Capitolo 1

Maggie

Un anno dopo. Tehachapi, California

«D
ove cavolo stanno i Frosted Flakes?»

«Rosemary, non dire “cavolo”».

«Ci sono solo i Cornflakes».

«Okay, chi è che ha finito il succo d’arancia e ha rimesso il cartone vuoto in frigo?»

«Perché non spargi un po’ di zucchero sui Cornflakes e basta? Sono uguali ai Frosted Flakes».

«Non sono neppure Cornflakes. Si chiamano Fiocchi di Mais. Non ci possiamo neppure permettere i veri Cornflakes».

«Lo sapevi che i Cornflakes furono inventati per far smettere ai bambini di masturbarsi?»

«April! non davanti a Callum».

«Che cos’è masturbarsi?».

Chiudo gli occhi e cerco di tornare con la mente al luogo felice e sereno di cui mi parlano lo yoga e i video di meditazione su YouTube. Ormai sono mesi che li uso per lo stress e l’ansia, e credo di dover accettare il fatto che il mio luogo di felicità e serenità semplicemente non esiste.

«Ragazzi, fate silenzio tutti», dice Pike con la sua voce profonda, zittendo chiunque in cucina. «Farete venire a Maggie un aneurisma».

Una breve pausa.

Riesco a sentire l’orologio del nonno che ticchetta in corridoio.

Alla fine Callum chiede: «Cos’è un aneurisma?».

Apro gli occhi e non posso fare a meno di sorridere al mio fratellino più piccolo. Ha solo sette anni ma è sveglio e fa sempre domande intelligenti. E si mette sempre nei guai, come ho scoperto di recente.

«È quello che mi verrà se voialtri non vi comportate come si deve».

«E che cos’è masturbarsi?»

«È quello che fai se non riesci a trovare nessuno da portarti a letto», risponde April sottovoce.

«April», la rimprovero io, ma lei non fa una piega di fron-
te alla mia occhiataccia. Non lo fa mai. Il che mi fa imbestia-
lire.

Sospirando, mescolo dei fiocchi d’avena istantanei nell’acqua che bolle sul fornello, e in cucina torna il caos.

Non ho mai chiesto di essere il tutore legale dei miei fratelli. Non ho mai chiesto che i miei genitori fossero brutalmente assassinati proprio nella casa in cui viviamo tutti. Non ho mai chiesto di rinunciare ai miei sogni professionali e a quelli di una vita migliore per tornare qui a Tehachapi a raccogliere i pezzi di tutte le esistenze che sono state completamente infrante.

Mai chiesto nulla di tutto ciò. Nessuno di noi lo ha fatto. Ma sono qui e faccio del mio meglio ogni giorno per assicurare ai miei fratelli e sorelle un futuro più luminoso.

Ma cazzo se è difficile. Ero legata a mia madre, anche se abbiamo avuto molti anni di alti e bassi come sempre capita tra madri e figlie. Però mai una volta ho pensato a quanto dovesse essere difficile farci crescere tutti. Sapevo che si faceva il culo al lavoro, e che se lo faceva anche mio padre. Sapevo che riuscivamo sempre a tirare avanti a fatica. Sono cresciuta in un mondo in cui quando qualcosa si rompeva o lo riparavi o aspettavi per anni un rimpiazzo che non era poi tanto migliore. Dove i cesti degli sconti e i mercatini dell’usato e la generosità dei vicini erano la nostra unica vera fonte di gioia.

Ma non mi ero mai resa conto di quanto fosse emotivamente sfibrante e complesso tirare su una famiglia, specialmente una di queste dimensioni, con così tante personalità diverse, e spesso in conflitto.

C’è Callum, che è il più piccolo. Ma quando dico che si mette nei guai quel che intendo è che nel momento stesso in cui gli dici di non fare qualcosa, lui la fa. E per quanto sia intelligente e curioso, fatica a seguire a scuola e si azzuffa con gli altri bambini. Potrà sorridere parecchio e avere grandi occhi azzurri e brillanti, ma io riesco a vedere la sofferenza e la frustrazione che c’è dietro.

