2

 

Vargas percorse l’Interstate 87 fino all’incrocio con la 95, prese per il George Washington Bridge, lo attraversò e seguì l’Interstate 95 superando Ridgefield, North Bergen, Kearny, Newark, Elisabeth, Linden, Rahway e Carteret.

All’altezza di Woodbridge, si accorse che un’auto lo seguiva.

Era una Ferrari F50 Hard-Top del 1996.

Nera.

Vargas prese la prima uscita e la Ferrari gli tenne dietro.

Si inoltrò in una impervia strada tutta curve.

Le affrontò al massimo della velocità possibile, ma la Ferrari non mollava la presa.

Era una vera e propria corsa da rally, all’ultimo sangue.

Le curve passavano velocissime sotto le ruote della Viper, che derapava per poi riprendere a mordere l’asfalto, sempre più veloce.

Vargas guadagnò terreno, fino a non vedere più la Ferrari dietro di sè nello specchietto, dopo le strette curve.

Ma sapeva che come un pitbull drogato appena uscito da una cella d’isolamento dove era rimasto al buio e senza cibo per due settimane, non avrebbe mollato l’osso appena trovato.

Dopo una grande curva, dove la strada si srotolava diritta come una lingua di Menelicche in un pianoro deserto e disabitato, Vargas mise la Viper per traverso nella careggiata, saltò giù, vi si nascose dietro ed estrasse dalla tasca sotto l’ascella sinistra la sua Beretta.

Rimase in attesa.

La Ferrari giunse a tutto gas dalla curva e si trovò inaspettatamente la Viper davanti.

Deviò bruscamente sulla sinistra.

Uscì di strada.

Frenò spasmodicamente sbandando alla grande, sputtanando così clamorosamente le garanzie di tenuta di strada della nota Casa italiana.

Girò vorticosamente su se stessa diverse volte, come un’elica incappata in una cima.

E come un’elica incappata nella cima troppo corta di un corpo morto del porto francese di Nice, di colpo si fermò.

Si fermò in mezzo ad una nube di polvere nera sulla terra arida e nera del pianoro, come una seppia in mezzo al suo inchiostro.

Praticamente cieca.

Vargas le fu immediatamente addosso, impugnando la sua Beretta.

Aprì la portiera.

Afferrò il guidatore e lo gettò fuori dell’auto, a terra, puntandogli la Beretta alla testa e tenendolo fermo con un piede pesantemente piantato sul ventre.

Il guidatore della Ferrari indossava un completo di pelle da corridore di rally.

Di colore nero.

Indossava anche un casco, da rally.

Coerentemente, di colore nero.

Con la visiera, naturalmente.

Però fumèe.

Abbassata.

- Togliti il casco! Gli ordinò Vargas, tenendogli il corpo saldamente immobilizzato e la testa sotto tiro della pistola.

Il guidatore sconosciuto alzò le braccia con le mani aperte e stette qualche secondo cosÏ, fermo, a indicare che non aveva armi e nessuna intenzione di reagire.

Poi, lentamente, prese il casco con le due mani e lo tolse.

Era una giovane mulatta bellissima, dai lunghi capelli neri lisci e sottili, dalla pelle ramata, dalle labbra di un rosso carminio carnoso e sensuale, dai grandi occhi di un incredibile blu pervinca, lo stesso colore del ricco cielo yankee, dalle ciglia lunghe ed arquate come le grandi ali distese di un uccello diurno in volo nel cielo notturno di terre lontane alla ricerca di avventura.

Le unghie delle dita che stringevano il casco erano ricoperte di uno smalto dello stesso colore pervinca degli occhi.

- Tutto in tinta, eh? disse Vargas.

Lei non disse nulla, si limitò a fissarlo negli occhi a lungo, intensamente.

Vargas capì.

La lunga corsa in auto della donna aveva un solo scopo.

La morte.

Non quella di lui, ma quella di lei.

Un’ombra di sofferenza infinita passò negli occhi della bella sconosciuta.

Una luce di compassione infinita passò negli occhi di Vargas.

Si chinò e la baciò sulle labbra.

