Capitolo 10

Viktor

M
erda.

È mezzanotte passata.

Non sono riuscito a chiudere occhio per un minuto.

Mi sono rigirato nel letto, poi ho guardato la tv, poi mi sono messo a camminare avanti e indietro per la stanza. Nel cuore ho un nido di calabroni che ronzano malevoli e i loro pungiglioni non fanno altro che accanirsi sulla stessa ferita, ancora e ancora.

Lei sa chi sono.

Maggie, questa ragazza fatta di dolcezza e luce, aveva un segreto grande quanto il mio.

Sono stato un tale idiota a credere che non potesse scoprire la verità. Ovviamente l’ha scoperta e aveva secondi fini. Per quale altro motivo avrebbe dovuto accorrere in mio aiuto in quel modo, al bar? Davvero pensavo che fosse per bontà d’animo?

Mi sento un idiota. Sono un idiota.

Ero così accecato dalla sua bellezza, dal suo corpo, dal modo in cui mi guardava, dal desiderio di tuffare la testa tra le sue gambe e farle arrossare le guance, che non ho neppure considerato l’eventualità che potesse avere secondi fini.

Cazzo.

Cazzo.

So che non dovrei essere tanto sconvolto per questa storia, che avrei dovuto aspettarmelo. Ma per un momento, là dentro… ho avuto voglia di parlare di Alex. Di come è morto. Ho voluto condividere con lei parti di me che non mostro a nessuno, neppure al dottor Bonakov. Ho avuto voglia di scaricare su di lei tutte le cose vili e amare che mi hanno trascinato giù in quel buio feroce, un buio da cui so che non scappe-
rò mai.

Gigli.

E pensare che lei sapeva esattamente di cosa stavo parlando.

Ma quella non era parte della messinscena.

Era la verità, la sua verità.

I suoi sono stati uccisi e il momento in cui l’ho scoperto, nel taxi, è stato il momento in cui ho giurato a me stesso che avrei fatto di tutto per rendere migliore la sua vita. Se prima ero stato attratto da lei, dopo quel momento ero magnetizzato.

Stregato.

Ora è tutto finito. Quel giuramento si è infranto come il barlume di fiducia che riponevo in lei.

Ma forse avevo riposto in quella ragazza sconosciuta più fiducia di quel che credessi.

Forse è per questo che fa tanto male.

Questo tradimento mi sembra più grande di quel che è perché lei cominciava a significare per me più di quel che avrebbe dovuto. Come il fatto che non mi è mai sembrata realmente una sconosciuta, tanto per cominciare.

E forse è per questo motivo che non posso evitare di sentirmi a disagio quando penso al modo in cui la sua espressione è crollata, al lampante rimorso e alla vergogna nei suoi occhi quando ho scoperto che stava registrando. Mai ho visto qualcuno sbriciolarsi in quel modo davanti a me. La sua speranza e la sua gaiezza si sono disintegrate in un attimo.

Ero arrabbiato. Deluso. Lo sono ancora.

Ma avrei potuto reagire più da gentiluomo. Non era necessario sbatterle la portiera del taxi in faccia a quel modo. Avrei potuto gestire tutto con maggior garbo e comprensione. Sempre di più, mai di meno.

Non sono neanche l’ombra del principe che dovrò essere.

Con un sospiro mi alzo a sedere nel letto, la testa tra le mani. Devo parlare con qualcuno, ma non ho molte persone con cui parlare. Pensavo che Maggie avrebbe potuto essere – o era – quel qualcuno, ma mi sbagliavo. C’è sempre Freddie, ma lui è così clinico nel modo di trattarmi. E i miei genitori… lasciamo perdere.

Prendo il telefono e guardo l’ora. Qui è mezzanotte passata quindi in Europa è mattina. Anche se non ci siamo scambiati più di qualche messaggio di tanto in tanto sin da quando sono partito per questo viaggio, decido di chiamare Magnus.

Magnus è il principe ereditario di Norvegia. Destinato a salire sul trono, fratello maggiore di quattro sorelle scatenate. Non è di molto aiuto il fatto che lui stesso sia piuttosto irrefrenabile, e compare sui tabloid praticamente ogni giorno. Nessuna meraviglia che chiunque in quella famiglia reale beva troppo.

