5.
Come tutti si aspettavano, Daru fu puntuale. Alle dieci meno qualche minuto i servi di casa Galdini udirono un gran frastuono, e videro un corteo di carrozze attraversare il lungo viale sterrato che tagliava i campi della vasta proprietà.
I cani abbaiavano furiosamente, i valletti si chiamavano l’un l’altro a gran voce e in mezzo a quel baccano Ofelia si affacciò dalla finestra della sua stanza, incuriosita. Proprio in quell’attimo le carrozze avevano cominciato ad entrare nel cortile di villa Galdini disordinatamente, come un’improvvisa invasione. Si fermarono nel vasto cortile in modo sparpagliato e irrispettoso, cariche di oggetti e mobilio di ogni genere, smuovendo polvere e falciando aiuole.
Il capo della servitù della casa, un romano di nome Azio, andò incontro a Daru. Era di norma un uomo mite, e così sempre Ofelia lo aveva conosciuto. Ma quel giorno il suo collo sembrava più gonfio del solito, le spalle ricurve facevano gran fatica a drizzarsi, e gli occhi sembravano spiritati. Quella visita non gli piaceva affatto, e aveva più volte rimostrato al cardinale. Ma alla fine aveva dovuto cedere, proprio come Ofelia.
L’uomo si fermò innanzi a Daru, appena sceso dalla carrozza e già con il viso irato e tirato.
“Dov’è il principe?” domandò immediatamente il francese, guardandosi attorno. Era come se Azio neppure esistesse davanti a lui.
“E’ uscito questa mattina, di buon’ora” rispose l’uomo, e la sua risposta fu simile ad un ringhio. “Tornerà all’ora di pranzo. Dice che la sua presenza non è necessaria a vossignoria. Casa sua è casa vostra. Fate quel che dovete.”
“Parole benedette!” esultò Daru, finalmente degnandolo di uno sguardo. Sembrava entusiasta, e la tensione sparì immediatamente dal suo viso olivastro, che divenne meno deformato del solito. L’uomo non ne poteva più delle reticenze della nobiltà romana, ed era arrivato temendo di dovere ingaggiare l’ennesima battaglia per piegare Galdini alla sua volontà.
Eppure, pensò, sul conto di quel vecchio cardinale forse si sbagliava.
“Farò come ha detto sua eminenza, dunque. Mettetemi a disposizione tutta la servitù, mi occorreranno. Se lavoreranno bene, forse per la sera avremo finito.”
“Sarà fatto” rispose il povero Azio. L’uomo dalla sera prima diceva Ave Maria a ripetizione a causa di quell’incresciosa faccenda, chiedendo perdono a Dio per l’aiuto che avrebbe dato ai francesi.
Quindi i lavori iniziarono subito, proprio come Daru sperava. Nel giro di poche ore centinaia d’invadenti voci francesi riempirono il cortile e le sale interne della grande villa, giungendo fino alla stanza della principessa Ofelia che, nel frattempo, osservava il tutto dalla sua finestra.
Anche lei, come il suo zio, aveva passato la notte insonne.
Aveva pregato, per una prima parte della veglia. Chiedeva a Dio che le desse la forza di dominare il suo spirito e resistere agli affronti di quegli uomini. Ed era sicura che ci sarebbe riuscita.
Poi, però, a metà della nottata, il suo animo era mutato nuovamente.
Un pensiero insistente sorse nella sua piccola testa laboriosa come una creatura sconosciuta, e non la aveva ancora abbandonata. Le aveva risuonato nella mente tutta la notte, come un tamburo insistente. Ma aveva paura di ciò che aveva pensato.
Quindi tirò le tende della sua finestra con un gesto di stizza, allontanandosi dal frastuono. Doveva resistere, si disse. E dominarsi.
Non aveva altra scelta.
I lavori proseguirono per molte ore, senza possibilità di pausa per i poveri servi. Daru, brusco e cafone come suo solito, si era sistemato su di una poltrona, nell’unico angolo all’ombra della casa, vicino ad un tavolo pieno di bevande. Nonostante tutto procedesse, il francese urlava per il cortile in continuazione, ogni tanto scontento del lavoro dei servi e altre domandando che gli si portasse da bere.
Nel complesso il francese non cessò mai di rivelarsi per quello che era davvero. Mangiava scostumato come un soldato, accampato all’ombra di un pino. Poi, ancora con il boccone tra i denti, gesticolava mugugnando come un contadino rivoluzionario analfabeta. Parlava con la bocca piena e muoveva le mani sporche, che poi decideva impunemente di lavarsi nelle fontane senza nessun riguardo.
Ofelia era tornata alla finestra, incapace di ignorare il frastuono perenne che veniva dal cortile.
Più scrutava il francese e più lo odiava, e guardandosi attorno la sua ira saliva senza tregua.
Era senza parole.