Ci sono le due gemelle, Rosemary e Thyme (sì, sì, lo so, come la canzone), che hanno undici anni. Nonostante i loro nomi, che non causano altro se non grandi alzate d’occhi al cielo, le gemelle sono intelligenti, lavorano sodo e sono diligenti. Neppure si assomigliano: Rosemary è un’atleta in erba, mentre Thyme è una dark in erba. Al contrario di quel che potreste pensare, Thyme è quella estroversa e Rosemary può essere competitiva e scontrosa. Ma a parte Pike, sono loro che mi aiutano di più in casa.

April ha quattordici anni, smania per i ragazzi, è carina – e lo sa – ma è anche piena di rabbia. Tutto ciò messo insieme dà come risultato una forza micidiale. La mia più grande paura è che a un certo punto rimanga incinta o magari cominci a drogarsi, se non ha già cominciato. Magari qualcosa di peggio. Quasi sempre sono preoccupata per lei e quasi sempre lei mi detesta, credo che la nostra relazione funzioni più o meno così.

E poi c’è Pike. Adesso che ha diciotto anni e ha finito le superiori è abbastanza grande da essere il loro tutore legale, perciò praticamente ci dividiamo i compiti. Stava per andare all’università con una borsa di studio ma poi la morte dei nostri genitori ha mandato all’aria l’ultimo periodo di scuola e lui ha cannato praticamente tutte le materie in cui doveva eccellere. Non ci riproverà neanche. Adesso si è messo in testa di fare il tatuatore invece del paleontologo come voleva all’inizio. Alla faccia del ripensamento. È un tipo silenzioso, non parla molto e passa un sacco di tempo a fumare sigarette e a mettersi inchiostro addosso.

La mia famiglia è sempre stata un po’ complicata prima che i miei morissero, perciò potete immaginare che chiunque qui, inclusa la sottoscritta, ci sta ancora parecchio sotto, e tutti cercano di fare i conti con la perdita come possono.

«Ehi», fa Pike avvicinandosi con dei fogli in mano. «R. e T. vanno a una gita scolastica alla base aeronautica e servono le autorizzazioni. Ah, e la maestra di Callum vuole che andiamo a parlare con lei».

Sospiro di nuovo mentre mescolo vigorosamente il porridge. «Perché ne parliamo adesso? Dov’erano questi fogli ieri sera?». Butto un occhio all’orologio. Devo portarli tutti a scuola prima di tuffarmi nel lavoro.

«Rosemary se n’è dimenticata», dichiara Thyme con aria timida.

«Oh, e tu no?», ribatte Rosemary caustica.

Neanche mi prendo la briga di guardare Callum. So che ha un sorriso malandrino stampato in faccia. Non capisco perché gli piaccia tanto mettersi nei pasticci.

«Puoi firmarli anche tu, questi», dico a Pike strappandogli di mano i fogli e, o Gesù, credo che adesso si sia anche tatuato le nocche. «Che cosa sono questi?», chiedo indicando i tatuaggi freschi.

«Geroglifici», risponde lui come se niente fosse, porgendomi una penna. «Fatti con l’inchiostro».

«E che significano?»

«Che cosa sono i geroglifici?»

«Dai, Callum, non fare lo scemo, lo sai cosa sono», dice Rosemary.

«Rosemary, non chiamarlo scemo», la rimprovero io, poi guardo Pike con un sopracciglio alzato. «Promettimi solo che non cominci a tatuarti la faccia. Hai una bella faccia».

Mi elargisce un sorriso, una rarità. «Davvero?»

«Non montarti la testa, ma sì. Sei l’unica speranza che ha questa famiglia di trovarsi una tardona piena di soldi. O un tardone. Non staremo a giudicare, basta che ci passi i soldi sottobanco».

«Cos’è una tardo…?»

«Callum, smettila di fare tutte queste domande!», urla qualcuno.

Io firmo in fretta le autorizzazioni e vado al calendario appeso al frigo, dove scrivo un appunto su un incontro dopo la scuola con la maestra di Callum.

«Vuoi andare tu o ci vado io?», domando a Pike. «È di sera».