Il telefono squilla un po’ di volte prima della risposta.

«Pronto?», mugugna, sembra mezzo addormentato.

«Magnus. Ti ho svegliato?».

Con un lamento passa allo svedese. «No. Cioè, sì. Ma credo che sia il caso di alzarmi».

«Sei da solo?».

Praticamente posso sentirlo sorridere. «Lo sono adesso. Se n’è andata durante la notte».

«Non è un po’ imbarazzante?». Magnus è un po’ un playboy, a essere generosi.

«Loro capiscono», dice attraverso uno sbadiglio. «Ci sono meno paparazzi che aspettano di fuori, di notte. Il mio autista le riporta direttamente a casa. Nessun danno, nessun affanno». Si schiarisce la voce. «Come va il tuo viaggio? Quand’è che torni?»

«Ho il volo da Los Angeles tra una settimana».

«E il viaggio sta andando…?»

«Sinceramente, mi ha cambiato la vita. La migliore esperienza abbia mai fatto. Neanche per una volta ho desiderato di tornare a casa. Fino a ora».

«Oh oh. Cos’è successo? Aspetta, non dirmelo. C’è di mezzo una donna».

Esito. Quanto non mi va il fatto che abbia ragione. «Forse».

«Viktor», replica con voce deliziata. «Cazzo, l’alce è tornato in campo».

L’alce. Non sentivo quel nomignolo da un bel po’.

«Non è come pensi. Per niente».

«Okay, allora dimmi. Che cosa ha fatto questa donna per farti voler tornare a casa? Te lo ha succhiato male?»

«Mi sa che mi stai scambiando per te».

Si mette a ridere. «E va bene, allora cosa?».

Gli spiego la situazione come meglio posso, cominciando da quando resto bloccato in questa città, che poi vado al bar, e finisco con me seduto in questa stanza d’albergo, proprio l’albergo dove lei lavora, a fare una telefonata intercontinentale.

Quando finisco lui emette un lungo e basso fischio. «Roba complicata», commenta. «Fin troppo complicata per una vacanza».

«Vero, eppure è quel che è successo».

«E quindi cosa farai, riparerai la macchina e partirai da Los Angeles dimenticando tutto quanto e basta?»

«Questo è il piano».

«Questo è il piano?»

«Suppongo di sì».

«Supponi di sì?»

«Falla finita».

«Pianti lì questa ragazza e non le parlerai mai più».

Non mi piace per niente come suona ma… «Sì».

«Stai mentendo».

«Che vuol dire sto mentendo?»

«Ti conosco. Fingi che non te ne freghi nulla, ma non è mai così. Sei di animo nobile, grosso alce che non sei altro, molto più di quanto io sarò mai. Questa ragazza sembra una cui la vita ha riservato le cose peggiori, e tu dici che pianterai tutto e le volterai le spalle?». Ride. «Dimmi, non pensi ci sia una possibilità che possa averti detto la verità?»

«Su cosa?»

«Sul fatto che non sapeva chi fossi prima di ieri sera».

«Come faccio a sapere se sta dicendo o meno la verità? Neppure la conosco. Il che è stato confermato dai fatti».

«Ehi, so che non pensi sempre con l’uccello come faccio io, ma se la molli perché volevi solo farti una scopata, allora ovviamente dovresti piantare tutto e andare a Los Angeles, dove sono certo ci saranno un sacco di donne che non vedo-
no l’ora di succhiartelo, come del resto in Svezia». Fa una pausa. «Per questo motivo, sia detto per inciso, non capisco per-
ché il tuo nome non compare sempre sui giornali come capi-
ta a me».

«Perché io sono discreto su chi mi scopo. Un po’ di discrezione può fare miracoli, Magnus».

«Già, certo. Parli come… be’, un po’ tutti. Ma d’accordo, allora questa ragazza, se vuoi qualcosa di più di una scopata, se senti qualcos’altro per lei, come mi sembra, allora non credo che pianterai tutto e te ne andrai».

«La conosco appena», gli ricordo. «Cosa posso provare per qualcuno che ho incontrato ventiquattro ore fa?»

