Capitolo 18

Maggie

Tehachapi

Ti cresce un vuoto nel cuore dopo che qualcuno che ami se n’è andato. Lasciandoti, si porta via tutto. I mobili, le decorazioni, perfino i pavimenti, e tu resti nuda. Al freddo. Io mi sento una grande stanza vuota tra le cui pareti rimbomba la sua mancanza.

All’inizio le persone sono state indulgenti con me e il mio cuore spezzato. Dopo il mio ritorno a Tehachapi, e dopo aver dato di matto per via del regalo di Viktor, la sua Mustang, tutti hanno sopportato i miei pianti e le mie lamentazioni. Soprattutto Annette e Sam mi hanno consolata, lasciando che parlassi di lui per ore, ascoltandomi mentre mi chiedevo continuamente se fosse stato un errore andare a Los Angeles, o non seguirlo in Svezia. Ovviamente sapevo che non sarei potuta andare, ma questo non mi fermava dal desiderare che le cose fossero andate diversamente.

Alcuni, come Pike, mi hanno detto che sono stata una pazza a credere che mi fossi innamorata di lui. Ancora non sanno che è un principe, tutti credono che fosse un tipo bello, ricco e straniero (a parte Callum, che ancora è convinto che sia il Cuoco Svedese dei Muppet). Pensavano che fossi infatuata perché era ricco, per via delle promesse che doveva avermi fatto. La ritenevano solamente una cotta fuori controllo, e credevano che col tempo avrei compreso che non era affatto amore.

Come puoi amare qualcuno dopo una settimana?

Non sembrava possibile.

Eppure io sapevo che se avessi anche solo provato a fingere che non fossero quelli i miei sentimenti, se avessi provato a ignorare il dolore che provavo in fondo al cuore e la profondità di quel che sentivo per lui, in qualche modo lo avrei ferito.

Così ho deciso di ferire gli altri.

E alla fine non mi hanno più permesso di parlare di Viktor. Se aprivo la bocca per dire qualcosa di lui, cambiavano discorso. Perfino Sam, a cui sono stata vicina in tutti i suoi drammi sentimentali e i suoi fidanzamenti finiti male, perfino lei una volta mi ha detto: «Devi dimenticarti di lui, e subito. Non è mai stato amore, solo sesso, è comunque uno schifo quando finisce, ma se non te lo lasci alle spalle adesso non riuscirai a farlo mai più».

Tutti pensavano che me lo sarei lasciato alle spalle e mi sarei ripresa.

O quantomeno tutti pensavano che è quel che avrei dovuto fare.

Ma più passava il tempo e i mesi si accumulavano più pensavo a lui, e mi dolevo per lui, e avevo bisogno di lui. E mi rendevo conto che questa stanza vuota che mi portavo dentro non si sarebbe riempita. Non ho neppure provato ad arredarla, non avrebbe avuto senso. Nulla avrebbe avuto senso se non il mio principe, il mio Viktor.

Ma non tutto è stato una perdita.

Siamo rimasti quasi sempre in contatto.

Ho avuto per la prima volta sue notizie il giorno dopo la partenza, quando è arrivato a Stoccolma.

Dopo quel weekend mi sentivo il corpo e l’anima come se li stessi trascinando nel fango. E avevo anche un aspetto terribile. Ogni colorito procurato dal sesso di quei giorni aveva lasciato il posto al pallore del mal d’amore.

Il primo giorno che sono tornata a lavorare mi sono svegliata un po’ in ritardo e ho dovuto correre per portare i bambini a scuola. Ho preso il minivan perché usare la Mustang mi faceva strano (anche se era divertente da morire guidarla), poi ho fatto del mio meglio per arrivare a fine giornata. Non è stata un granché e lo sapevo, Juanita mi ha anche fatto notare che avevo dimenticato di cambiare alcune federe, ma ci sono riuscita.

Solo quando sono giunta a casa, ore dopo, mentre passavo accanto alla Mustang per entrare in casa, ho udito uno squillo dal vano portaoggetti.

Perplessa, l’ho aperto trovando all’interno un iPhone.

Un iPhone nuovo di zecca.

Stava suonando e aveva un post-it attaccato.

