Napoli, 13 gennaio 1817

 

 

 

Quella mattina del 1817 mi ero alzato presto, come ormai i dolori lancinanti al petto mi obbligavano da settimane.

Il mio castello, un rudere piuttosto modesto eretto intorno al 1500 dal mio avo Ferdinando Gustavo, si erge nella parte più alta di Napoli, che i napoletani e le carte geografiche chiamano Vomero, e guarda solennemente e sdegnosamente verso il Golfo di Napoli, quasi a sfidarne la bellezza. Le mattine che il sole splende, quando il tempo permette che mi venga servita la colazione sulla grande terrazza che da sulla città, si vede Capri. E io resto lì a fissarla per ore, fino a quando la foschia non la porta via.

Da giorni, come raccontavo, l’insonnia mi tormentava come un pungolo in piena fronte. L’immagine è cruda, ma rende esattamente quello che da settimane provo. I miei medici dicono che è una forma di esaurimento nervoso, altri dicono che è l’aria viziata della città. Da alcuni giorni le tubature si sono rotte e l’aria in città è irrespirabile, lo stesso Re – per grazia di Dio di nuovo sul trono – è stato costretto a rifugiarsi sulle montagne.

Eppure sulla mia terrazza non arriva aria cattiva, e io raramente mi reco in città.

L’esaurimento nervoso è più probabile, eppure io penso che ci sia qualcosa di diverso.

La mia insonnia ha un inizio ben preciso, come tutte le patologie psicofisiche. Ed è su questo che rifletto da alcune ore.

Ma ho bisogno di consiglio, forse vedere il mio caro amico Conte di C. potrebbe aiutarmi a rilassare le idee. Stasera lo vedrò all’Opera.

 

 

 

Napoli, 14 gennaio 1817

 

Ieri sera ho deciso che non metterò più piede all’Opera. E per varie ragioni. Innanzitutto devo dire che non credevo a tutte quelle voci messe in giro secondo le quali l’aria in città sarebbe così irrespirabile, e questo perché ancora non vi ero stato. L’aria è terribile, quasi che mille o più uomini e animali fossero morti tutti assieme e lasciati ad imputridire in una grande distesa. Nel breve tragitto in carrozza che separa il mio palazzo dalla città ho dovuto più volte svuotare la boccetta del profumo inglese dentro la carrozza, e avrei prosciugato un patrimonio se solo ne avessi avute più di tre.

Inoltre, in questo particolare momento del mio animo, l’Opera mi disgusta. O meglio, sono senz’altro un’amante delle arti, e non sono queste che mi infastidiscono. Ma sono le persone che vanno all’Opera che mi nauseano.

E il mio amico, il Conte di C., un giovane per bene ed estremamente attento agli stati d’animo dei suoi amici, se ne accorge immediatamente.

“Vi vedo esausto…” mi disse non appena entrato nel palco che di solito riserviamo per le nostre amanti. Il mio amico è amante di una giovane dama francese venuta per terra nel 1814, quando i francesi che dominavano la città si facevano mandare le donne da casa. E’ una ragazza per bene Madame B., che fa del suo corpo e della sua voce i suoi più grandi meriti. Non parla molto, ma quando lo fa dice cose accorte. Il mio amico la stava ancora aspettando.

“Lo sono…” risposi, lasciandomi cadere sulla poltroncina. Mi guardai attorno e constatai che la mia amante, la signorina F., non era arrivata. E probabilmente non sarebbe neppure arrivata più tardi.

“Siete solo stasera?” mi domandò il mio amico, passandomi una sigaretta. Rifiutai cordialmente e gettai uno sguardo in platea.

“Lo sono. E, se devo dirvi, non me ne dispiaccio più di tanto.”

“Siete ingiusto, amico mio. La signorina di B. è un fiore, e a volte mi viene da pensare che voi non la meritiate.”

“E’ la stessa cosa che pensa anche lei. Lo sapevate già?”