«Non saprei. Ma immagino sia possibile. E non ti è mai capitato di alzare il telefono e chiamarmi per via di una donna, prima d’ora».

Su questo ha ragione. Ma non serve a estinguere il fuoco che ho in petto.

«Senti», mi dice. «Io penso che tu sappia se sta dicendo la verità o no».

«E anche se fosse sincera? Mi ha comunque registrato, senza che io lo sapessi, per un articolo o un pezzo su una rivista scandalistica, quel che è. Questo lo ha fatto».

«Ma ti ha detto che alla fine ha deciso che non avrebbe usato la registrazione, e a te spetta decidere se crederci o meno. Mi sembra una ragazza disperata e le persone disperate fanno cose che normalmente non farebbero. Cazzo, se avessi una corona per ogni volta che una donna con cui sono stato a letto mi ha rivenduto ai tabloid, be’, avrei ancora più soldi di quanti ne ho».

«Io credo che tu abbia abbastanza soldi, Magnus», commento con voce secca.

«Non è questo il punto, alce. E poi, non le hai mai detto chi fossi. Lo ha dovuto scoprire da sé. E ha accettato te, il tuo falso nome e la tua falsa identità, le bugie che le hai scodellato. E se non avesse scoperto che sei Viktor? Se non fosse mai venuta a saperlo, tu ci finivi a letto e poi ti innamoravi di lei? A quel punto cosa? Alla fine lei avrebbe scoperto la verità su di te, avrebbe scoperto che si era innamorata di una menzogna, e allora la vostra relazione sarebbe andata in pezzi. Diamine, se ci pensi, credo che quel che ti è successo sia stata la cosa migliore».

Merda. Non l’avevo vista da questa prospettiva. Il fatto che se fosse nato qualcosa tra noi, sarebbe stato basato sulle bugie che le stavo raccontando. Che un giorno avrei dovuto dirle che non ero chi lei credeva.

«Be’, allora è tutto una merda, non è così?», commento con un sospiro.

«Sembra proprio di sì. Ora, se non ti dispiace, mi devo alzare e cominciare la mia giornata».

«Hai un impegno importante o vai a fare base-jumping da una rupe, o qualcosa del genere?». Magnus è anche un mezzo drogato di adrenalina, con grande preoccupazione dei suoi genitori e di tutta la nazione, del resto.

«Automobilismo», spiega, e so che in questo momento sta sorridendo. «Domani vado a Monaco per una gara, e poi forse per un po’ di puntate al casinò».

«Fai finta di essere James Bond?»

«Qualcosa del genere. Ehi, in bocca al lupo, Viktor».

Riattacca e in un attimo mi sento ripiombare nel silenzio e nella solitudine della notte.

Guardo il telefono nella mia mano, desiderando di aver chiesto a Maggie il suo numero. Non ho alcun modo di contattarla. Conosco solamente il suo indirizzo.

Potrei scriverle una lettera.

Ma cosa le direi?

Mi dispiace che tu mi abbia mentito.

No.

Mi dispiace di averti mentito.

Le tue bugie non contano, non sei mai stata obbligata a dirmi la verità.

Voglio solo che tu sappia che non serbo rancore, solo una bruciante tristezza per non aver preso un’altra strada rispetto a quello che avrebbe potuto esserci tra di noi.

Ma quel percorso sarebbe stato comunque basato su delle bugie.

Mi dispiace che sia andata così.

Buona fortuna per tutto.

Merda.

Buona fortuna. Odio questo modo di dire. So che è quello che mi ha appena detto Magnus, ma ciò che davvero implicano quelle parole è il fatto di aver bisogno della fortuna. E la fortuna ti serve soltanto se non puoi farcela da solo.

Io posso farcela da solo.

Non ho bisogno di augurare a Maggie buona fortuna e sparire. Sono io ad avere il controllo, sul mio futuro e sul suo.

Mi sfilo i pantaloni del pigiama e metto un paio di jeans, un maglione, prendo portafogli e telefono e scendo di sotto nella lobby.

Il portiere notturno ha il tipico sguardo velato di quasi tutti quelli che lavorano di notte.