La casa stava mutando, trasformandosi in un luogo osceno che avrebbe creduto di poter vedere solo nei suoi peggiori incubi.
Per cominciare, un grande quadro dell’imperatore era stato affisso in salotto. Lì sulla tela Napoleone, in groppa ad un cavallo bianco, ammirava fiero l’orizzonte, pronto a conquistarlo. Ofelia lo vide e sostò a lungo innanzi ad esso. Gli parve sul momento una caricatura mal riuscita dei grandi condottieri romani, cui l’imperatore cercava, inutilmente, di ispirarsi. Nulla più.
Forse glielo avrebbe detto, pensò.
Fu proprio l’oscura presenza di quel dipinto a scuotere la serenità interiore della povera nonna della principessa Ofelia, l’anziana madre del cardinale, ormai miracolosamente centenaria. La nobile signora Genuflessa Salvini Pampali Galdini si era ritrovata di sorpresa e a tradimento quell’oggetto orrendo di fronte agli occhi annebbiati, rimanendone sgomenta. La donna era romana di vecchia data, almeno nove generazioni, papalina convinta ed acerrima nemica dei miscredenti. Non appena visto il quadro, così in bella vista nel suo salotto, era svenuta sul divano soccorsa dai domestici basiti quanto lei. Erano occorsi tutti i sali della casa per farla riprendere.
Intanto, anche il giardino aera cambiato. Progettato dal suo architetto come un tipico giardino all’italiana, era diventando adesso in pieno stile francese. Vasi e statue classicheggianti lo riempivano, strane fontanelle e decorazioni di dubbio gusto erano sparse qua e là. Pareva che Daru si fosse preso la briga di smontare tutti i giardini delle Tuileries e portali a Roma.
Come se tutto quello non fosse sufficiente, anche la stanza del cardinale, destinata all’imperatore, era stata modificata. Nel suo complesso sembrava divenuta una sorta di accampamento militare, ma con le mura. Daru vi aveva fatto mettere un nuovo letto, rigorosamente una branda da tenda, come imponeva l’uso dell’imperatore. E poi nuove lenzuola e mille accessori spediti dall’imperatore stesso si erano sostituiti a quelli del padrone di casa. Il letto del cardinale – Ofelia ne era sconvolta – era stato spostato e sistemato nelle stalle, protetto solo da alcuni teli, per ottenere la servitù aveva dovuto convincere e combattere con Daru.
Ofelia, presa dalla curiosità, ma anche per capire fino a che punto fossero in grado di spingersi le pretese di quel Daru, raggiunse anche le cucine. Lì trovò facce nuove, mai viste. Apprese allora, con pari stupore, che diversi cuochi francesi avevano sostituito i pessimi cuochi italiani – a detta dell’ignorante Daru .
Sebbene nutrisse nell’animo uno sdegno vigoroso, la giovane principessa rimase per tutto il tempo impassibile. Non disse nulla, non aprì mai bocca e molto più non rispose neppure al rozzo inchino di quel cafone di Daru, che la aveva scorta dal giardino sulla soglia della porta.
La ragazza era infuriata. Come mai era stata. Quello che più la faceva soffrire, era la sua impotenza. L’impossibilità di potere opporsi ad una situazione che le sembrava oscena, ai limiti dell’indecenza.
Ma doveva resistere.
Alla mezza la carrozza del cardinale Galdini apparve finalmente di ritorno nel cortile, in un gran sollevarsi di polvere e con i cavalli spronati a gran galoppo. A tutti sembrò una grande liberazione. La servitù, e anche la principessa, speravano forse che il cardinale avrebbe potuto domare Daru, in qualche modo. Ma sarebbe stata senza dubbio un’impresa ardua.
Quando il corpo del cardinale apparve, Ofelia osservava ancora tutto dalla sua finestra. Scrutò il volto rugoso dello zio e vi colse il suo solito vigore, ma anche una strana lucentezza negli occhi. Il suo sguardo era severo, del tutto impassibile davanti ai mille nuovi cambiamenti del suo palazzo, che sembrava diventato un palazzo di Parigi all’esterno e un accampamento militare al di dentro.
Il cardinale non aveva voluto neppure parlare con Daru, al quale disse immediatamente di avere un forte mal di testa. Quindi sparì dentro casa.
La cosa insospettì non poco la giovane Ofelia, che però decise di restare chiusa in camera senza chiedere spiegazioni.
I lavori proseguirono fino alla sera tardi, tempo che Galdini trascorse quasi tutto sigillato nel suo studio, Ofelia intenta ai suoi pensieri e nella lettura di alcuni libri e Daru, invece, seduto e sudato in giardino, con la voce ormai scomparsa e probabilmente più stanco di quello che voleva dare a vedere.
L’ora dell’arrivo intanto si avvicinava, e l’ansia cresceva in tutti, compreso il francese.