Il messaggio diceva Rispondi. Il primo pensiero è andato ad Alice nel Paese delle Meraviglie, quando lei raccoglie da mangiare e da bere. E se rispondo e il telefono mi risucchia e io finisco dritta in Svezia?

Così ho risposto.

«Ehi», ha detto lui, e sentire la sua voce, anche se l’avevo sentita solamente ventiquattro ore prima, quasi mi ha fatto cadere di nuovo in ginocchio. Il suo accento, la sua voce calda e forbita. Non mi ero mai resa conto quanto avessi fatto l’abitudine a quella voce.

«Ehi», ho risposto, improvvisamente sopraffatta dal ricordo di ogni cosa. «Sei qui. E sei in un telefono che stava nel vano portaoggetti della tua macchina. Lo hai lasciato qui apposta?».

L’ho sentito sospirare pazientemente. «Te l’avevo detto che avevi bisogno di un nuovo telefono».

«Viktor, non posso accettare una cazzo di Mustang e un nuovo iPhone».

«E un alce, per favore non dimenticarti dell’alce».

«Posso accettare l’alce. Nessuno lo prenderà dopo quello che gli hai fatto». Mi sono fermata, mi sono strofinata il palmo della mano sulla fronte. «Solo che… perché fai così tante cose carine per me?»

«Perché?», ha ripetuto lui, sembrando al tempo stesso sorpreso e offeso. «Tu cosa pensi? Per me sei tutto, Maggie. Non sarebbe mai abbastanza quel che faccio per te. E poi, ecco, egoisticamente parlando, in questo modo posso parlarti ogni giorno. Ti ho fatto un buon contratto».

«Non è un po’ tardi?»

«Non riuscivo a dormire. Non potevo aspettare. Ho fatto male a chiamarti?».

Prima d’allora non avevo mai parlato con lui al telefono, era un po’ strano e mi ha dato la misura di quanto fossimo ancora nuovi l’uno per l’altra.

Ma col passare del tempo tenersi in contatto è diventato sempre più difficile. Quei primi giorni dopo il suo ritorno a Stoccolma si stava ancora adattando alla sua nuova vita, cercando di far quadrare tutto. Non è sempre facile, dopo essere tornati da una lunga vacanza. E per questo motivo credo che la sua famiglia e chiunque altro si preoccupi di tenerlo in riga gli stesse lasciando parecchio spazio. Così parlavamo spesso.

Poi le telefonate sono diminuite gradualmente e il fuso orario e il suo rigido calendario di impegni sono diventati più pressanti, così abbiamo cominciato a mandarci messaggi. Io gli mandavo un sms e ci volevano otto ore prima di avere una risposta, e viceversa.

A un certo punto sono cominciate le lettere d’amore.

Oh, sì, l’arte della corrispondenza amorosa non è morta.

E anche se Viktor non ha mai usato la parola amore, io la percepivo nelle sue parole vergate su carta in modo così elegante, carta che ero sicura profumasse di lavanda.

Questa era la mia maniera preferita di comunicare. Anche se mi ha detto che le recapitava a mano nella cassetta postale e non avevano l’indirizzo del mittente, mi sembrava comunque che le sue parole mi arrivassero dentro l’anima. Vedevo un Viktor che non era quello che sentivo per telefono, e non era conciso e rapido come nei messaggi.

In quelle lettere si prendeva il suo tempo. Il tempo per scriverle, per descrivere come si sentiva, nei dettagli, proprio come se lo prendeva quando facevamo sesso. Era così accurato, e di conseguenza mi sentivo così desiderata. Così…
adorata.

Ma pian piano, col mutare dell’estate in autunno, e poi ora che l’autunno diventa inverno, la frequenza delle lettere è precipitata e io sono troppo spaventata dal mandargli un messaggio e chiedergli perché. C’è una distanza tra noi che sembra più grande di quella che c’è tra qui e la Svezia.

Rende questa stanza fredda e vuota ancora più solitaria.

 

«Ho letto un bel po’ di cose sul tuo principe di Svezia», mi dice Annette da sopra la sua birra.

La guardo sorpresa. Dopo Los Angeles le ho confidato che Viktor non era soltanto un bel faccino ma il principe ereditario della corona svedese. Anche se non l’ho detto ancora alla mia famiglia e probabilmente non lo farò mai, non sono riuscita a tacerlo ad Annette. Ho pensato di doverglielo, visto che si era presa cura di tutti quanti mentre ero via.