«È troppo tardi per chiamare un taxi?», domando.

Si stringe nelle spalle. «Vediamo», risponde con voce atona, alza il telefono e digita un numero.

Viene fuori che non è troppo tardi, e dieci minuti dopo un taxi compare fuori dall’albergo.

È quel dannato Earl White di ieri, quello che conosce Maggie.

«Ancora lei», fa il tipo quando salgo. «Com’è andata la cena?»

«Bene. Io, ehm, ho dimenticato una cosa a casa sua. Le spiace portarmici?»

«È parecchio tardi, amico».

«Sì, be’, sa, il jet lag».

Mi guarda strano, fa spallucce e si mette a guidare. «Ma certo. Mi dica solo che la tratterà bene».

«Maggie?»

«Esatto, Maggie. Ho capito che lei non è di qui, quindi non sono sicuro che conosca i dettagli, ma quel che è successo ai suoi genitori è la cosa peggiore che questa città abbia mai visto. Uno penserebbe che essendo una città che ospita una prigione abbiamo fatto il callo a cose del genere, ma le dico francamente che questa storia è ben oltre la soglia della normalità, per noi».

«E cos’è successo, esattamente?»

«Non gliel’ha detto?». Mi guarda dallo specchietto.

«No. Non la biasimo».

«Immagino che non sia esattamente argomento da cena, eh?».

Mi limito a un sorriso tirato, sperando che vada avanti.

Lo fa. «Be’, cazzo, parliamo di circa un anno fa. Sa, io conoscevo suo padre perché dopo il turno lui andava spesso al bar. Era una guardia carceraria, quelli sono tutti bevitori forti. Non li si può biasimare, con tutto lo schifo che devono gestire», dice pulendosi il naso con una mano grassa e pelosa. «Così spesso mi capitava di riportarlo a casa. Era un tipo a posto, però, non guidava dopo aver bevuto, per l’appunto, e lavorava duro per portare da mangiare a casa. Non era la persona più accorta del mondo col denaro, aveva qualche problema di gioco, ma tutti hanno i loro vizi. Insomma, neanche io sono un
santo».

«Nessuno lo è», concordo educatamente.

«Comunque, in prigione c’era questo delinquente, un vero attaccabrighe, violento, fuori di testa, e ce l’aveva con suo padre, o forse era suo padre che ce l’aveva con lui. Ad ogni modo erano sempre ai ferri corti. Poi un giorno quello esce in libertà condizionale. Va a casa loro. Spara a suo padre e sua madre alla testa mentre stanno guardando la televisione. Spara anche al cane. Grazie a Dio lei non era a casa, neppure gli altri fratelli. Sarebbero finiti ammazzati anche loro, ne sono sicuro».

Non ho parole. La morte di Alex mi ha traumatizzato, eppure Maggie e i suoi fratelli hanno perso entrambi i genitori in quel modo. Neppure riesco a immaginarlo.

Improvvisamente sono più sicuro di quel che devo fare.

«E quindi voi due uscite insieme o cosa? State insieme?», mi domanda.

Scuoto la testa. «No. Solo un amico. Sono soltanto di passaggio».

«Ah, che peccato. È davvero tanto carina. Divertente, lingua affilata. Mi piace. Sarebbe bello vedere che qualcuno le dà un po’ di sostegno. So che il fratello l’aiuta, ma anche così, sa, dev’essere davvero dura».

Annuisco, poi restiamo in silenzio finché il taxi non accosta sotto casa di lei.

«Le dispiace fermarsi ad aspettare? La pagherò per il suo tempo».

«Quanto tempo?», domanda, la luce del lampione che si riflette sul suo cranio mezzo pelato.

Gli metto in mano cinquanta dollari. «Il tempo che pagano questi».

Guarda il denaro e socchiude gli occhi. «Dieci minuti?».

Gli scocco un’occhiataccia. Sii buono.

La mia espressione gli fa cambiare idea. «E va bene, per tutto il tempo che le serve».

Esco dall’auto e mi avvicino alla casa. Le luci sono spente e il modo in cui la luce della luna colpisce l’edificio, mettendo in risalto la vernice scrostata e le assi mancanti, la fa sembrare una casa stregata. In effetti, ora che so che i suoi genitori sono effettivamente stati uccisi lì dentro, quella sensazione si accentua di più.