Lui fa spallucce. So che non vuole andare e so anche che lo farà se glielo chiedo. Ma ha appena cominciato a lavorare come meccanico in un’officina qui vicino e spesso torna sfinito. E poi legalmente parlando i bambini sono un problema mio, non suo.

«Vado io», gli dico.

«Sicura?».

Gli rivolgo un sorriso stanco. «Potremmo andare tutti e due ma non abbiamo i soldi per una babysitter». E qualcuno si rifiuta di guardare i bambini, finisco la frase nella mia mente.

Annuisce. Non gli serve neppure di guardare April, sa che è a lei che sto pensando. Se fossi una madre migliore – correzione, non sono la loro madre – ma se fossi più brava a imporre regole e disciplina, forse potrei convincere April a guardare i suoi fratelli.

Ma non sono brava in nessuna delle due cose. Con questa famiglia devo saper scegliere le mie battaglie.

«State tutti e due parlando ancora di me?», chiede Callum innocentemente.

Gli lancio un’occhiataccia che spero lo immobilizzerà sulla sedia, ma come April anche lui è immune. Si caccia in bocca i Cornflakes, anzi, i Fiocchi di Mais Senza Marca, e sorride, col latte che gli cola sul mento.

Io alzo gli occhi al cielo.

«La tua maestra non è contenta di te, Callum», dice Pike versandosi una tazza di caffè e sedendosi accanto a lui. «Di nuovo».

Callum si stringe nelle spalle, mangia altri cereali, sorride.

Quel bambino si appresta a diventare un sociopatico.

«Maggie», fa April gettando il suo piatto nell’acquaio, ed è praticamente un ringhio. «Faremo tardi».

Guardo l’orologio sul forno a microonde. Ha ragione.

Butto giù in fretta metà del mio porridge, agguanto una mela e poi urlo: «Okay, state a sentire tutti, il bus parte adesso!».

Alla morte dei miei abbiamo ereditato tutti dei soldi. Sfortunatamente loro due non avevano molto denaro in generale e non sottoscrissero la migliore delle polizze. Ho ricevuto la mia parte sei mesi fa ed è stata appena sufficiente a comprarci un preziosissimo minivan che prendesse il posto dello sgangherato rottame di prima, più qualcos’altro che abbiamo messo da parte. Anche Pike ha contribuito ai risparmi dopo essersi comprato una motocicletta usata, che poi ha cominciato a riparare. Tutti gli altri devono aspettare di fare diciotto anni per reclamare la loro parte, anche se ho la sensazione che nel caso di April le servirà per comprarsi un biglietto di sola andata via da qui.

Non la biasimo.

Per fortuna il mutuo della casa è stato estinto e anche se il grosso casermone è fatiscente e sta a cavallo di una collina che sovrasta sia la Statale 58 sia la ferrovia, il che causa tremori e chiasso infinito a tutte le ore del giorno e della notte, è sempre casa nostra. Inoltre le tasse di proprietà sono basse e gestibili.

I gemelli discutono su chi debba stare davanti, con Rosemary che alla fine vince per via del suo magistrale colpo di gomito, mentre Thyme, Callum e April montano di dietro. Saluto Pike con un colpo di clacson, poi agito la mano all’indirizzo dei nostri dirimpettai, i Wallace, che sono fuori a fare giardinaggio. Sono vecchi come il peccato e adesso che siamo in maggio e il torrido caldo estivo è già qui, li si trova all’aperto solo le prime ore del mattino.

Lascio Callum per primo visto che la sua scuola elementare è la più vicina, poi le ragazze, quindi dopo un lungo sospiro mi dirigo al lavoro.

Dopo aver saputo dei miei non c’è stata più nessuna università, niente più corso di giornalismo. Sono saltata sul primo aereo e ho incaricato Sam di spedirmi tutta la mia roba a casa. Essendo la buona amica che è, qualche giorno più tardi è anche arrivata con buona parte delle mie cose, per essermi vicina durante i funerali.

