32 – La fine

 

11 giorni dopo – Pomeriggio del 15 maggio 1899 – Lago boracifero

 

Falcino osservò la luce calda degli ultimi raggi di sole scivolare lungo le facciate delle case del Lago Boracifero, messe laggiù, in lontananza. Con malavoglia sfilò il mozzicone di sigaro dalle labbra. Lo spense strofinandolo contro la corteccia della radice sulla quale sedeva e lo fece sparire nel panciotto. Tra non molto avrebbe potuto muoversi, erano due ore che da quel lembo di macchia affacciato sul lago controllava i movimenti lungo la via che attraversava il villaggio in attesa del buio. L’aria profumata della sera tornò a riempirgli i polmoni e un nodo di tosse lo scosse in profondità. “Meglio inghiottire il fumo del sigaro”, pensò. Poi si lasciò distrarre dalla danza dei merli alla ricerca di un posto dove passare la notte. Anche lui avrebbe voluto passare la notte laggiù in quella casa. Solo mezz’ora prima, quando aveva visto Manuela rincasare, aveva faticato per dominare la voglia di correrle incontro. Sentiva dentro una smania incontenibile, aveva voglia di parlarle, di sentirla vicina, di farle una carezza. Da troppo tempo il cuore era attanagliato dalla solitudine e il silenzio del bosco, confondendosi con la notte, gli rendeva affannoso il respiro. Solo la stanchezza, vincendolo, riusciva a farlo sprofondare nel sonno.

Era tornato davanti a quella casa per incontrarla; doveva parlarle e spiegarle quella fuga, quella reazione che adesso anche a lui sembrava inspiegabile. Doveva scusarsi e non importava se lei lo avrebbe insultato e magari cacciato! Ne aveva tutto il diritto, era stato lui il pazzo! Ma ogni parola che Manuela avrebbe detto gli sarebbe stata comunque di conforto. Avrebbe ascoltato di nuovo quella voce; la voce della donna che amava. Qualsiasi esito avesse avuto quell’incontro, tra loro non sarebbe rimasto quel senso di vuoto che c’era adesso… grazie alla sua vigliaccheria.

All’improvviso si rese conto che gli uccelli avevano smesso di saltellare. Le ombre della sera si erano allungate velocemente e il transito sulla strada era svanito. Pensò ai tavoli dentro alle case, a quell’ora erano già apparecchiati per la cena; la maggior parte delle persone ancora nella grazia di Dio era pronta a riunirsi per mangiare. Falcino attese che la penombra confondesse del tutto i suoi vestiti con l’orizzonte e poi si decise ad affrontare la sorte.

 

Il maresciallo Piantini, come faceva ormai da giorni, lasciò la fattoria di Vecchienne e puntò verso il lago. Alzando lo sguardo verso l’orizzonte, accarezzò il profilo delle colline; erano un’onda cobalto che spezzava in due un cielo di fuoco. Solo un batuffolo vermiglio di nuvole nascondeva il sole strattonato dal tramonto. Controvoglia abbassò lo sguardo per concentrarsi sul sentiero, accorciò le redini e cercò di accelerare l’andatura per finire prima il consueto giro della cena. Gli uomini che aveva dislocato di guardia alla casa lo stavano già aspettando da un po’.

In cuor suo lo sapeva… Falcino prima o poi sarebbe tornato a vestire i panni di Ercole Liberati e si sarebbe ripresentato a chieder conto alla donna che aveva abbandonato. Per questo aveva predisposto un punto di guardia per ogni via di accesso alla casa di Manuela Contini.

Mentre il sole affondava definitivamente dietro la collina, Sisto arrivò in prossimità del mulino, si fermò e cambiò strada. Risalì verso Castiglion Bernardi e si avvicinò alla fabbrica di San Edoardo. Percorso un altro breve tratto, costrinse il cavallo a uscire dalla carreggiata e risalì una china boscosa. Arrivato in prossimità di una quercia più grande si fermò e chiamò il suo uomo: — Tutto come al solito Giovanni?

— Niente di niente maresciallo — rispose il carabiniere uscendo allo scoperto.

