8.
Finalmente, dopo la mezzanotte, tutte le luci si spensero, comprese quella del grande salone al piano terra e delle stalle in cui erano accampati i corazzieri e lo studio del cardinale. Il sonno, la notte, la pace di quelle terre avevano vinto sopra ogni cosa.
Ofelia restò di nuovo sola con sé stessa, e fremette. Udì lo zio coricarsi e rimase nella sua stanza ad indugiare, a stretto contatto con i suoi dubbi.
Guardò il letto e poi la pistola.
Ignorare o agire?
Fissò di nuovo la pistola, l’arma che avrebbe ferito a morte l’aquila imperiale. Non era più tempo di dubbi o tentennamenti. Il suo destino la chiamava a gran voce.
Spense le luci, nascose la pistola al petto in uno scialle e restò di nuovo immobile.
Poteva andare.
Aprì la porta e si guardò attorno. Non vi erano guardie in casa. L’imperatore non ne aveva volute, tutto per non arrecare disturbo. Uscì dalla stanza e marciò dunque come un’armata invincibile verso la camera del tiranno. In quel momento pensò che molte anime d’Europa fossero con lei, a guidarla in quella difficile missione.
Sì, non sono sola.
Le vennero in mente la quantità di libelli, articoli, libri e denunce che aveva letto negli ultimi anni. Filosofi, scienziati, artisti, uomini politici e anime innocenti avrebbero marciato accanto a lei, se avessero potuto.
In quegli attimi si sentiva come una terribile e vendicatrice Dea Europa, costretta ad intervenire sul libero arbitrio per salvaguardare la civiltà. Quel compito, infine, era toccato a lei.
Fermò il respiro, tese i nervi e restò immobile come una statua.
Il corridoio era spento e freddo. Ad alcuni metri intravedeva la porta della stanza da letto dell’imperatore. Camminò fin lì e si soffermò sulla serratura, dalla quale usciva una leggera e fioca luce.
Fece alcuni passi avanti, cercando di essere leggera come una piuma. Davanti alla porta prese di nuovo il fiato che ormai le mancava. Le sembrava quasi che il cuore le stesse per sfuggire dal petto.
Respirò dunque silenziosamente, e infine guardò nella serratura.
Cercò il grande tavolo di legno dello zio, a pochi metri dal letto. Lo trovò. Non vi era nessuno seduto al tavolo, vedeva solo uno stivale nero sbucare dal materasso.
Rizzò le orecchie e si mise in ascolto. Non udiva nulla, almeno così le sembrava.
Poi d’un tratto il suono inequivocabile del respiro pesante.
Il corso dormiva.
E’ fatta, si disse. E’ mio.
Si disse che, se ci avesse pensato ancora un poco, probabilmente sarebbe scappata via in lacrime. Doveva agire e mettere fine a quel tormento.
Si fece dunque forza. Un vigore disumano che mai aveva dimostrato in tutta la sua vita la afferrò. Si sentiva invincibile, anche se spaventata.
Aprì la porta in silenzio, che scivolò via senza fare il minimo rumore. Era stata lei ad oliare i cardini nel pomeriggio, senza che nessuno potesse vederla.
Soddisfatta si guardò attorno.
Che uomo è costui?, si domandò. Nemmeno chiude a chiave la stanza!
Quando fu nella stanza guardò immediatamente in direzione del letto e allora lo vide. Finalmente.
L’uomo era disteso sul letto, occhi chiusi e respiro profondo. L’essere più potente d’Europa, che osava paragonarsi ai Cesari di Roma, era disteso sul letto come un bambino stanco. Beato e immerso nel sonno.
Ofelia lo guardò.
Il cuore le batteva forte ancora, e non aveva mai smesso di farlo. Sentiva che stava per svenire, e che aveva poco tempo.
Tirò fuori la pistola da sotto lo scialle e si avvicinò al letto.
Lì si fermò.
Restò immobile a guardarlo per qualche secondo interminabile, dubitando della giustezza di ciò che stava per compiere. Indugiò per alcuni istanti che le sembrarono interminabili. Poi, però, alzò la pistola verso di lui.
Gli avrebbe sparato nel petto. Proprio come la sorte che spettava ai soldati.
Roma sarebbe stata libera. Finalmente!
Era giunto il momento. Caricò il colpo, chiuse gli occhi e la mano le cominciò a tremare.
Conterò fino a tre…, si disse. E poi sparerò.
“Uno”, sussurrò flebilmente. “Due…”, seguì poi, tremante.
Stava per premere il grilletto. Mancava pochissimo.
La sua mano venne però d’un tratto bloccata. Proprio mentre stava per pronunciare il fatidico tre, qualcosa la aveva fermata.
L’uomo si era destato. E la fissava impassibile.
La presa era ferrea, ma allo stesso tempo dolce. Ofelia aveva gli occhi sbarrati, voleva piangere, e non aveva la forza di aprire gli occhi.
Il suo piano era fallito. Non appena l’uomo avesse lasciato la presa, si sarebbe sparata. Lo promise a sé stessa. Una fine onorevole, senza dubbio meglio della prigione a vita o chissà di quale altra umiliazione.
Sì, sarebbe stata la cosa più onesta. Avrebbe salvato l’onore a tutta la famiglia.
L’imperatore intanto, con gli occhi socchiusi per il sonno, la guardava. La mano stringeva il suo polso sottile senza provocarle dolore.
Lei tremò terrorizzata, e lasciò cadere la pistola.
Cosa aveva fatto? Come poteva essere stata così stupida e ingenua?
