24 – Un funerale tormentato
3 giorni dopo – Primo pomeriggio del 02 maggio 1899 – Cimitero di Pomarance
Arrivati davanti al cimitero, scendeva una pioggia filtrata che s’appiccicava ai soprabiti come una muffa. L’aria era grigia, il mondo era grigio e Luigi Anzecchi… anche. Aveva visto il carro funebre fermarsi e si era spostato di lato. Ora guardava la fila interminabile di persone che lo avevano seguito. Poco distante da lui, il conte Fiorenzo se ne stava fermo in attesa, chino un po’ a sinistra, appoggiato al bastone da passeggio. Luigi sentiva il peso degli sguardi di tutte le persone puntati su di loro, come fossero stati i colpevoli di quella tragedia. Come se episodi di quella gravità, nell’organizzazione e precisione della Le Manier, non potessero e non dovessero accadere mai. Qualcuno aveva sbagliato? Qualcosa non aveva funzionato? Oppure qualcuno aveva preteso troppo non rispettando i patti? Insomma, di insinuazioni e di domande nella testa della gente ce ne dovevano essere a volontà. Non era affatto piacevole sentirsi additati in quella situazione.
Luigi ripensò alle parole pronunciate da Don Bruscolini nella chiesa colma all’inverosimile. L’aveva definita: “Una barbara esecuzione” poi, alzando l’indice al cielo, aveva sottolineato: “Nessuno può sostituirsi alla volontà divina e le anime di coloro che muoiono nel peccato mortale, in inimicizia con Dio, andranno all’inferno subito dopo la morte.” Era stato un monito chiaro; nessuno può sentirsi “salvo”, ma loro non avevano commesso alcun peccato mortale. Ora avrebbero dovuto fare tutto il possibile per rendere giustizia ad Armand Thibault e cercare, nei limiti del possibile, di ritornare alla normalità.
Luigi, sentendo cadere una goccia d’acqua tra i capelli, toccò la mezza tuba che aveva sul capo e si accorse che il feltro era tutto inzuppato. Chinò la testa, si tolse il cappello e lo scosse vigorosamente. Il carro nel frattempo aveva raggiunto l’ingresso della cappella del cimitero. Guardò i portantini alzare il feretro del direttore e con passo cadenzato addentrarsi tra le siepi di alloro. Insieme a quella bara gli parve di veder sfilare anche l’ultimo atto della società Le Manier & C. Le sperimentazioni di Thibault e la loro messa a punto erano probabilmente l’ultima speranza di salvezza per l’azienda, ma ora quell’uomo non c’era più. D’istinto lo sguardo gli cadde sul doppiopetto infiocchettato di Giovanni Fabbretti; quel damerino impunturato era rimasto la loro ultima speranza.
— Questa pioggia è un vero fastidio.
Luigi si voltò; la voce del maresciallo Piantini lo aveva distolto da quel rimuginare che riusciva solo ad avvelenargli il fegato. Guardò il carabiniere fermo sotto la pioggia. Chiuso nella sua divisa da parata, sembrava una statua di cera.
— Caro Sisto, il fastidio non è la pioggia, ma quest’attesa… — sospese la frase e gli si fece più vicino: — Dov’è finito Ercole Liberati? Gli metteremo mai il sale sulla coda? — Le domande erano sibilate direttamente nelle orecchie del maresciallo.
— Datemi ancora qualche giorno principe, lo prenderemo presto. Il cerchio si sta stringendo.
Luigi non rispose e, vedendo avvicinarsi il momento della sepoltura, cercò di rilassarsi. Lentamente si voltò in direzione del corteo soffermandosi sulla fila dei presenti. Luise Thibault seguiva il feretro, severa come una vestale: l’abito nero, lungo fino a terra, sembrava farla fluttuare in aria, mentre un velo di pizzo scuro le avvolgeva il viso lasciando intravedere lo sguardo fisso sulle spoglie del marito. Luigi rimase a osservarla e, ancora una volta, pensò che quella donna doveva possedere doti straordinarie. Negli occhi il dolore si stemperava in una dignità austera e il mento sollevato la rendeva imperiosa. Dietro di lei camminava la domestica. Annina, al contrario degli altri giorni, aveva raccolto i bei capelli ramati in una crocchia di ciocche intrecciate che, insieme all’espressione addolorata, la rendevano molto più vecchia dei suoi vent’anni. In quel momento si stava prodigando a seguire la padrona per confortarla e sorreggerle l’ombrello.
L’osservazione delle due file parallele di donne al seguito del feretro insinuò nella mente di Luigi un pensiero improvviso: “Dov’è Loretta Onorati?” S’impegnò a cercarla nei volti contriti che gli sfilavano di fronte, ma la domestica del francese non era lì tra quelle donne. Allarmato, si mise a cercare anche tra gli uomini e, scorrendo praticamente tutti gli operai, non riuscì a trovare nemmeno il fratello. Anche Frediano Onorati non si era presentato al funerale, l’unico tra gli uomini che lavoravano alla fabbrica di Larderello. E quella concomitanza non poteva essere una banale coincidenza; entrambi avevano deciso di non presentarsi al funerale e lui sapeva bene il perché. Capì immediatamente che quell’assenza non sarebbe passata inosservata; molti si sarebbero posti delle domande e sicuramente avrebbero trovato anche le risposte. Una di queste domande se la stava già ponendo lui: davvero l’astio accumulato dai fratelli Onorati nei confronti del Thibault era così importante?