Lei ha preso tutto col suo solito modo impassibile e disilluso. Cosa che ho apprezzato. A volte un po’ di cinismo è necessario quando il cuore sente cose che non dovrebbe.

Ma siccome sono passati mesi da quando lui se n’è andato e ho fatto del mio meglio per non parlarne con nessun altro, non mi è ben chiaro perché adesso lei tiri fuori l’argomento.

Forse è perché siamo di nuovo al Faultline. Annette si è trasferita a Bakersfield qualche mese fa. Ha trovato un buon lavoro, un piccolo appartamento. Ha cominciato a frequentare un uomo, padre di tre figli, lei lo chiama Drugo perché è tipo il re del bowling o qualcosa del genere. Oggi è a Tehachapi perché ha dovuto vedere i suoi avvocati per finalizzare il divorzio, e stiamo festeggiando.

E naturalmente c’è solo un posto qui dove poterlo fare.

«Quali cose?», domando io. «Tipo la storia della famiglia reale?»

«No. Tipo tabloid. Siti di gossip. Quelli svedesi. Uso un’app per le traduzioni. Credo pensino tutti che abbia una storia col suo maggiordomo. Sempre che in svedese maggiordomo voglia dire la stessa cosa che in inglese, e non una roba tipo “animali da fattoria”».

La guardo strano. «Animali da fattoria?».

Si stringe nelle spalle. «Ne parlano ovunque, tesoro. La stampa non si stanca mai di lui. Mi rende più facile capire perché non ci riuscivi neppure tu».

Vorrei proprio che non avesse tirato in ballo Viktor, il mio piano per la serata era di non pensare a lui neppure una volta. È passata una settimana dal nostro ultimo scambio di sms, che più o meno è stato una roba tipo «Come stai?», e «Bene, e tu?», ed è una cosa che mi fa così male, questa distanza, questo essersi ridotto tutto a banali frasi su uno schermo.

Ma in fondo credo che fosse inevitabile pensare a lui, dal momento che siamo venute qui. Mi sembra che nell’aria ci sia ancora la stessa atmosfera di quella sera in cui lo trovammo al bancone. L’unica differenza è che adesso, grazie alla Mustang di Viktor, sono io che pago da bere ad Annette e non il contrario.

«Non leggo più queste cose», le dico, ed è vero. Per il primo mese mi tenevo aggiornata su tutto ciò che facesse Viktor seguendo i siti svedesi e i tabloid inglesi, e Sam mi aveva attaccato la fissa di «Royal Monthly» (tramite cui ero rimasta intrigata da alcuni dei reali che Viktor aveva menziona-
to, come il principe Magnus di Norvegia e re Aksel di Dani-
marca).

Ma dopo un po’ c’erano così tanti pettegolezzi su Viktor a cui non volevo credere, e la stampa era così invadente. Credo anche che abbia aumentato la distanza tra noi, il fatto di vederlo con l’uniforme ufficiale, il cappello, la fascia e le medaglie, alle cerimonie, oppure in abito elegante ai balli e alle serate di gala. Sembrava così… intoccabile. Irreale. Come se stessi guardando il personaggio di un film invece del Viktor generoso e in carne e ossa che avevo conosciuto.

«Su con la vita», dice lei alzando il suo boccale. «Stasera festeggiamo nuovi inizi. Per me e per te».

Alzo il mio Martini e con cautela tocco il suo bicchiere. «Skäl», le dico.

«Allora, come va con April?», domanda.

Sospiro e la guardo seria. «Va…»

«E Tito?»

«Fortunatamente Tito adesso è in prigione. E neppure qui. È andato a Las Vegas e si è fatto arrestare per spaccio e resistenza a un pubblico ufficiale o qualcosa del genere, quindi quella testa di cazzo è fuori dalle nostre vite per sempre. Spero».

«E April?»

«April d’altro canto…». Scrollo le spalle. «Praticamente adesso mi odia più di prima. Mi dà la colpa per averglielo portato via. A questo punto può odiarmi quanto vuole, sono soltanto contenta che non sia rimasta incinta».

«Finché non trova un altro sfigato…»

«Così non sei d’aiuto, Annette».