Il mio amico fu molto imbarazzato dall’avere per caso colto il motivo dell’assenza della mia amante, e tacque dispiaciuto. Ma io sorrisi e voltai l’attenzione su altri argomenti.

“Vi dicevo che sono esausto. L’aria viziata mi ha provato molto durante il tragitto. E poi, non dormo più.”

“Per la stessa ragione per cui non dormivate una settimana fa?”

Sorrisi.

Intanto il palco si era aperto e una giovane dama vestita di bianco e molti merletti aveva cominciato a intonare l’ouverture di chissà quale opera. Non me ne ero neppure informato.

“Esattamente la stessa…” risposi cupamente.

“Il vostro amico maresciallo non vi lascia dormire dunque neppure da morto?”

“Già...”

Devo qui spiegare la ragione di questa allusione, altrimenti il lettore potrebbe non comprendere ed apprezzare il seguito delle vicende che mi appresto a narrare.

Il mio caro amico Conte di C. faceva riferimento alla mia amicizia con il Maresciallo Gioacchino Murat, ormai deceduto Re di Napoli e cognato del corso – il generale Bonaparte.

La natura di questa amicizia è quanto di più strano possa accadere nella vita di un uomo, e raccontarla sarebbe così complesso e doloroso per me che scelgo deliberatamente di non parlarne. A ciò si aggiunga che i tempi non sono opportuni – soprattutto per un uomo come me e nella mia posizione – per potere parlare dei sentimenti di affetto e di amicizia che mi legavano al Maresciallo Murat.

Al lettore basti sapere che io avevo l’onore nel 1815 di dichiararmi “amico” del Maresciallo, e che passai del tempo con lui. Molto tempo. Così tanto tempo da indurre il Maresciallo ad affidarmi un compito che sul momento mi parve semplice, ma che invece oggi pesa sulla mia testa come un macigno.

“Il vostro amico, che sarebbe meglio per voi non definire come tale, il Maresciallo insomma, mi capite, vi deve aver voluto molto bene. E io non ne dubito…” continuò il mio amico, per nulla interessato a cosa andava in scena sul palco e alle belle dame che gettavano sguardi oserei dire famelici verso il nostro seggio. “Ma voi dovreste mettere un punto ai vostri obblighi verso di lui. Altrimenti correrete il rischio di ammalarvi. Per quanto l’amicizia che vi legava a lui fosse grande, nulla giustifica un turbamento di questo genere. Vi state facendo del male.”

Ascoltavo attento e in parte condividevo le parole del mio amico, eppure non ce la facevo ad accettare che quelle parole fossero vere.

“I miei obblighi verso quell’uomo sono molto più grandi di quanto voi possiate immaginare. E giustificati molto più di quanto voi potreste solo azzardare di supporre.”

Devo aver pronunciato queste parole con una durezza inusitata per il mio carattere, tant’è che il mio amico ne parve colpito, addirittura offeso. Ed io restai in silenzio. Fu lui poco dopo ad aprire di nuovo il discorso.

“Quando vi hanno consegnato il plico?”

“Ormai tre mesi fa…” risposi facendo finta di non dare peso a quell’avvenimento. In realtà era esattamente il contrario.

“E voi ne avete letta qualcuna, di queste lettere?”

“Giammai!” risposi sdegnato, quasi mi si fosse accusato di qualcosa di disumano. Mai mi sarei macchiato di un’offesa simile. “Le lettere hanno un destinatario ben preciso. E solo quel destinatario potrà leggerle.”

“Sapete che gli informatori del legittimo Re Ferdinando danno la caccia a tutti coloro che furono in qualche modo legati al francese?” domandò dunque il mio amico con tono cupo, ma colsi una sottilissima e impercettibile aria di ironia nel suo tono. “Proprio ieri ho saputo che è stata perquisita la residenza del Duca di V., aiutante di campo di Murat ai tempi della sua incoronazione a Re di Napoli. Il Duca di V. ha avuto i soldati per i piedi per ore, e alla fine non hanno trovato nulla. Ma ha rischiato.” Il mio amico mi gettò uno sguardo torvo e allarmato. “Quelle lettere, caro amico mio, vi mettono in seri guai. O le bruciate, come vi consigliai io ormai due mesi e ventinove giorni fa, quindi il giorno immediatamente successivo a quando le riceveste. O adempiete quanto prima agli obblighi che solo Dio sa perché vi legano a quell’uomo. Partite per Roma e consegnate quelle lettere a questa principessa. Liberatevene! Diamine!”

