2.
Per le scale e le sale del Palazzo del Quirinale di Roma vi era un gran fracasso. Da ogni stanza, per ogni corridoio e su per ogni scala si potevano udire mobili cadere, urla esagitate, tende strapparsi.
Era il delirio.
Da giorni centinaia di facchini spostavano argenterie, toglievano di mezzo arazzi, trapiantavano piante, cambiavano posizioni a letti, quadri e decorazioni di ogni tipo. Decine di statue erano arrivate sui carri da alcuni giorni: venivano smontate, depositate nel cortile e deposte in mille diverse posizioni, per poi essere ricollocate il giorno dopo di nuovo.
Tutta Roma era in fermento per l’arrivo del ‘vincitore di Marengo’, come lo chiamavano i suoi sostenitori.
Nessuno lo aveva mai visto, a questo generale Bonaparte. Un soldato divenuto imperatore, servo e poi ordinatore della Rivoluzione.
Sebbene paresse che fosse odiato, tutti avevano intenzione di conoscerlo. Le tipografie di Roma erano intasate da giorni ormai, colme di nobili che litigavano per avere la precedenza nelle stampe degli inviti e dei ritratti fatti fare ad arte per le centinaia di feste, balli, cerimonie e banchetti che sarebbero stati organizzati in suo onore. Tutto nella speranza di averlo ospite, anche solo per mezzo minuto.
Ogni famiglia bramava di poter passare una serata con l’uomo che, come si vociferava tra le vie di Roma, in mezzo al popolo più gretto, stava ‘annando a ‘nfoca’ Vienna!’.
Pensiero che eccitava non poco gli animi dei rivoluzionari italiani, i quali celavano nel loro animo il desiderio di un’Italia unita sotto un’unica bandiera, così come promesso da Bonaparte.
In attesa che le fantasie rivoluzionarie si realizzassero, i più grandi signori di Roma avevano intanto speso fior di quattrini per l’occasione. E l’assenza del papa ormai era divenuta una cosa di norma, quasi di poco conto. Pochi se ne lamentavano, e troppi sembravano essersene scordati.
Alla messa delle sette, organizzata per pregare per la salute di sua santità da pochi fedeli cardinali e alcune devote marchese e duchesse, la gente diminuiva via via. I cardinali, una volta così potenti e persuasivi, avevano il loro gran da fare a ricordare ai sudditi che il principe di Roma non era un rozzo francese. Neppure un miscredente, come dicevano le principesse dei tempi di Pio VI, timorate di Dio. E non era neppure un’‘ammazza sovrani’, appellativo distribuito ormai indistintamente a tutto il popolo di Francia dal popolo romano.
Era il Papa, il principe di Roma. Non Napoleone.
Nessuno doveva avere la tentazione di scordarselo.
Tuttavia la gente faceva fatica a fare finta che le cose non andassero diversamente, e non senza un poco di vergogna. E insomma, ormai era fatto indiscutibile, Roma aveva cambiato re. E quelli che da sempre erano stati camerieri del Papa, già si apprestavano a diventare marescialli di Francia o, quanto meno, aiutanti di campo dell’imperatore.
Il Principe Borghese, per esempio, aveva messo tutte le sue stanze a disposizione per la corte imperiale, e lui e sua moglie si sarebbero ridotti a pochi appartamenti in nome della comodità del loro ospite illustre, senza nessuna lamentela. Stessa cosa avevano i fatto i Pamphili, le cui ville brulicavano da giorni di statue e arazzi da donare all’imperatore. E i Piccolomini, una volta servi obbligatissimi del pontefice, già prendevano lezioni di francese dai migliori maestri. Il tutto mentre gli Aldobrandini addobbavano a festa le carrozze con grandi “N” stampate sopra a vernice dorata, assieme a tanti altri che ordinavano vestiti per agghindarsi alla francese, così come imponeva la moda di Parigi.