«Ho sempre detto a tua madre che quella ragazza avrebbe portato guai. Anche da piccola voleva ribellarsi su tutto. Ma voi due eravate affiatate, o sbaglio?»

«Ci sono nove anni di differenza tra me e lei, quindi non siamo mai state vicine come avrei voluto», ammetto. «Magari quando sarà più grande smetterà di odiarmi e si renderà conto che siamo più simili di quanto crede».

«Tu non sei una babbiona come me», mi fa mettendosi le mani ai lati del viso e tirando indietro la pelle. «Pensi che dovrei farmi un lifting?».

Scoppio a ridere. «Non se ti fa sembrare Lady Cassandra».

«Lady Cassandra? È un’altra nobile?»

«Lascia stare», rispondo, sapendo che lei non ha mai visto il Dottor Who. «E smetti di farti così alla faccia».

«Ciao», mi saluta pimpante la cameriera comparendo all’improvviso al nostro tavolo con uno shot di qualche cosa in mano. «Il gentiluomo laggiù vuole offrirti da bere».

«Gentiluomo?», ripete Annette sorpresa. «Non pensavo che ce ne fossero in questa città».

«Chi?», domando alla cameriera allungando il collo sopra il divanetto e guardandomi intorno.

Lei indica i tavoli vicino alla porta. «Proprio là. L’ho versato io stessa, quindi puoi fidarti. Non sei neppure obbligata ad accettarlo. Qui succede di continuo».

Io vedo solo una persona seduta in quel punto, di cui riesco a scorgere soltanto una lunga gamba di pantalone che sporge di lato.

C’è qualcosa in quella gamba così lunga che mi fa battere il cuore.

Guardo la cameriera. «Che aspetto ha?».

Mi sorride. «Carino come non ne ho mai visti. Ha un accento particolare, inoltre. Sono molto invidiosa», aggiunge, tamburellando sul tavolo con la mano per sottolineare le sue parole, poi torna al bancone.

Accadono alcune cose, tutte insieme.

Una di queste è che io osservo la barista e la cameriera par-
lare dietro il bancone, e la prima sta guardando con gli occhi socchiusi il tipo seduto al divanetto, per poi dirigere lo sguardo su di me, sorpresa. È la stessa dell’ultima volta che siamo state qui, quella a cui abbiamo fatto il favore di portarci via un Viktor privo di sensi.

La seconda è che io prendo il bicchierino, lo annuso e il suo aroma pungente e familiare mi fa trasalire.

Semi di cumino.

Acquavite.

E la terza, la terza è che ogni singola cellula del mio corpo prende fuoco e comincia a ballare il tip-tap. Ogni nervo è un cavo elettrico scoperto, che ronza e crepita, pronto a darmi la scossa.

Non può essere una coincidenza.

«Che c’è?», domanda Annette con le sopracciglia aggrottate, e intanto beve un sorso di birra. «Buon Dio, ma che diavolo succede?».

Io posso solo deglutire e fissarla con occhi sgranati. «È lui», sussurro.

«Chi?»

«Dev’essere lui».

E adesso mi sto alzando, il mio corpo è leggero e mi muovo come in un sogno.

«Maggie», fa lei, ma io praticamente non la sento.

Passo accanto alle file di divanetti, oltrepasso l’ingresso, mi fermo poco prima di raggiungerlo.

Fisso i suoi pantaloni, il modo in cui lo vestono alla perfezione, la lucentezza delle sue scarpe. Quest’uomo è vestito elegante, non è quello in jeans e stivali che ho conosciuto.

Forse è proprio un’altra persona?

Quel pensiero mi spaventa per tantissime ragioni.

Ma riprendo a camminare, solo qualche passo.

Mi fermo davanti al divanetto.

E guardo Viktor.

Viktor.

Come può essere lui? Com’è possibile?

Dev’essere un sogno.

«Ciao, Maggie», mi dice con quella sua voce bellissima e piena, quell’accento e tutte le altre cose che mi riempiono il cuore. «Te l’avevo detto che sarei tornato da te».

Posso solo scuotere la testa e fissarlo incredula.

«Com’è… com’è possibile? Sei tu? Sei davvero qui?».

Sorride e alla vista di quei denti bianchi che spiccano sulla pelle abbronzata, le rughe agli angoli di quei brillanti occhi azzurri e pieni di calore, la barba ispida che lo rende più vecchio ma anche più bello, io mi sciolgo. Non pensavo fosse possibile.