Nel momento stesso in cui sono tornata a Tehachapi il caos si è scavato un posto permanente nel mio cuore, al punto da mettere in ombra il mio cordoglio, a volte. C’erano momenti in cui caos e dolore si alleavano e in quei giorni non volevo fare altro che chiudermi in bagno, entrare nella vasca e piangere. Qualche volta l’ho fatto, desiderando di poter andare alla deriva in un posto dove il dolore non riuscisse a raggiungermi, dove la tristezza non facesse il nido nelle mie ossa e dove non mi sentissi sempre tanto sopraffatta.

Ma non ho potuto farlo per molto. Dovevo tenere duro per il bene di tutti quelli attorno a me. Ci sono state riunioni con gli avvocati e le compagnie di assicurazioni, la polizia e i medici legali, insegnanti, scuole, imprese di pompe funebri, vicini. Anche se i miei genitori tiravano sempre avanti come potevano, erano benvoluti da tutti e c’è stata molta solidarietà.

A me non sembra neppure di aver avuto la possibilità di viverlo, il lutto. Sono andata da una psicologa qui in città ma anche quello era troppo per me, trattandosi di un’amica di mia madre. Così ho dovuto affrontare la loro morte come ho affrontato tutto il resto.

Compreso lo scoppiare in lacrime nell’intervallo tra il lasciare i miei fratelli a scuola e l’andare al lavoro. Sono solo dieci minuti di strada da un capo all’altro della città, ma mi sembra che sia l’unico momento che ho per stare con me stessa, e per pensare.

Per forza di cose la mente va a mamma e papà e a tutto quello che ho perso. Per certi versi è meglio essere carica di lavoro e costantemente impegnata, perché il dolore resta in sottofondo, ma quando riesco a trovare quei momenti con me stessa, in macchina o a letto di notte, certe volte la sofferenza mi travolge. Invece di un lento stillicidio è uno tsunami.

Stamattina però sto facendo tardi al lavoro. Non ho tempo per riflettere e sentirmi triste o macerarmi nell’autocommiserazione. Ho ripreso il mio vecchio posto al La Quinta come cameriera ai piani, ma se non altro sono un gradino più in alto rispetto a quando lavoravo lì da adolescente. A dire il vero ho preso proprio il vecchio posto di mia madre, il che mi fa troppo impressione, ma almeno riesco a portare a casa da man-
giare.

Parcheggio il minivan nella solita piazzola, prendo una divisa di scorta che tengo nel vano portaoggetti (perché naturalmente la mia l’ho dimenticata nella lavatrice, a casa), poi mi sposto sul sedile posteriore e mi cambio. In questo sono diventata un’esperta, come Clark Kent che si trasforma in Superman dentro una cabina del telefono, solo che io mi trasformo in una cameriera dentro un minivan.

Un attimo dopo sto entrando di corsa nell’albergo dall’ingresso posteriore, sperando di riuscire a mettermi subito a lavorare senza essere notata.

Chiaramente vado a sbattere contro Juanita, la mia superiore.

«Cinque minuti di ritardo, Maggie», mi fa col suo tono serio. «Sarà meglio che questo non diventi un problema».

«Lo so, mi spiace», rispondo legandomi indietro i capelli con gesti frenetici. Questa cosa si sta ripetendo spesso, e lo detesto.

«Dovresti davvero convincere tuo fratello a portarli lui i bambini a scuola», aggiunge lei, e la durezza dei suoi lineamenti si trasforma in un’espressione comprensiva. «Proprio non so come tu riesca a farcela».

«Ci riesco a malapena e tu lo sai», rispondo con amarezza. «E inoltre non potrei andare avanti senza questo lavoro. Perciò grazie, non succederà più».

Juanita si limita a un cenno d’assenso, io mi allontano e mi metto subito al lavoro.

Com’è facile immaginare, la curva di apprendimento della mia nuova vita è stata mostruosamente alta, ma per fortuna sono stati tutti molto d’aiuto e pieni di comprensione, inclusa Juanita. So bene che la loro solidarietà non durerà per sempre. In fin dei conti, o sono tagliata per qualcosa oppure non lo sono.

E ancora non sono certa di quale sia il verdetto.

L’unica cosa che so è che non posso permettermi di fallire.