Non dovrei bussare alla porta perché non voglio svegliare tutti, e sfortuna vuole che la finestra della sua stanza sia chiusa.

Mi chino a raccogliere qualche sasso, mi metto sotto la finestra scavalcando ciuffi di erba alta e comincio a tirarli mirando al vetro.

Merda, spero che sia davvero la sua finestra. Se prendo quella di sua sorella April mi beccherò una sfuriata coi fiocchi.

Mentre aspetto mi guardo intorno, con la sensazione di essere uno stalker. La strada è silenziosa, immersa nel sonno, nessun segno di vita a parte il tassista seduto in macchina che fa finta di non guardarmi. Dopo un minuto in cui non è successo niente ricomincio a tirare sassi.

Finalmente vedo il volto di Maggie alla finestra, la sua pelle chiara, gli occhi più neri della notte, ha un che di spettrale incorniciata nel telaio sbiadito.

Le faccio segno di scendere, sperando che acconsenta.

Scompare alla vista e il mio petto si irrigidisce. Resto in attesa.

Lentamente la porta di casa si apre con un cigolio e lei esce sul portico. È a piedi nudi, indossa una vestaglia bianca che le arriva a metà coscia, nient’altro. Ha ancora quell’aura a circondarla: pallida, fragile, guardinga, mentre mi osserva, i ca-
pelli neri che ondeggiano lievi sulle sue spalle per una brez-
za leggera. Vorrei allungare la mano e passare le dita tra quei capelli.

Solo in quel momento noto il logo del La Quinta sulla vestaglia.

«Un regalo di lavoro?», commento a bassa voce indicandolo.

Guarda in basso e si stringe ancora di più la vestaglia addosso. «Perché sei qui?», sussurra aggrottando le sopracciglia.

«Perché volevo scusarmi».

Sembra ancora più disorientata di prima, il labbro inferiore le sporge leggermente. Quella vista forza il mio cervello ad andare in un’altra direzione, e mi sento la pelle calda, fremente.

«Per cosa dovresti scusarti?», domanda incredula. «Sono io che ho tradito la tua fiducia».

Annuisco. «È vero. Ma io l’ho tradita per primo, cominciando tutto con una bugia. E avrei potuto concludere la serata in modo migliore, invece di essere così ostinato e mandarti a casa in taxi a quel modo. Non sono stato educato a comportarmi così».

A quelle parole sembra rilassarsi, mi guarda con occhi pieni di comprensione. «Sei umano, tutto qui», dice con tenerezza; allunga una gamba, facendo scivolare via la vestaglia che scopre la coscia candida e morbida, e con la punta del piede sottile mi tocca il ginocchio. «Ti è concesso di essere umano, di arrabbiarti e reagire».

Inghiotto a fatica, cercando di non fissarle la coscia quando lei ritrae la gamba. Non so se è per via della luce lunare, del fatto che siamo soli e sussurriamo, o che io non so cosa ci sia sotto quella vestaglia, ma sento l’improvvisa urgenza di infilare la mano sotto, tra le sue cosce. Sentire la morbidezza della sua pelle strizzata tra le dita, poi tirarla su e spingerla contro la parete, lasciare che la vestaglia si apra e scivoli a terra, rivelando il seno nudo. Sono sicuro che brillerebbe, alla luce della luna.

«Che c’è?», mi chiede, un sussurro furtivo.

La guardo e sbatto le palpebre, mi rendo conto che la stavo fissando come un affamato. Sento il cuore che mi pulsa in testa boicottando la mia capacità di pensare, e l’intero discorso che mi ero preparato strada facendo viene dimenticato.

Inclina la testa, mi osserva, ha sempre un’espressione guardinga ma ora i suoi occhi sono curiosi, attendono quel che ho da dirle.

«Comunque sia», riprendo con un colpo di tosse. «Mi sarei dovuto comportare meglio di come ho fatto. E di questo mi dispiaccio. Ma devo sapere, e ti prego di essere onesta: sapevi sin dall’inizio chi fossi?»