Erano umide e calde.

La lingua di lei, molle e scivolosa come una grossa lumaca lasciva, gli entrò nella bocca e prese ad accarezzarvi ogni più recondito recesso.

Soprattutto una protesi dentaria che lui aveva messo su di recente e che ancora traballava e quindi aveva richiamato l’attenzione incuriosita di lei che non riusciva a capire di cosa si trattasse.

Alla fine capì.

Ci si mise allora a correre su e giù con la lingua come un’assatanata.

Vargas fece scorrere la lampo che chiudeva sul davanti la tuta della creola e il suo corpo apparve in tutta la sua bellezza, nudo, ramato, con i seni turgidi e pieni, i capezzoli eretti nel mezzo di due aureole colore delle prugne, grandi come le palme di una mano, il ventre sussultante sopra il pube soffice e nerissimo, segnato da un’apertura larga e carnosa color rosso sangue, umida e palpitante come un cuore in un’operazione a torace aperto.

Fecero l’amore con veemenza, con rabbia, con passione, con disperazione, con gratitudine, con tenerezza, con abbandono, con serietà, con impegno, con sazietà, con sfinimento, con nausea, con disgusto, con noia.

Vargas ebbe cinque orgasmi.

- Ti è piaciuto? le chiese alla fine.

- Troppo.

La bella sconosciuta, così come era comparsa, scomparve.

Senza una parola rientrò nella sua tuta nera, nel suo casco nero, nella sua Ferrari nera e si avventò sul rettilineo, che per l’occasione era diventato anch’esso nero, a tutta velocità.

Dopo soli cento metri, si spaccò in due il differenziale, il cambio si incastrò sulla retromarcia, scoppiò la marmitta, si bucò un tubo dell’impianto di raffreddamento del motore la cui tempertura salì a trecento gradi, saltò via un disco dei freni anteriori e il sedile sprofondò sotto il pianale raschiando l’asfalto e sparando ai lati della strada scintille lunghe due metri e mezzo.

Così, come un carro che spara razzi multicolori nel cielo impazzito del carnevale di Rio, sparì all’orizzonte.

Vargas estrasse dalla tasca anteriore dei jeans un sigaro cubano, un Romeo & Giulietta che aveva avuto una parte non piccola nell’incontro amoroso di poco prima, essendo venuto a trovarsi in una posizione a dire poco strategica, e che, a parte continue corse pazze avanti e indietro, era riuscito fino ad allora a sopravvivere, riparato com’era dentro il suo contenitore di alluminio, come un astronauta dentro il suo razzo.

Vargas lo tirò fuori.

Il sigaro si rese subito conto che per lui era finita.

Infatti Vargas estrasse dal taschino del giubbotto il suo Zippo CCCXXXIII d’oro con l’emblema dell’aquila americana, che era contentissima di prendere finalmente un po’ d’aria, il quale incredibilmente si accese.

Diede fuoco al sigaro e ne aspirò voluttuosamente il fumo forte ed aromatico.

Accarezzò con uno sguardo languido il largo pianoro deserto.

Qua e là i famosi cespugli a palla dell’Arizona, finiti chissà come nel New Jersey, giocavano a rincorrersi sul terreno.

Salì sulla sua Viper e rifece la strada a ritroso fino a Woodbridge.

Invece di rientrare nella highway, prese una strada secondaria e scese verso Perth Amboy.

Guidava lentamente, godendosi la soddisfazione di tutte le ghiandole, i tubicini, i gangli e le valvoline del suo sistema ormonale, che lo applaudivano entusiasti ed estasiati chiedendogli a gran voce il bis.

Attraversò il ponte sul Raritan River e si diresse verso South Amboy.

Percorse la costa, discretamente e signorilmente popolata di preziose casette bianche con regolare prato e piscina, godendosi lo stupendo panorama del mare della Raritan Bay punteggiato di candide barche, e del cielo, dello stesso colore pervinca degli occhi della bella sconosciuta, punteggiato anch’esso di altre candide barche soffici e cangianti come pallide meduse.

Infine giunse a casa, davanti all’Oceano Atlantico.