Benché fare la cameriera in un albergo non sia un’occupazione affascinante, specialmente se l’albergo in questione è economico, accanto all’autostrada e considera i waffles che danno a colazione come uno dei suoi punti di forza, io non odio questo lavoro. Okay, questa è una bugia. Ha molti aspetti che detesto, ma non quelli che pensate. Tutta la faccenda di pulire la sporcizia lasciata dalla gente, lavare via la merda dai bordi della tazza del bagno (letteralmente), trovare in giro preservativi usati, avere a che fare con lo schifo generale di peli e fluidi corporei sparsi ovunque e quant’altro, quella è la parte tollerabile. Sarà che sono cresciuta in una famiglia numerosa, o forse perché mi sono abituata a fare proprio questo lavoro quando ero un’adolescente.

Quello che odio è qualcosa che non mi era neppure passato per la mente quando ero più giovane. A quei tempi stare dalla parte dei poveri non mi pesava come potreste pensare. La mia non è una città ricca e ci sono molte famiglie che faticano per arrivare a fine mese. La mia storia non ha nulla di speciale.

Ma dopo essere andata via, dopo aver vissuto a New York e aver visto il mondo là fuori, il mondo che avrebbe potuto essere mio… odio il modo in cui la società guarda la gente come me dall’alto verso il basso. Cameriere, donne delle pulizie, domestiche, colletti blu: non abbiamo che una frazione del rispetto che meriteremmo.

Tanto più quando c’è un cliente (maschio o femmina) arrogante e che ti tratta come se fossi spazzatura mentre lavori, fa commenti derisori, lancia occhiate sudice mentre tu stai solo cercando di tirare avanti, si lamenta di casini inesistenti forse fatti da qualcun altro e oltretutto, ovviamente, non lascia la mancia.

Oggi lavoro il più rapidamente ed efficientemente possibile, lascio la testa sgombra da distrazioni, per quanto possibile, e mi annullo completamente nell’impegno. Devo ammetterlo, c’è qualcosa di gratificante nel fatto di entrare in una stanza dove sembra sia esplosa una bomba e riuscire a rimetterla completamente a nuovo, è un miglioramento che si può constatare con gli occhi. E alla fine della giornata posso contemplare il lavoro svolto e sentire di aver fatto la mia parte.

Sono arrivata all’ultima camera del mio giro, su questo piano, e busso rapidamente alla porta.

«Cameriera», annuncio ad alta voce.

Nessuna risposta.

Busso ancora e controllo che non ci sia il cartello “non disturbare” alla porta. «Cameriera», ripeto, poi tiro fuori la mia chiave.

La striscio e la porta si apre con un bip.

Entro per fare la mia ispezione generale, tanto per essere certa che non ci sia nessuno. Succede più spesso di quel che credereste.

Nel farlo quasi vado a sbattere contro un uomo che esce dal bagno.

Un uomo alto. Tipo un cazzo di gigante.

Una bestia gigante e nuda.

Mi blocco immediatamente, sussultando, e il tipo si allontana da me tornando nella stanza. Pare non mi abbia notato. Anzi, si muove con una certa spavalda noncuranza, giuro. Nudo, fico e spavaldo.

So che dovrei uscire di corsa prima che si giri e mi veda. Potrebbe essere anzi uno di quegli incontri di cui ho sentito parlare le altre cameriere, in cui c’è un uomo nudo che “fa finta” di non averti sentito bussare, e la mossa migliore in quel caso è andarsene al volo.

Ma questo qui…

Non riesco a togliergli gli occhi di dosso.

Dovrei, proprio dovrei ma è così… alto.

Largo.

Pelle liscia e abbronzata, spalle incredibilmente ampie, muscoli sinuosi che rotolano giù lungo la schiena.

E poi il suo sedere.

Oh, mio Dio, quel sedere.

Il fatto che ci sia una leggera linea dell’abbronzatura che risalta sulla sua pelle fulva lo fa sembrare ancora più sodo, come una pesca succulenta che vorrei solo mettermi in ginocchio e mordere e…

Si gira.

Ho a malapena il tempo di spostare gli occhi dalle sue parti basse e alzarli fino al viso, dove vedo quei maledetti auricolari wireless nelle sue orecchie.