Mentre rimuginava su quel comportamento, continuò a fissare la folla. Arrivato alle ultime persone ferme alla fine del loggione, rimase colpito nel vedere un uomo che se ne stava molto defilato, quasi in disparte. Cercò di metterne a fuoco la faccia… era sicuro di averlo già visto. Si concentrò sul naso schiacciato e gli occhi così distanti e non tardò a ricordarsi chi era. Come mai il caposquadra della ditta Severé era presente alle esequie dell’uomo che lo aveva prima aggredito e dopo umiliato? Gli parve una stonatura. Possibile che quell’uomo… ma come si chiamava? Cercò di concentrarsi e subito si ricordò: Mario Vinceri. Possibile che Vinceri volesse onorare un uomo che gli era stato così ostile? Oppure era lì per non perdersi lo “spettacolo” e godersi una sorta di rivincita?
Nel momento in cui la cassa del direttore iniziò a scendere nella fossa, tutto si annebbiò. Tutto all’improvviso gli sembrò molto più complicato. L’immagine dell’uomo a cavallo, pronto a sparare ad Armand, ora si era confusa e non era più così scontato che fosse Ercole Liberati. Ora poteva vederci benissimo anche Frediano Onorati che da parte sua doveva salvare l’onore e la dignità della sorella. E perché non immaginarci persino Mario Vinceri? Anche quell’uomo aveva da far scontare al direttore un affronto che non si sarebbe potuto ripagare con delle semplici scuse. Insomma, la presenza del caposquadra e l’assenza dei fratelli avevano aperto nella mente di Luigi una voragine di domande alle quali era necessario dare delle risposte. Poter pensare che a desiderare la morte di Armand Thibault non fosse solo Falcino poteva essere una circostanza tutt’altro che campata in aria. E questa considerazione rendeva alcuni episodi cui aveva assistito assai inquietanti o addirittura compromettenti, se riletti alla luce di quella nuova consapevolezza.
Ma ora… lì, dentro a quel cimitero caliginoso, davanti al loggione delle cappelle familiari, in mezzo al luccichio delle fiammelle dei ceri, mentre la pioggia aveva preso a battere con più insistenza, si sentì così stanco da desiderare solo l’oblio. Silenziosamente si rifugiò nella preghiera e, quando le parole iniziarono a liquefarsi e sgocciolare via con la pioggia, si allontanò.
Il corteo di persone che si era radunato davanti alle cappelle lentamente si sciolse. Il conte Fiorenzo fu il primo a inchinarsi davanti alla vedova porgendole le condoglianze, poi una processione di persone addolorate e ossequiose iniziò a serpeggiare davanti alla donna. Luigi salutò Don Bruscolini che si era avvicinato: — Grazie Don Mario. Avete scelto sagge parole.
— Grazie a voi eccellenza. Dio sa quando un cuore è puro! Giustizia verrà… prima o dopo. I miei ossequi Luigi.
— A voi Don Mario — disse, mentre il prete si stava già allontanando a passo svelto sorreggendosi la berretta per proteggerla dalla pioggia.
Luigi a quel punto si decise ad attendere il suo turno per porgere le condoglianze a Luise Thibault.
— Principe… — lo anticipò la donna quando le fu davanti. La voce era decisamente alterata.
— Scusate Luise. Non deve essere semplice.
— Vent’anni… — disse lei lapidaria e s’interruppe, poi sommessamente riprese: — Forse non sono tanti… oppure sono tanti? Quanto vale il nostro tempo? Quello che abbiamo vissuto, quello che abbiamo concesso agli altri e quello che abbiamo ricevuto. Solo oggi pesa come un sasso. E non avrei voluto sentirlo. Luigi, non avrei voluto sentirlo questo peso. — S’interruppe di nuovo e in fondo allo sguardo pareva stendersi l’infinito.
— Carissima Luise, dovete farvi forza. Il peso della vita è quello che ci è chiesto di sopportare. Non dobbiamo perdere la speranza. D’altronde come potevamo immaginare questo epilogo? Armand era un uomo dalla traccia profonda e doverne fare a meno ci renderà tutti più vulnerabili, ma abbiamo l’obbligo di rendergli giustizia e mostrargli riconoscenza.
— Grazie Luigi, avete ragione, dobbiamo rendergli giustizia, anche se questo non servirà a rasserenarci…
Lui la interruppe deciso: — Non ci rasserenerà, certamente, ma scoprire la verità almeno ci aiuterà a capire e forse…
— Forse potremo farcene una ragione? — chiese lei aspra.
— Forse potremo placare questa sensazione d’impotenza e d’insicurezza e tornare su questa tomba per pronunciare una preghiera più sentita.
— Allora adesso si tratta solo di attendere. La giustizia saprà fare il suo corso. Io… io… intanto riordinerò le cose… dentro — sussurrò alla fine Luise Thibault e lentamente alzò il dorso della mano verso di lui.
— Cercate di tenervi su Luise; accettate le mie condoglianze — disse allora Luigi e, presa la mano della donna nella sua, la sfiorò con un bacio.