Cosa diavolo le era passato per la testa? Lo zio sarebbe stato ucciso, lei anche, tutto sarebbe finito. La sua famiglia avrebbe pagato con la violenza quel gesto scellerato. Povera stolta, si diceva. Hai segnato la fine di ogni cosa…
L’uomo però non parlava, limitandosi a guardarla con profondità. Alcune lacrime rigarono allora il volto di seta della povera Ofelia, scivolando fin sul collo e il petto arrossato dall’ansia.
Inaspettatamente, l’imperatore accennò un sorriso.
“Come vi capisco…” sussurrò, con un tono così strano che la principessa non sarebbe mai riuscita a descriverlo a nessuno. Non capì. Perché non la uccideva? “Voi mi odiate. Ma certo. Come potreste il contrario?” continuò Napoleone.
Il cuore le batteva forte, le lacrime continuavano a sgorgare dai suoi piccoli occhi. Tremava come una foglia, certa che da un momento all’altro sarebbe caracollata a terra.
L’imperatore lasciò dunque la presa.
“Avanti, uccidetemi!” urlò Ofelia, fuori di sé. “Cosa aspettate? Fatelo! Punitemi, avanti!”
Il coraggio prese ancora il sopravvento. Aveva deciso quale sarebbe stata la sua sorte, e voleva che giungesse il prima possibile.
Napoleone, però, la sorprese di nuovo. Sgranò gli occhi, stupefatto da così tanto ardore.
“Io? Uccidere voi? Leone di un paese incatenato, che ha tentato di mordere l’aquila? Di colpirla a morte? Giammai!”
Gli occhi scuri e profondi dell’uomo scavavano intensamente quelli di Ofelia, simili a dei bracieri ardenti, proprio come i suoi.
“Non vi capisco…” singhiozzò Ofelia, con la poca forza rimasta in corpo. “Io non capisco più nulla… voi… io…”
“Non meravigliatevi, principessa. Il coraggio che avete dimostrato stasera vi dà diritto di vivere.”
L’imperatore si alzò dal letto e si allontanò da lei, muovendosi verso la scrivania.
“Cosa?” domandò basita la ragazza.
“Credete che non mi sia accorto di come mi guardavate?” domandò allora Napoleone. “Con odio, con emozione… ma mai con paura. Voi non avete tremato davanti a me… Non avete tentennato, dannazione! E per questo vi ammiro…”
Ofelia restava muta.
Perché quell’uomo era così grande? Perché stava facendo di tutto per farla ricredere sul suo conto? Cosa aveva in mente Dio? Non era stato forse Lui a spingerla fin lì?
“Adesso ditemi cosa volete da me, giovane principessa…” proseguì l’imperatore. Il suo tono era solenne, incredibilmente severo. “E badate bene che avrete solo questa occasione. Quindi, ditemi la verità. Avanti, chiedete qualsiasi cosa…”
La giovane si accorse che il suo cuore non batteva più. Non aveva più paura. Le lacrime non scendevano più. Le gambe non le tremavano. Il coraggio che la aveva sempre contraddistinta era finalmente tornato da lei. Ma adesso, cosa avrebbe risposto? Avrebbe detto davvero la verità?
Napoleone la guardava, in attesa che parlasse. Sembrava davvero desideroso di avere risposte.
Ofelia prese fiato, distese le mani lungo i fianchi e sospirò.
“Ebbene, voglio che ve ne andiate…” annunciò solennemente. Il suo tono era deciso, la voce chiara e forte. “Voglio che ripieghiate i vostri vessilli. Che i vostri uomini battano in ritirata, passando casa per casa, a chiedere perdono per anni di soprusi e violenze al mio popolo. Voglio vedervi sconfitto. Voglio Roma libera, voglio l’Italia libera.”
Le parole le uscivano come un fiume in piena. La principessa cominciò a piangere di nuovo, ed ancora l’imperatore accennò un sorriso. Era tenero e colmo di comprensione, quasi commosso. Avvicinò la mano al suo viso e le asciugò le lacrime.
“Mi piacerebbe ubbidirvi…” disse Napoleone. “Tuttavia, proprio come voi amate il vostro paese, io amo il mio. Ed il mio amore mi impone di restare. Ma con questo non vuole dire che io non vi ubbidirò. Andrò via ora da casa vostra, lascerò Roma come mi avete chiesto. Ed un giorno la storia, giudice supremo, decreterà il vostro ed il mio futuro. Ma sappiate che il vostro coraggio, il coraggio dei patrioti, non sarà mai dimenticato. Ora, tornate in camera vostra. Addormentatevi nella certezza che Roma non può morire, poiché è immortale. E consolatevi con il fatto che mai più mi rivedrete. Magari un giorno, se il destino vorrà, vi farò regina di Roma. Di una Roma libera, come voi la vorreste.”
La principessa rimase immobile di fronte a Napoleone. Non credeva a quelle parole, ma non provava più odio per quell’uomo. Qualcosa di nuovo c’era nel suo cuore, anche se non riusciva a definirlo. Forse, si disse, non lo avrebbe mai capito davvero.
“Tenete…” disse poi l’imperatore, porgendo alla giovane un cofanetto di legno. “Questo è un mio dono per voi, un omaggio al vostro coraggio. Sono le chiavi della città eterna, datemi oggi in segno di benvenuto dai vostri compatrioti che, di certo, non valgono quanto voi…”
Ofelia prese dalle mani il cofanetto e tacque.
“Che siano vostre, della principessa che sfidò l’Impero…”