Al centro di tutto questo apparato, abbastanza teatrale, vi era un uomo di nome Martial Daru. Era un uomo dal passato torbido, un termidoriano di prim’ordine, regicida e un convertito napoleonico di tutto rispetto.
Nessuno a Roma conosceva quest’uomo ambiguo e sconosciuto. Era nato dalla melma della rivoluzione come montagnardo, rinato girondino per salvarsi la testa e solo Dio sapeva come sarebbe morto. Ma aveva la fiducia dell’imperatore, e quella era l’unica cosa che al fin dei conti importava. Si diceva che Napoleone in persona gli avesse detto: ‘Vai a preparare Roma per il mio arrivo.’
E così lui faceva da giorni. Girava per le vie di Roma su una carrozza nera, ornata della “N” che tanto piacque ai romani, ma che tanto odiarono gli austriaci e gli spagnoli. La sua attività principale era quella d’impartire ordini qua e là, senza pace.
Daru andava nelle chiese, nelle guarnigioni, si presentava di colpo sull’uscio di principi e contesse che, felici o facendo finta di esserlo, lo rassicuravano.
“Non preoccupatevi. Qui siamo tutti amici vostri. Vive l’empereur!”
Allora lui, pomposo e soddisfatto, usciva da quei portoni agghindandosi la coccarda dell’Impero di Francia con il volto altero verso il cielo. Scuoteva poi la testa, lanciava un sorriso beffardo ai suoi uomini e, aggiustandosi la giacca, sussurrava al cocchiere in un terribile italiano: “Ah! Questi Romani! Si sono già scordati il Papa.”
Eppure, in verità, non era così ovunque a Roma. E tra i tanti servi fedeli dell’imperatore, c’erano anche parecchi sudditi obbligatissimi di Sua Paternità.
Proprio come il cardinale Galdini.
Tutte queste anime pie, che senza dubbio Dio avrebbe ricompensato – ma molto più concretamente lo avrebbe fatto il Papa, se fosse tornato – rifiutavano l’arrivo del terribile corso. E lo facevano mettendo le case a lutto e pregando ogni sera che Dio salvasse Roma dalla catastrofe dell’impero napoleonico, il cui crollo sembrava al momento lontano secoli.
Daru questo però non lo immaginava neppure, fiero e sdegnoso com’era. Sicuro che la più grande fortuna dell’occidente cristiano fosse proprio l’arrivo dell’imperatore Bonaparte. E dunque, quando Galdini lo incontrò, egli era ignaro di ciò che si costruiva alle sue spalle, ma molto più di come la pensasse realmente quel cardinale influente che aveva mandato a chiamare.
Nella sua testa laboriosa, simile ad una rumorosa fabbrica, era intento a pensare a ben altro. Primo di tutto il non fare brutta figura con l’imperatore, che gli aveva così generosamente accordato la sua fiducia.
Così, senza la minima esitazione, non si fece nessun problema di chiedere al cardinale tutto quello che più lo soddisfacesse, in nome di quella eccellentissima missione.
Galdini incontrò il francese nel grande salone del Quirinale che affacciava sui rigogliosi giardini interni e che, ai tempi d’oro, era stata la sala della corte papale. Era agitato e ansioso, e ormai da minuti non faceva altro che tormentarsi le mani e l’anello d’oro, girandolo e rivoltandolo sul dito ossuto come fosse un bullone mal messo.
Il cardinale non lo aveva mai visto a quell’uomo, e per prima cosa rimase sorpreso di quanto fosse magro, così tanto da sembrare una pianta rinsecchita.
Martial Daru aveva la carnagione scura, certamente della Francia del sud. La pelle ruvida e i capelli neri lunghi alla giacobina gli scendevano fin sul collo ornato d’oro della giacca, unti e lucidi. Chiunque lo avesse visto, pensò Galdini, con un po’ di ribrezzo, non avrebbe di certo fatto fatica ad immaginarselo in mezzo alla folla indiavolata e sozza riunita davanti alla Bastiglia, urlando a gran voce ai piedi della ghigliottina per avere la testa di Luigi XVI.