Si alza dal divanetto, si piazza di fronte a me e io devo piegare il collo indietro per guardarlo in faccia, sono così sconvolta che non so cosa fare.

È lui.

È qui.

Comincio a barcollare. Mi sta facendo venire le vertigini.

Subito lui si avvicina e mi afferra il braccio per sorreggermi, poi sembra esitare un momento prima di allungare l’altra mano, farla scivolare attorno alla mia vita e tirarmi a sé.

«Ti tengo», dice posando le mani sulle mie guance. «Sono qui».

«Come? Come?», sussurro, lottando per tenere gli occhi su di lui, perché ho paura che se li chiudo e poi li riapro non ci sarà più. Al tempo stesso sento le sue mani sulla pelle, il calore del suo corpo premuto contro il mio, e i miei occhi vogliono chiudersi, per concentrarmi su quelle sensazioni.

Finalmente mi sento in pace.

Lo guardo. «Come facevi a sapere che ero qui? Che ci fai qui? Perché non hai chiamato?».

Mi osserva un po’ incerto, stacca le mani dal mio viso. «Neppure sapevo se volessi parlarmi. Quando vedevo che non rispondevi alle mie lettere, che non le menzionavi… ho creduto fosse meglio vederti di persona, e non volevo che avessi la possibilità di rifiutare».

«Lettere? Le ho ricevute, le tue lettere».

«Questo mese?»

«Be’, no. L’ultima che mi è arrivata è di settembre».

«Ce ne sono state altre».

«Mai ricevute».

«Cazzo», esclama passandosi le mani tra i folti capelli. «Magnus aveva ragione. Quel bastardo».

«Cosa?». Cerco di fare mente locale, di capire dove possano essere finite le sue lettere. Ero io ad andare alla cassetta in fondo al viale tutti i giorni, per controllare.

Scuote la testa. «Non importa. L’importante è che adesso sono qui».

«Come facevi a sapere che ero al bar?».

A quel punto fa una faccia un po’ timida. «Prima sono andato a casa tua. Era tutto buio. Ho tirato dei sassi alla tua finestra ma… ho ottenuto solo di farmi urlare contro da April».

«Oh, Gesù».

«Mi ha detto lei che eri qui».

«Be’, se non altro non ti ha indicato una strada che finisce giù da una scogliera o roba simile». Chiudo gli occhi e mi strofino la fronte. Ancora non mi pare vero. Ma quando li riapro lui è ancora lì, sempre a guardarmi, forse con la stessa ansia con cui lo faceva prima di entrare in quella stanza di albergo cosparsa di fiori di lavanda. «Sei qui», ripeto io. «Non so quando riuscirò a crederci davvero».

Per un attimo si morde il labbro, i suoi occhi cercano i miei, si fa avanti, mi bacia. La sua bocca è morbida e familiare e confortevole e mi ritrovo a sciogliermi dentro di lui, in questo bacio dolce, pieno, che mi arriva fino alle punte dei piedi.

«Ci credi adesso», mormora contro la mia bocca, «o ti servono altre prove?».

La sua mano scompare tra i miei capelli.

È qui.

È qui!

E io sono sua.

«E così ci incontriamo di nuovo», dice Annette dietro di noi, la sua voce mi fa trasalire e ci separiamo.

Ma non sono infastidita. Non per lei, non per niente, ormai. «Annette!», praticamente urlo. «Lui è Viktor».

«Viktor», fa lui in tono tutto serio, e Annette gli porge la mano. Cioè gliela porge proprio.

Ed essendo lui il cavolo di principe che è, la prende e la bacia. «Il piacere è tutto mio, Annette».

Anche lei pare in estasi, appena un po’. «Suppongo di doverti chiamare Vostra Altezza Reale, giusto? Magari fare anche la riverenza?»

«Dovresti», risponde Viktor restituendole la mano. «Solo che ci siamo già incontrati una volta, in circostanze piuttosto incresciose, con me privo di sensi eccetera. Credo che ormai siamo oltre le formalità».

«Ora che sei tornato con miss Maggie, qui, puoi ben dirlo».

«Non è che sia tornato per sempre», mi ritrovo a dire ad Annette. «C’è una nazione che si aspetta che lui faccia tutte quelle cose che fanno i principi».