— Eccoti la cena — disse Sisto, porgendo un fagotto di stoffa con i lembi richiusi in alto. — Buon appetito e… mi raccomando, mentre mangi continua a tenere gli occhi aperti. Quello che non è capitato in tanti giorni può succedere in un minuto.

— Non vi preoccupate maresciallo, gli occhi funzionano ancora bene e… grazie per il servizio — rispose l’uomo aprendo il canovaccio.

Salutato Giovanni, Sisto tornò sulla strada. Mise il baio al trotto e si diresse verso la fabbrica del Lago Boracifero. Costeggiò la sponda del lago e arrivò fino al bivio di Collacchia, poi uscì di nuovo dalla strada. Percorse la sponda di un ruscello e, raggiunto un ciuffo di canne più intrigato degli altri, scese dall’animale.

Le canne si aprirono con un fruscio e un altro carabiniere apparve sul prato andandogli incontro.

— Virgilio… ecco la cena.

— Grazie maresciallo — rispose il militare afferrando il fagotto.

Da quella posizione, la casa della Contini non era distante e Sisto riteneva che quello fosse il punto più strategico di tutta l’operazione. Mentre il suo uomo si accingeva a cenare, spinse la vista fino ai baraccamenti dell’azienda boracifera che si allungavano sulla sponda del lago. Da sotto le tegole delle tettoie, esalava un vapore continuo che saliva dalle vasche e dalle batterie di fornelli. L’acqua lattiginosa scorreva in continuo depositando il prezioso contenuto di boro. Osservò i castelli in legno dei pompatori di sollevamento e quelli di perforazione, li immaginò pieni di operai indaffarati e si disse che Anzecchi e i Le Manier significavano molto per quelle terre desolate. Istintivamente abbassò lo sguardo verso le case del villaggio, dove gli operai, ora, stavano al caldo e al sicuro insieme ai propri cari. Quelle finestre illuminate sullo sfondo della strada erano la prova tangibile della lungimiranza imprenditoriale e, se anche quelle agevolazioni erano state concesse per far arricchire il padrone, era stata pur sempre una scommessa vinta per tutti.

D’altronde… che non esistevano medaglie senza il rovescio lo sapeva bene.

Sapeva anche che i Le Manier erano stati maestri nel conciliare determinazione e intransigenza negli affari e sensibilità e umanità nei rapporti con i lavoratori; capacità che nessuna regola politica o sociale avrebbe mai potuto garantire.

Non aveva dubbi… ogni buon rapporto di lavoro era possibile solo grazie al comportamento delle persone, padroni o garzoni che fossero.

Sisto riemerse da quelle considerazioni e, mentre stava per voltarsi alla ricerca delle briglie, gli sembrò di cogliere un movimento in fondo alla strada. Il misero riflesso della luna appena sorta gli permise di intravedere un uomo chino nella penombra, che doveva essere comparso dal bosco soprastante. Lasciò perdere il cavallo e, in silenzio, fece un cenno eloquente al carabiniere che stava cenando, si avvicinò e gli indicò la figura furtiva che si stava muovendo. L’uomo, vestito di scuro, aveva un cappello in testa e un fucile tra le mani. Lo vide affrettarsi e attraversare il tratto inghiaiato per infilarsi tra i canneti che costeggiavano la riva del lago. Appena raggiunse le caldaie, lo seguì e, dopo che ebbe attraversato tutta la fabbrica, lo vide avvicinarsi alla bifamiliare di Manuela Contini; in quel momento Sisto fu sicuro che quell’individuo era Falcino e che il paziente lavoro di attesa aveva dato i suoi frutti.

 

Ercole Liberati uscì dal bosco, si avvicinò ai cespugli che delimitavano il campo e, stringendo il fucile tra le mani, arrivò sulla strada. Fatti pochi passi, s’intrufolò tra i canneti che costeggiavano la riva del lago e raggiunse le caldaie. Il vapore lo avvolse in un abbraccio caldo e asfissiante, mentre il gorgoglio dell’acqua, che scorreva nelle vasche, s’infilò nelle orecchie cancellando ogni altro rumore. Si sentì in pericolo e, per non rischiare sorprese, accelerò il passo dirigendosi verso il blocco delle bifamiliari. Pochi attimi dopo si trovò appiattito contro il muro, proprio sotto le finestre di Manuela. Nel silenzio le parole di una conversazione concitata gli arrivarono nitide. Madre e figlia stavano discutendo e questo non gli piacque affatto.