Sta ascoltando la musica.

Ovviamente.

E mi guarda con dei bellissimi occhi color cielo, sgranati per lo stupore.

«Mi dispiace tantissimo», sbotto sforzandomi come una matta di tenere gli occhi all’altezza dei suoi e non sul suo pisello, che lui tenta di coprire con la mano e anche se è soltanto al margine del mio campo visivo e lui ha mani larghe, è un tentativo vano. Una cosa del genere non si può coprire.

«Non l’ho sentita entrare», dice ad alta voce con uno strano accento, poi si toglie gli auricolari e così il pisello resta lì a penzolare liberamente.

Non guardare, Maggie, non guardare.

E invece io mi metto a fissare.

È un uccello pazzesco.

Giuro che lo vedo perfino avere contrazione, quel lungo, scuro pitone carnoso, che mi fa desiderare di trovarmi in un film porno, così potrei gettarmi in ginocchio. Mai visto un pene così grosso e bello nei pressi della mia bocca prima d’ora, però scommetto che saprei cosa farci.

E mentre sto lì a guardarlo attonita la mia chiave magnetica mi scivola dalle mani e finisce in terra.

«Merda», mi scappa di bocca mentre mi chino per raccoglierla.

Proprio mentre anche lui si china per fare altrettanto.

Spaventata dalla vicinanza di quel pene gigante, sbatto le palpebre e mi tiro su.

E con la testa lo colpisco al mento.

«Mi dispiace tanto!», urlo di nuovo e simultaneamente mi tiro indietro massaggiandomi la nuca pulsante.

Lui è ancora più allibito di prima, si tocca il mento con la mano e mi guarda confuso.

«Mi spiace davvero!», ripeto di nuovo, consapevole di stare urlando, e riesco a voltarmi e a dirigermi verso la porta prima di assalirlo di nuovo.

«Ehm, signorina», fa lui proprio quando sono quasi libera. «La sua chiave».

Cazzo!

Mi volto e lo vedo camminare verso di me, quel dannato uccello che dondola libero come un’ascia da guerra, e tra le lunghe dita stringe la mia chiave.

Mi piazzo una mano sugli occhi in modo da non vedere nulla, riesco a prendergli la chiave poi rapida mi giro e filo via. Sono abbastanza certa di mormorare qualcosa come «mi spiace», o forse «pene», mentre mi allontano, ma alla fine per fortuna riesco a uscire sul corridoio e a richiudere la porta.

«Porca merda», mormoro, poi comincio a spingere il carrello delle pulizie più veloce che posso lungo il corridoio, il viso in fiamme. «Porca merda».

Dio, spero che non sporga reclamo, dicendo che ho cercato di sbirciarlo nudo o qualcosa di simile. Altro che “cercato”. Non avrei potuto evitare di guardarlo neppure se avessi voluto.

Avresti dovuto sforzarti di più.

Ed è vero. Avrei dovuto. Immagino sia una prova di quanto sono sola, o di quanto sono arrapata. La mia vita sessuale, la mia vita sentimentale, tutte cose finite nel dimenticatoio da quando sono tornata a Tehachapi. Non era un granché neppure a New York, ma almeno ero uscita un paio di sere, avevo fatto sesso una volta o due. Ormai tiro la cinghia da un anno e credo che gli effetti comincino a farsi sentire. A quanto pare strani uomini nudi sono sufficienti a farmi andare fuori di testa.

Però quello non era un uomo qualsiasi. Era almeno un metro e novanta, con mani più larghe della mia faccia e un corpo che sembrava scolpito nel bronzo. Aveva occhi che mi ricordavano il cielo in un giorno d’estate e un accento che rivelava un’educazione raffinata e origini in un posto molto più interessante di questo.

Era obiettivamente l’uomo più bello e attraente che abbia mai visto e questo senza neppure tener conto del suo pene.

Mi appoggio al muro fuori dallo stanzino delle pulizie e cerco di rimettermi un po’ in sesto, formulando una preghiera silenziosa. Con un po’ di fortuna non rivedrò più quel tipo.