«No!», è la sua enfatica risposta, subito dopo guarda su verso le finestre e abbassa la voce. «Non lo sapevo, lo giuro. Ti ho visto nella stanza d’albergo e pensavo fossi solo un cliente comune». Al che alzo un sopracciglio. Lei sorride. «Voglio dire, non proprio comune, naturalmente. Abbiamo già parlato delle dimensioni del tuo, ehm…».

«Cazzo», completo la frase io.

«Ecco», concorda lei, e Dio quanto ho voglia di sentirglielo dire. Ma mi mordo il labbro e la lascio continuare. «Comunque sia, un cliente. Poi ti ho visto al bar, e non lo so, forse ero già attratta da te per motivi che non sapevo spiegarmi, o forse era perché ti avevo già visto nudo, ma eri lì. Era come se fosse il destino a farci incontrare di nuovo. Okay, non è così banale come può sembrare, hai capito quel che voglio dire. E sapevo di doverti aiutare, lo sapevo e basta. Così l’ho fatto. Non sapevo chi fossi».

Parla a duecento all’ora e gesticola un sacco ma vedo la verità nei suoi occhi, nella sua voce sento onestà e capisco che lei non avesse idea della verità.

Prosegue: «Non posso dire che tutto quel che ho fatto per te sia stato per altruismo. Credo che in un certo senso fosse tutto per conoscerti».

«Ha funzionato».

«Più o meno», dice con una smorfia. «Ma è solo Johan quello che ho conosciuto. Non ho mai avuto modo di conoscere Viktor».

«La vorresti questa possibilità?».

Socchiude gli occhi. «Cosa vuoi dire?»

«Perché non ricominciamo tutto da capo?».

Mi guarda senza parlare.

Le tendo la mano. «Ciao, mi chiamo Viktor».

Un sorriso timido le alza gli angoli della bocca e lei fa altrettanto. «Ciao, mi chiamo Maggie».

La afferro e la stringo, con vigore ma anche con calore. «E adesso ricominciamo da capo».

So quel che voglio fare, da cosa partire. Voglio tenerla per mano, far scivolare il mio palmo su per il suo braccio, fino al collo, avvolgere le dita intorno alla nuca e stringerla. Voglio spingerla addosso a me, succhiarle quel labbro imbronciato fino a farla arrossire. Voglio scoprire se ha il sapore dei gelati alla vaniglia. La morbidezza cremosa della sua pelle mi fa pensare che sia così.

Mi ci vuole un sacco di autocontrollo per tenermi a bada e seguire il mio piano.

Prendo un gran respiro e spero che lei non si renda conto di quanto è forte il suo effetto su di me.

«Maggie, stavo pensando che nonostante le ultime ventiquattro ore, noi non ci conosciamo davvero. Tu sicuramente non conosci me. Perciò ti offro la possibilità di conoscermi e nello stesso tempo guadagnare un po’ di soldi».

Mentre parlavo lei annuiva, attenta, ma non appena menziono i soldi si irrigidisce.

«Di cosa stai parlando?». Dal modo in cui me lo chiede mi accorgo che potrebbe aver pensato che stessi parlando di prostituzione.

«Non ti preoccupare, non voglio pagarti per fare sesso con te».

Sgrana gli occhi. «Oh, non stavo pensando a quello. Adesso però sì».

«Ascolta, e se tu facessi comunque l’articolo che volevi scrivere, ma stavolta avessi il mio permesso? Faremmo le cose a modo mio, e a carte scoperte».

«L’articolo?».

Mi guardo indietro per vedere se il taxi c’è ancora, ed è così. Torno a guardare lei. «Esatto. Quello che stavi registrando lo avresti poi messo per iscritto, giusto?».

Si mastica il labbro ma non dice nulla.

«E allora fallo di nuovo. Ufficialmente. Puoi fare foto, quello che ti pare. L’importante è che ci sia il mio consenso su quello che scrivi prima che lo mandi a chiunque lo avresti inviato. Possiamo anche spedirlo ai tabloid svedesi. Puoi immaginare le corone che sborserebbero per averlo».

«Quante corone?».