Un brivido gli scorse lungo la schiena; pareva proprio che la ragazzina avesse iniziato a pretendere più libertà e forse, se in quella casa ci fosse stato un uomo, per Manuela sarebbe stato più semplice gestire le intemperanze di una figlia ribelle. Considerò l’idea di tornare indietro, forse non aveva il diritto di intromettersi ancora nelle loro vite. Avrebbe portato solo altro scompiglio per poi doversene andare di nuovo.

Ercole lentamente si lasciò scivolare lungo il muro e finì a sedere per terra. Sentire madre e figlia discutere e non poter far niente gli faceva pesare il cuore ancora di più. Ma non poteva starsene affogato in quella melma a piangersi addosso. Tirò un sospiro profondo e un moto d’orgoglio fece scattare le gambe. Si alzò in piedi deciso a concludere quello che si era prefisso: voleva riparlare con Manuela per chiederle scusa e lo avrebbe fatto!

Con quattro passi veloci si ritrovò davanti alla finestra della camera. Saltò sul davanzale e con una scossa decisa alla serratura riuscì ad aprirla. Penetrato nella penombra della stanza, senza fare il minimo rumore, si avviò verso il corridoio. La luce che filtrava dalla cucina segnava il tracciato da seguire. Uscì dalla camera, si appiattì sulla parete di fronte all’armadio del corridoio e si fermò. La mente e lo sguardo si concentrarono sul fucile che aveva tra le mani. Se solo avesse potuto rimetterlo al posto, proprio dentro a quell’armadio dove era sempre stato, e cancellare tutto quello che era successo in quei mesi! Quanto lo avrebbe voluto… lo avrebbe proprio voluto! Ma non poteva farsi illusioni, sapeva bene che di “se” e di “ma” era lastricata la strada dell’inferno, e lui il suo inferno se lo era proprio cercato.

Ercole si riprese, smise di pensare a ciò che sarebbe potuto essere e si spostò dietro alla porta della cucina. Sentì la voce di Amelia avvicinarsi velocemente, si schiacciò contro il muro e l’uscio, aprendosi di colpo, lo nascose alla vista. La ragazzina attraversò il corridoio sbuffando e scomparve nella camera senza accorgersi della sua presenza. Falcino attese ancora qualche attimo poi, dopo aver appoggiato il fucile nell’angolo, entrò silenzioso nella stanza: Manuela era seduta a tavola con la testa tra le mani. Fece tre passi e in un attimo le fu alle spalle. Con decisione l’afferrò: una mano davanti alla bocca per non farla gridare e l’altra sull’addome per farla alzare. Appena la strinse sentì la donna divincolarsi con un’energia inaspettata, rinforzò la stretta e subito le sussurrò nell’orecchio.

— Stai calma Manuela, sono io… Ercole. Non voglio farti del male.

La sentì ammorbidirsi di colpo e dovette sorreggerla per non farla finire a terra.

— Ora tolgo la mano dalla bocca, promettimi che non griderai — le disse sussurrando. Mentre lo diceva allentò la presa e la liberò.

Manuela si voltò e infilò gli occhi verdi nei suoi e rimase in silenzio.