«È quello il mio lavoro», concorda lui facendosi più dritto, come se improvvisamente si fosse ricordato qual è il suo posto nel mondo. «E temo che non resterò qui a lungo».

Sapevo di dovermi aspettare una risposta simile, ma c’era una piccolissima parte di me che sperava che avrebbe controbattuto con «A dire la verità sono qui per restare. Ho abdicato, si fotta la corona, voglio vivere a Tehachapi».

Manco a dirlo, c’è una specie di pungolo freddo nel mio petto.

«Ho letto di te», dice lei, «e ammetto che sono sorpresa di vederti qui senza guardie del corpo né niente. Pensavo avessi costantemente polizia in borghese attorno».

«Infatti», risponde.

«E dove?», chiedo io cercando in giro con lo sguardo.

Lui indica un signore al bancone, poi un altro che gioca a biliardo e uno che fuma la sigaretta proprio fuori dall’ingresso. «Loro sono con me».

Osservo quello al bancone e lo vedo lanciare una rapida occhiata alle sue spalle, verso di noi.

Mi aspetto che Viktor gli faccia cenno con la mano e dica «Ehi, ti vediamo», o una cosa simile, ma il suo viso resta im-
passibile e fa finta di non notarlo. Niente battute. È già cambiato, lo hanno già addestrato.

Cosa mi sono persa in questi ultimi mesi?

Molte cose.

«Wow», esclama Annette. «Insomma, meglio che non cerchi di rimorchiare loro, se voglio anche io il mio bel fusto svedese dovrò cercare altrove».

«No, infatti», risponde lui con un lieve sorriso. «Sono stati addestrati tutti dai servizi segreti svedesi a essere il più efficienti e noiosi possibile».

«Però l’efficienza è quella che conta, per come la vedo io».

Mi avvicino ad Annette e le do una sberla su un braccio. «Ehi, e il tuo Drugo?»

«Quando sarai più vecchia capirai che le occasioni non si sprecano mai», risponde con un sospiro. Poi ci guarda alternativamente. «Bene, credo che adesso me ne tornerò a Bakersfield, ora che voi due vi siete ritrovati. La festa è finita. Pensate di cavarvela da soli o vi serve un passaggio fino a casa? A meno che tu non abbia preso di nuovo una stanza al La Quinta, Viktor?».

«Ce l’abbiamo il passaggio», risponde lui per me. «C’è un altro uomo efficiente nella macchina a nolo che aspetta di fuori. Cerca di non terrorizzarlo quando esci».

Annette scoppia a ridere e gli dà una pacca sulla spalla. «Ora capisco perché Maggie è follemente innamorata di te. Hai la mia benedizione». Mi saluta con la mano e se ne va. «Ci vediamo, ragazzina».

Chiaramente lei non nota l’espressione di assoluto orrore che ho sul viso.

O che vorrei si spalancasse il pavimento per inghiottirmi all’istante.

Ha fatto uscire il gatto dalla fottuta cesta e ora il gatto scorrazza intorno a noi come un pazzo.

Viktor mi fissa attentamente e io so che ha sentito quel che lei ha detto, lo so.

Maggie è follemente innamorata di te.

Voglio morire.

Voglio ammazzarla.

Voglio ammazzarla e poi morire.

«Sembra simpatica», dice Viktor con un sorrisetto, e oh mio Dio, ora farà semplicemente finta di non averla sentita, come se nulla fosse successo?

Non sono sicura se sia un male o un bene.

Mi schiarisco la gola. «Già, voglio ucciderla. Cioè, intendevo dire che è un pezzo di pane».

«Un pezzo di pane?». Ha un’aria adorabilmente confusa.

«Vuol dire che è… una brava persona». Mi guardo intorno, ho le guance in fiamme e improvvisamente tutto mi sembra imbarazzante.

«Sei pronta ad andare?», mi chiede. «Ho pagato anche il vostro conto, così possiamo uscire subito».

«Viktor, tu…»

«Non avrei dovuto? Già, be’, l’ho fatto. E sì, ho lasciato una buona mancia. Quella povera barista, è lei che ha dovuto sopportarmi l’altra volta? Io proprio non ricordo».

Annuisco, lui mi prende la mano.

«Dove andiamo per starcene da soli?».