Uno scroscio di applausi assordanti invase la sala. Mi parve per un istante che fosse proprio in risposta di quella sua esortazione.

Guardai allora la platea e mi accorsi invece che nessuno stava tributando applausi di alcun genere al mio amico. Invero la Principessa, figlia del Re, aveva fatto il suo ingresso trionfale in sala vestita di rosa e amaranto.

“Pur di mostrarci che tiene controllo su ogni cosa manda la figlia prediletta in mezzo al fetore di queste piazze. Povera giovane…”

“Già, starebbe più comoda sotto morbide lenzuola. Ad ogni modo, verrete con me a Roma?” domandai dunque al mio amico, prendendolo del tutto alla sprovvista. Anche la sua amante, Madame B., voltò la sua chioma bionda e i suoi occhi verdi verso di noi.

Io non mutai espressione. Ero serissimo.

“Amico mio...”

“Siete l’unica persona di cui mi è dato fidarmi. I sensi di colpa mi uccideranno. Mio cugino vive a Roma ed è Cardinale, ci darà ristoro e un buon letto dove dormire. Staremo un giorno, nulla più. Ve lo prometto.”

“Voi mi chiedete molto. Se dovessero fermarci gli uomini del Borbone le lettere salterebbero fuori. E sono tutte firmate “Gioacchino Murat”. Capite vero la complessità della faccenda?”

“Avete la mia parola che, se così malauguratamente andasse, giurerò sul sacro nome della mia famiglia che le lettere appartengono a me e che vi trassi con me in viaggio con l’inganno. Lascerò una lettera scritta in tal senso presso il mio notaio di fiducia. Ve lo giuro” lo pregai convintamente. “Ma dovete accompagnarmi.”

La rappresentazione era a nemmeno metà e noi uscimmo dal palco. Il mio amico taceva. Ma dentro, sapevo bene, aveva già deciso. E’ uomo di gran cuore, e non lascerebbe mai gli amici in difficoltà.

“Ci vedremo domani…” mi disse poco dopo.

“E sia. Andremo con la mia carrozza.”

 

 

 

Napoli, le prime luci del 15 gennaio 1817

 

Tutte le volte che mi sono trovato in battaglia a rischiare la vita il mio ruolo mi permetteva di scoprire e capire prima a cosa stessi andando in contro. Se non sapere come sarebbe andata a finire, almeno comprendere realmente come stessero le cose.

E adesso ho lo stesso desiderio.

Allora di nuovo la notte mi svegliai con quel pensiero. Fino ad ora me ne vergognavo a scriverlo, ma la reale ragione per cui non dormo da giorni non è solo il senso di colpa per non avere ancora adempiuto al mio obbligo verso il mio amico Maresciallo Murat.

Ciò che non mi fa dormire è altro: ho grande curiosità di aprire il plico che egli mi ha affidato con tanto ardore.

Il plico di lettere cui mi riferisco mi è stato consegnato in forma anonima una notte di pioggia. Un uomo che dichiarò di essere un compagno di reggimento del Maresciallo Murat mi consegnò quelle lettere. Sopra, su carta giallognola che le racchiude tutte, vi è scritto con calligrafia precisa ed elegante:

 

 

“Per mezzo del mio amico Marchese di Sant’Agata

alla Principessa Ofelia Galdini.

Con amore e riconoscenza.

J. Murat”

 

Il significato di quel “Per mezzo” è per me così chiaro che lo sento sulle mie spalle come un macigno.

Proprio come la parola “amico”.

Amico.

Sì, io ero suo amico...