A quel pensiero un brivido passò lungo la schiena del cardinale. Quell’uomo rappresentava tutto quello che lui aveva sempre temuto. E adesso invece era lì, a Roma, nella città del Papa. E doveva affrontarlo.
Daru era di spalle quando Galdini lo raggiunse, occupato a dispensare ordini a qualunque cosa si muovesse, quasi fosse un direttore d’orchestra. Dirigeva gli uomini che erano nella grande sala al suo servizio con decisione e stizza, in ansia per l’imminente arrivo di Napoleone.
“Quei quadri! Quelli lì, metteteli nelle stanze dell’imperatore. Sapete che ama il mare…”
E tutti rispondevano in coro: “Sì, eccellenza!”.
“I letti! Voglio più letti! Vengono in molti, e l’imperatore vuole un materasso morbido.”
E tutti chiosavano di nuovo: “Sì, eccellenza!”.
“Le cucine! Molti salati e pochi dolci. L’imperatore mangia solo dolci francesi…”
E tutti ancora, sfiniti: “Sì, eccellenza!”.
“Mi avete fatto chiamare?”
Galdini era giunto a neppure un metro dal francese e, schifato da quel Quirinale che sembrava divenuto Versailles, o al più un teatro, osservava in silenzio quella che sembrava la nuova fabbrica di San Pietro. Addirittura l’argenteria e le stoviglie erano cambiate, notò. Ora tutte intarsiate della “N” napoleonica.
Daru intanto si era voltato e, con i suoi occhi scuri e famelici da sanguinario giacobino, indugiava sulla gran croce al collo del cardinale. Poi accennò un riso, che a Galdini seppe non poco di beffa. Era chiaro come quella croce non suscitasse nulla in lui. Probabilmente il timor di Dio non doveva averlo mai avuto quell’uomo, si disse.
Il cardinale, uomo pio, ebbe infine un momento di pena per lui. Poi però si ricompose, sicuro che il suo nemico avrebbe mostrato una forza e un coraggio notevole. Volevano Roma a tutti i costi, e avrebbero fatto di tutti per prendersela.
“Sì, vi ho fatto chiamare io…” rispose Daru, tornato di spalle e deciso a seguire i lavori che stava dirigendo.
“Ebbene, come posso esservi utile?”
“Volevo parlarvi di Roma…”
Galdini strabuzzò gli occhi, perplesso: “Prego?”
“Sì, avete capito bene, di Roma…” ripetè Daru, con tono languido e perfido. “La Roma che si prepara a ricevere l’imperatore, in particolare. E che voglio, anzi, pretendo, sia splendente.” Quindi Daru si voltò, fissando questa volta in modo violento il vecchio cardinale. C’era livore nei suoi occhi, e i muscoli del volto erano tutti tesi in un’espressione d’ira mal contenuta. “Voi, se devo dirvi la verità, non mi sembrate troppo interessato a quest’evento. Alcuni vostri amici principi della Chiesa sono entusiasti, e vengono da me a domandare come poter dare una mano per arrecare piacere all’imperatore…”
Galdini serrò le labbra, abbastanza mesto. Non aveva dubbi che molti si fossero già convertiti al nuovo culto, ma apprenderlo per bocca di quel giacobino rendeva tutto ancor più umiliante.
Tuttavia, rifletté, per ora doveva mentire. Non aveva bisogno dei sospetti di Daru, e nemmeno dei suoi occhi puntati addosso. Gli serviva tempo per mettere in atto ciò che aveva in mente.
“Al contrario…” disse quindi, docilmente. L’anziano si sciolse poi in un sorriso che chi lo conosceva avrebbe giudicato forzato, e alzò le spalle. Ostentò stupore per ciò che aveva appena udito dalla bocca del francese. Insistette deciso: “Non so davvero cosa possa avervi dato questa idea. Non vedo l’ora che l’imperatore arrivi a Roma. Io sono al servizio, come sempre…”
Daru era troppo pieno di sé e troppo innamorato di Napoleone per percepire il velo d’ironia che Galdini aveva messo in quella frase. E dunque non disse nulla, limitandosi ad annuire.
