taglia cinquanta. Non sapevo neppure che esistesse quella misura, ma a quanto pare coincide con le dimensioni del suo pisello.

Prendo quelle calzature giganti e le poggio in terra contro la parete mentre lei posa la giacca sulla sedia di fronte al letto. Mia madre usava sempre quella sedia per buttarci sopra la sua divisa e i vestiti prima di infilarsi a letto. Era l’unico posto e l’unico momento in cui si permetteva di essere disordinata e libera. La mattina dopo era sempre tutto riposto con ordine.

Negli occhi di Annette compare uno sguardo malizioso e improvvisamente allunga le mani verso i pantaloni del tipo.

«Ma che fai?», protesto in un bisbiglio.

Lei si morde il labbro e le sue mani finiscono sotto il suo sedere, poi con aria trionfante tira fuori il portafogli.

«Ta-da!».

Lo apre e io mi affianco per dargli un’occhiata.

Non c’è molto, dentro. Una carta di debito Visa senza nome, qualche dollaro e un documento con la foto. Lei lo tira fuori dalla tasca interna, poi se lo rigira in mano. Sembra nuovo di zecca, la foto in bianco e nero è recente. In cima c’è scritto Körkort Sverige, qualsiasi cosa voglia dire, e sotto Andersson Johan.

«Andersson è il nome o il cognome?», domanda in un sussurro. «O l’indirizzo?»

«Forse si chiama Körkort Sverige».

«Credo sia russo».

«No, il russo ha un alfabeto completamente diverso».

«Che cazzo succede qui?». La voce di Pike esplode nella stanza e tutte e due facciamo un salto per la sorpresa, il portafogli cade dalle mani di Annette atterrando proprio sull’ampio torace di Körkort Sverige.

Io risucchio aria tra i denti, aspettandomi che lui si svegli, invece si limita ad agitarsi debolmente.

Mi volto a guardare Pike che ci fissa incredulo, i capelli spettinati per via del sonno. «Perché avete…». Fa un passo verso di noi e i suoi occhi cadono sulle gambe dello sconosciuto, che spuntano fuori dal letto. «Chi diavolo è quello?»

«È una storia lunga», gli dico. «E tieni la voce bassa».

Pike guarda Annette impaziente. «Che sta succedendo? Perché state qui e chi diavolo è quel tipo sul letto?». Si avvicina e lo guarda. «Merda, ma è morto?»

«No», rispondo mettendogli le mani sulle spalle e spingendolo indietro. «È molto ubriaco e dormirà qui finché non si è ripreso».

«Ma chi è?»

«Körkort Sverige. È straniero, sbronzo, alloggia nell’albergo e lo abbiamo visto al bar e le possibilità erano due, o lo portavamo qui oppure la polizia lo metteva nella cella degli ubriachi».

Mi fissa senza capire. «E perché la cella degli ubriachi non andava bene?»

«Senti, sono sicura che domani mattina si sveglierà e andrà via».

Pike non è convinto. Non lo biasimo. Quello che sto facendo è assolutamente da matti. La cosa buffa è che non mi sentivo tanto coinvolta in qualcosa da, be’, da un sacco di tempo.

«Se pensi che riuscirò a chiudere occhio stanotte con uno sconosciuto in casa, ti sbagli di grosso», borbotta alla fine. «Resterò di guardia fuori dalla porta con una pistola».

Gli lancio un’occhiataccia. Detesto il fatto che abbia tenuto le pistole dei miei, considerando quello che è successo a loro. «Andrà tutto bene».

«Bene, dato che c’è Pike a pensarci, io me ne vado a casa», dichiara Annette. Mi mette una mano sulla spalla e la stringe. «E chiamo un taxi. Probabilmente è meglio che tu resti qui nel caso si svegli. Se non altro sarai un volto familiare».

Anche fosse, non sarà in senso positivo. «Sei sicura?».

Mentre ci passa accanto ha già tirato fuori il telefono e sta componendo il numero. «Sono sicura. Chiamami domani e fammi sapere come va, d’accordo dolcezza?». Si volta a dare a Körkort un’ultima occhiata. «E buona fortuna. Non approvo nulla di tutto ciò ma suppongo tu debba fare i tuoi sbagli».

Dopo che se n’è andata io e Pike ci scambiamo uno sguardo.

«Che ti ha preso?», domanda.

«Sinceramente non lo so», rispondo con un sospiro. Mi avvicino per prendere il portafogli dal suo petto e lo stringo tra le mani. Se tenta qualche scherzo o fa qualsiasi cosa, almeno avrò una prova della sua identità.

Chiunque sia.