Ercole scrutò quei riflessi smeraldo che cullavano pallide lame di luna appoggiate sul mare. Era come guardare un orizzonte agognato ma irraggiungibile. In quel momento si sentì perduto, qualunque parola lei avesse pronunciato lo avrebbe fatto naufragare in quel mare. Per non tradirsi rimase in silenzio e la guardò con più attenzione; il viso smunto e gli occhi cerchiati gli raccontarono di mesi passati nell’ansia e nella preoccupazione. Ed era tutta colpa sua. Solo ora capiva che a pagare per quel gesto d’orgoglio non era stato solo lui. E poi, a cosa era servito tutto il male che aveva fatto? Aveva forse eliminato il sopruso e le angherie dei potenti? No, sapeva bene che nulla era cambiato e che nulla sarebbe mai cambiato. L’unica certezza era stata la vendetta, ma la dignità lavata, che prima gridava d’indignazione per le offese, dopo non era stata capace di liberare il cuore. Il dolore era rimasto lì, chiuso dentro come un castigo. E non c’era più niente da fare, non poteva riportare in vita Odoacre Fusini. Ora poteva solo pagare l’errore e cercare un riparo per la coscienza. Certo non sapeva se ci fosse davvero un Dio dei cieli, ma sapeva con certezza che esisteva un Dio dentro il suo cuore ed era proprio quel Dio che doveva far placare.

— Ercole… — riuscì a dire Manuela, ma la voce si ruppe subito in pianto, mentre con la mano malferma cercò di fargli una carezza.

Falcino allora fece un piccolo movimento, l’abbracciò e la strinse al petto con forza.

Lei ricambiò l’abbraccio e abbandonò la testa sulla sua spalla.

— Non potevo più stare senza vederti — confessò Ercole, impastando le parole; aveva un nodo nella gola che non riusciva a sciogliere.

— Quanto ho sperato in questo momento! Avevo paura che non tornassi più — lo confortò lei.

— Sono tornato Manuela… sono tornato per chiederti scusa! Ho fatto una cosa orribile… la più orribile che potessi fare.

Lei si discostò, gli fece ancora una carezza sulla guancia ispida e disse: — Ora non conta… ora non conta più nulla Ercole. Quello che è fatto, è fatto. C’era un motivo. Il motivo siamo noi. Il motivo è che l’ingiustizia porta l’ingiustizia e la morte porta altra morte. Io ti voglio bene Ercole e non saranno né Fusini, né Thibault a impedirmelo… maledetti loro!

Lui la guardò con orgoglio: — Avevo ragione… sei una donna unica Manuela, sei così… — Ercole si interruppe, avrebbe voluto baciarla, perché con le parole non ci sapeva fare.

— Anch’io ti voglio bene, perché so davvero chi sei…

— Io sono un assassino! — la interruppe perentorio. — Ho ucciso Odoacre, ma non sono stato io a portare altra morte. Il direttore Thibault non l’ho ucciso io. Devi credermi! — aggiunse, accarezzandole la guancia.

— Non sei stato tu? — Manuela sgranò gli occhi.

— Non mi credi?

— Tutti dicono che sei stato tu. Che ti sei vendicato fino in fondo. Prima è toccato a Odoacre e poi a Thibault.

— Manuela, ho ucciso un uomo e non dormo più senza sognarlo, non potrei più uccidere nessuno. — Ercole si passò una mano sulla fronte, per asciugarsi il sudore, poi aggiunse: — Io non ho ucciso il direttore Thibault.

— Io ti credo Ercole, non devi dirmi altro. Io ti credo.

— Maledetto Fusini e maledetto me! — esclamò Falcino portandosi le mani al viso. Sentì ancora una volta salirgli dentro l’impeto ribelle. Era quel vulcano che portava in petto, pronto a eruttare senza controllo, a togliergli l’anima. Manuela non sapeva quello che c’era stato prima tra lui e il barbiere e non era certo questo il momento di raccontarglielo, ma dentro sé, tutto scorreva come un fiume in piena.

Ercole vide gli occhi di Manuela abbassarsi e la seguì mentre, con un movimento lento, si lasciava andare sulla sedia.

— Non devi pensarci più… — sussurrò lei.

— Non posso.

— Ercole quell’uomo era cattivo e tu… — Manuela si alzò e gli prese il viso tra le mani: — tu invece sei troppo buono.

Ercole la guardò contrastando le lacrime, poi piegò la testa e cercò le sue labbra. Rimasero lì, a sentire il dolce contatto dei loro volti, gli occhi negli occhi, il respiro nel respiro. Ercole avrebbe voluto che non finesse più; quella era la pace che aveva tanto agognato.

— Mi dispiace Ercole.