“Meglio per voi….” sentenziò. “Ad ogni modo, non è solo per questo che vi ho chiamato.”
“Ditemi.”
L’uomo tacque per qualche secondo, e la cosa indusse il cardinale a domandarsi cosa mai quel francese avesse in mente. Ma la sua curiosità durò poco. Daru andò diritto al punto, da buon francese.
I suoi piccoli occhietti furbi si fissarono in quelli del cardinale: “Mi occorre la vostra dimora.”
“Prego?”
“L’imperatore sarà molto affaticato dal viaggio, e non ce la farà ad arrivare a Roma di buon’ ora. Non intende certo farsi vedere dalla popolazione spossato e con il volto provato dal viaggio.”
Galdini era sgomento, incapace di ragionare sul da farsi. “Comprendo. Ma...” balbettò.
Daru non lo fece neppure continuare.
“E intende passare la notte alle porte di Roma, per poi fare un ingresso trionfale in gran forma il giorno dopo. Ebbene, io e i miei collaboratori abbiamo constatato che l’unica residenza adatta a questo scopo è quella della vostra famiglia, cardinale.”
“Cosa?”
Galdini non sapeva che dire. Era arrivato addirittura a comprendere le ragioni dell’imperatore, ma la sua dimora era davvero troppo.
Tuttavia, nonostante il cardinale fosse visibilmente basito, Daru non dava segno di essere disposto a trattare.
“Verrò domani io stesso, per i preparativi…” disse, concludendo la conversazione.
“Ma io…” tentò ancora Galdini, cercando il tono più docile che ricordasse di avere.
“Niente ma” disse deciso il francese, fissando intensamente il volto dell’anziano uomo. Un sorriso meschino e di sfida si dipinse sul suo volto sciatto. “Lo so bene che siete onorato. Lo è anche Sua Altezza, vedrete. E poi, avrete anche modo di conoscerlo personalmente. Non sarà concesso a tutti, s’intende. Sarà un onore.”
Galdini avrebbe tanto voluto dire a Daru che non gli interessava affatto fare amicizia con l’uomo che aveva fatto arrestare il Papa e diffuso il peccato della rivoluzione francese in Europa. Ma pensò alla condizione in cui si trovava, alle sue ricchezze a rischio, al suo buon nome e alla sua famiglia. Non ultimo ai progetti segreti che aveva in mente.
Non poteva mettere a rischio nulla.
Dunque chinò la testa, proprio come altri avevano fatto prima di lui.
“Ne sarei onorato…” sbiascicò, poco convinto.
Poi un pensiero inquietante si fece strada nella sua testa confusa.
Come poter dare una notizia del genere alla sua famiglia, che odiava il corso anche più di lui?
“Arriverò domani, in mattinata…” proseguì Daru. “Organizzate la servitù, mi occorreranno. L’imperatore invece arriverà domani sera. Dovremo lavorare sodo, per fare in tempo.”
“Dovrete…” sottolineò, con tono di sfida. Galdini non tollerava più l’atteggiamento beffardo di Daru, e voleva vederlo sparire il prima possibile. “A domani, allora…” Gli voltò le spalle e lo congedò.
Il cardinale salì sulla sua carrozza infuriato, come mai era stato in tutta la sua vita. Il cielo era livido come il suo animo, faceva freddo e il cuore gli batteva forte, stranamente agitato.
Non voleva in casa l’uomo che aveva arrestato il Papa.
Non voleva avere davanti l’uomo che aveva portato la guerra in Italia.
Non lo voleva, certo, ma era davanti ad un ordine.
Se avesse rifiutato, Daru si sarebbe insospettito, e ciò che tramava con gli inglesi e i tedeschi sarebbe saltato fuori.
Doveva assecondare e piegarsi, per quanto faticoso sarebbe stato.