Rido. «Un bel po’. Abbastanza per comprare tutte quelle cose che servono alla tua famiglia. E anche più. Direi quindici o sedicimila corone».

«Oh mio Dio, così tante!». Quasi le esplodono gli occhi fuori dalle orbite.

«Sono circa duemila dollari americani», chiarisco. «Ma è comunque una bella cifra».

Le sue spalle si afflosciano un po’ mentre si rigira quell’idea nella mente. «Ma… perché vorresti fare una cosa del genere?»

«Perché tu mi hai aiutato. Ora io aiuterò te. È così che funzionano queste cose».

«Credi che io sia una che chiede l’elemosina».

«No, Maggie», replico prendendole entrambe le mani. «Credo che tu sia una bellissima persona».

Il suo sguardo indugia sulla mia bocca per un momento interminabilmente lungo, poi sbattendo le palpebre sale fino a incontrare i miei occhi. Ha un’aria timorosa, incerta, c’è una piccola ruga che si è formata tra le sue sopracciglia. Non capisco se è per via di quel che le ho proposto o perché le ho detto che è bellissima, ma non ho intenzione di agitare le acque.

«Ascolta», dico lasciandole le mani e facendo un passo indietro. «Puoi chiamarlo La mia settimana con il principe. Andrà a ruba».

«È solo che…». Distoglie lo sguardo, i suoi occhi cercano l’oscurità del cortile di casa come se potesse trovarci qualcosa acquattato.

«O chiamalo come ti pare», mi affretto ad aggiungere. «Volevo solo dare un contributo, e credo che sarebbe divertente. Per tutti e due».

«Io devo lavorare molto questa settimana. Come tutte le settimane. E tu stai per partire».

«Io non sono obbligato. Andrò a Los Angeles e tornerò a casa come promesso, ma posso trascorrere qui il resto del tempo fino ad allora».

«Il mio lavoro», ripete.

«Fortunatamente lavori dove io soggiorno».

«Ma non posso farmi vedere con te».

«Non dev’essere per forza difficile. Tu fammi entrare nella tua vita questa settimana e io ti farò entrare nella mia. Non è necessario distoglierti dalla tua famiglia. Anzi, che ne dici se vengo domani sera e preparo la cena per tutti? Possiamo fare l’intervista dopo mangiato».

«Cucineresti per tutti?», domanda incredula.

«Non so fare soltanto polpette svedesi», ribatto.

A quelle parole si mette a ridacchiare e le sue guance si accendono. Chissà perché.

Guarda alle mie spalle e nota il taxi. «Ma quello… non è Earl? Ti sta aspettando?»

«È a posto. Credo che adesso siamo amici. Dimmi solo che lo farai».

È combattuta. Ma capisco che è più incline al sì.

«Io voglio aiutare», aggiungo. «E prima che protesti di nuovo dicendo che è elemosina, ti rispondo che lo faccio perché mi piaci. E prima che obietti che è troppo, ti rispondo che è così che faccio io. Sempre di più, mai di meno. Non esiste il troppo, per me».

Sospira e si arrende, alza per un attimo gli occhi alle stelle e pare che stia avendo una conversazione silenziosa con Dio.

Poi mi elargisce il più dolce dei sorrisi, del tipo che ti fa squagliare lì seduta stante, e sotto la luna dice: «Okay».

Sorrido, euforico. «Okay». Indico la strada col pollice. «Bene, ora è meglio che io torni in albergo, e tu nel tuo letto. So che domani attacchi presto al lavoro».

«Già», risponde. «Suppongo che potrei vederti nel corso della giornata».

«Sarà dura fingere di non conoscerti», ammetto.

Mi saluta con un piccolo svolazzo della mano, poi si volta ed entra in casa.

Resto lì per alcuni secondi a chiedermi se dovrei seguirla. Se quando ho detto che ricominciavamo da capo avrei dovuto suggerire di usare il fast forward e arrivare subito nel mezzo.

Ma non ne ho il coraggio. È notte fonda ed è stata una giornata campale per entrambi. E poi c’è il taxi che aspetta col tassametro acceso.

Alzo gli occhi alla sua finestra sperando di intravederla ma non ci riesco, allora torno indietro e salgo sul taxi.