— Ti voglio bene Manuela — sussurrò, — scusami… non sono riuscito a controllare la rabbia.

— Devi darti pace Ercole. Abbiamo questa vita sola e ogni attimo vissuto in pace… vale oro.

— Grazie Manuela, da questa sera, qualsiasi cosa accada, il cuore sarà più leggero.

La vide illuminarsi e si sentì bene. Le cercò le mani, le prese nelle sue e le strinse teneramente. In quella stretta e in quel contatto c’era tutto quello che avrebbe voluto sentire: “Non ti preoccupare Ercole, io sarò sempre insieme a te.”

 

Il maresciallo Piantini osservò di nuovo la luna e gli parve ancora più luminosa. Istintivamente si portò al riparo dei cespugli, frugò nella fondina ed estrasse il revolver. Poi, chiamato a fianco a sé Coricami, si precipitò fino alla strada e, cercando di rimanere più in ombra possibile, si avvicinò alla casa di Manuela Contini.

La frenesia di catturare Falcino rischiava di fargli commettere degli errori, ma il tempo per andare ad avvisare Giovanni non c’era. Avrebbe potuto inviare Virgilio mentre lui sarebbe rimasto da solo a contrastare il bandito. Se avesse deciso di uscire proprio in quel momento avrebbero rischiato di perderlo. No… inviare il carabiniere a cercare rinforzi era un rischio troppo alto, doveva provare ad arrestare Falcino soltanto con l’aiuto di Coricami. Il ragazzo aveva già dato prova di possedere il sangue freddo necessario per affrontare situazioni molto difficili… potevano farcela, non aveva dubbi.

Sisto, dopo aver comandato a Virgilio di seguirlo, arrivò sotto la finestra della palazzina. Rimase fermo, in ascolto, voleva capire dove fosse finito Falcino. Quando sentì la voce oltre la finestra si avvicinò all’orecchio di Coricami e comandò: — Virgilio, più silenziosamente che puoi, fai il giro attorno alla casa verso sinistra, cerchiamo di capire se è entrato dalla porta o da qualche finestra. Io intanto faccio il giro da destra. Il primo che trova qualcosa attende l’altro.

— Bene maresciallo… vado.

Sisto vide il ragazzo sgattaiolare verso sinistra, mentre lui si mosse dalla parte opposta. Girato l’angolo, dopo essere passato di fronte all’ingresso arrivò davanti a una finestra, notò l’anta socchiusa e si fermò. Aspettò l’arrivo di Coricami che non tardò.

— Maresciallo, di là è tutto chiuso.

— Guarda lì Virgilio — Sisto indicò la finestra.

Vide il ragazzo annuire: — È entrato da lì — disse.

— Sicuramente. Ora io provo a entrare. Tu piazzati in un punto dove puoi controllare bene la porta d’ingresso.

— Va bene ma… occhi aperti maresciallo.

— Tu pensa a non farti male. Ci vediamo fra poco.

— A fra poco.

Sisto infilò il revolver nella fondina e iniziò ad arrampicarsi verso la finestra. Una volta sul davanzale, controllò la posizione scelta da Coricami, poi si sporse verso l’interno della casa e provò ad abituarsi al buio. Nella penombra sembrava tutto immobile, la sagoma di un letto e poi di un armadio iniziarono a delinearsi e, a quel punto, ritenne di poter entrare. Appoggiati i piedi sulla graniglia, iniziò a muoversi staccando appena le suole dal pavimento per non fare rumore. Una volta aggirato il letto, si concentrò sulla porta socchiusa e scrutò il corridoio. La luce che arrivava dalla cucina gli permise di vedere bene; la via era libera. Rassicurato, mosse un passo deciso verso l’uscita e lo stivale andò a sbattere in qualcosa. Un rumore metallico, nitido come un rintocco di campana, gli trapassò il cervello. Istintivamente si appiattì dietro la porta e impugnò di nuovo la pistola. Poi osservò nell’oscurità e ai piedi del letto vide la sagoma del vaso da notte; stava proprio lì, davanti a lui, ormai rovesciato.

 

Falcino teneva ancora le mani di Manuela e stava per sedersi accanto a lei, voleva sapere il motivo del litigio con Amelia e, soprattutto, voleva pianificare un modo per poterla rivedere. Non sarebbe potuto rimanere lì ancora per molto; dovevano organizzarsi. All’improvviso i suoi pensieri furono interrotti da un frastuono metallico provenire dalle camere. Ercole sobbalzò, lasciò la presa e si staccò da Manuela. Il primo pensiero andò ad Amelia, ma istintivamente si precipitò a prendere il fucile lasciato dietro la porta.

Quando la donna vide l’arma si lasciò sfuggire un’esclamazione: — No Ercole! Non in questa casa!

Lui la guardò sconvolto, non avrebbe mai voluto vederla così terrorizzata. Il fucile era l’emblema della violenza e lui lo stringeva tra le mani… era pronto a usarlo? Non lo sapeva nemmeno lui, ma ormai si era cucito addosso la tempra dell’assassino e non poteva fare finta di nulla.

— Calmati Manuela! Non succederà niente. Vai a metterti nell’angolo. Adesso me ne vado. Ma tornerò, lo prometto… io ti amo!

Ercole si voltò e si spostò verso l’uscita, ma non fece in tempo ad arrivare alla porta, che questa si spalancò di colpo.

Il maresciallo Piantini con il revolver spianato gli si parò davanti: — Fermo Falcino, non fare un gesto o t’impiombo! — gridò il carabiniere.

Ercole lo fissò negli occhi e vide con quale determinazione il maresciallo lo stava minacciando. Abbassò lo sguardo sul fucile che stringeva in mano e valutò le possibilità che aveva per uscire vincente da quella situazione. Si rese conto di non averne nessuna, tentare una reazione sarebbe servito solo a chiudere definitivamente il conto con quella vita grama che si era scelto. Poi pensò a Manuela. Il rischio che lei potesse essere colpita lo convinse definitivamente a mollare l’arma.

— Non sparate maresciallo, mi arrendo… — e si chinò per poggiare il fucile a terra, poi rialzandosi, in un bisbiglio, aggiunse: — Finalmente potrò liberare l’anima da questo peso.

Il carabiniere continuava a tenerlo sotto tiro: — Non tentare colpi di testa Liberati. Voltati lentamente e metti le mani dietro la schiena.

Ercole indugiò, aveva le membra in tumulto, sembrava che una mandria di bufali volessero uscirgli dalla testa: pensò a Manuela, ad Amelia, al Mariani, a Bardino, alla fabbrica, a Niccolò, al Rinserri, al Thibault e al principe. Pensò alla vita che, fino allora, era scorsa anche troppo veloce e ora si era fermata di botto. All’improvviso sentì galoppargli dentro un’onda di serenità. Un po’ si stupì, ma alla fine capì di essere contento che fosse finita. Ora almeno avrebbe iniziato a pagare il suo debito.

Nel voltarsi incontrò gli occhi in burrasca di Manuela; era ancora ferma nell’angolo della stanza. Indugiò su di lei e in quello scambio di sguardi prolungato s’addensarono più di mille parole.

— Ercole… io — indugiò la donna.

— Non importa Manuela; è meglio che sia finita così.

— Ma noi? Cosa devo fare?

— Niente. Devi solo badare ad Amelia e farla crescere serena.

— E tu?

— Io… non ti preoccupare me la caverò, in qualche modo. C’è solo una cosa… — s’interruppe.

— Cosa Ercole?

— I fichi — disse ermetico.

— I fichi? — chiese lei stupita.

— Sì, a settembre mi piacerebbe mangiarne qualcuno. E non penso che in galera me li daranno.

— I fichi, Ercole… avrai i fichi, non ti preoccupare.

— Grazie Manuela, ora me ne vado felice.

Ercole sentì la stretta delle manette serrargli i polsi e le mani del maresciallo spingerlo verso la porta.

— Andiamo Liberati che abbiamo un po’ di strada da fare.

Ercole guardò per l’ultima volta Manuela, le sorrise di nuovo e uscì dalla stanza spinto dal maresciallo Piantini.