6.

 

 

 

 

 

 

 

 

Alle sette altre due carrozze entrarono inaspettate nel cortile di villa Galdini, che sembrava ormai un porto di mare. Era quello il corteo del responsabile militare di Roma, il maresciallo Oudinot.

Era un uomo alto e possente, dalla faccia tonda e cupa e le mani grandi, sempre in stivali sporchi di terra e dall’aria arrogante. Era lui che, con i suoi cento uomini, veniva a garantire la sicurezza dell’imperatore. Era lui, inoltre, ad essere stato decisivo in molte vittorie di Napoleone e a godere della sua massima fiducia.

Daru fece gli onori di casa, mentre Galdini era impegnato a fare un ultimo giro della dimora, dispensando parole simili a: “tacete quando arriva”, “tenete ferma mamma”, “siate composti”, “fate come vi dice”, “se non lo capite, annuite e venite da me” e, ovviamente, “anche se vi sembra di averlo sotto mano, non picchiate Daru.”

Dopo questo giro aveva deciso di passare da Ofelia, chiusa da ore nella sua camera. Lo zio era stato gentile con lei, ma non aveva assolutamente aperto nessuna conversazione di tipo politico o rivoluzionario. Aveva lasciato intendere che quello che era accaduto nelle ultime ore non si poteva discutere, e che lui non poteva fare nulla per evitarlo. Ofelia, questo lo aveva capito, doveva accettare le cose, così come stavano andando.

Ad ogni modo, l’atteggiamento dello zio cardinale la offese. Avrebbe voluto essere interpellata, o magari solo semplicemente ascoltata. Ma Galdini non fece nulla di tutto ciò. Aveva altre cose per la testa, e si limitò dunque a congedarla con alcune ultime raccomandazioni.

“Vestiti elegante e, soprattutto, mostrati cortese parlandoci. Fagli compagnia, se te la chiede. Non essere sgarbata, se ti irrita. Ceneremo con lui, se vorrà.”

Ofelia annuì muta, con il viso che non tradiva emozione alcuna. Ovviamente, non era affatto convinta che fosse la cosa giusta da farsi. Ma avrebbe obbedito, almeno durante la cena. I suoi piani erano altri, e li teneva ben nascosti dentro il suo cuore. Di certo non avrebbe guastato il bel teatrino a Daru.

Finalmente alle dieci di sera si udì il segnale. Nel cortile la guardia si era sistemata con le divise tirate a lucido, qua e là rammendate dalle sarte della città. Avevano i colbacchi di pelo lucidi e brillanti, i fucili sfolgoranti e gli stivali mondati dalla terra. Ritti come statue, il naso all’insù, i favoriti ben pettinati, attendevano l’arrivo del loro comandante.

In lontananza, oltre l’inferriata del cancello, si poté finalmente scorgere la prima carrozza del corteo imperiale.

La cosa che sul momento colpì Ofelia fu proprio il numero delle carrozze: una soltanto. Era trainata da quattro cavalli e per nulla decorata, nera come la pece, spoglia come un carro funebre.

Daru, Galdini e il maresciallo Oudinot erano in prima fila, schierati come soldatini davanti l’ingresso della grande casa e circondati di fiaccole. Dietro a loro stava la fiera Ofelia, con il capo della servitù Azio.

Ofelia era anche lei, proprio come i soldati, una statua di marmo inespressiva. Era in silenzio, con il mento alto ed il profilo orgoglioso verso il cielo. I capelli erano legati, come aveva voluto lo zio e come imponeva la moda parigina. Nonostante quell’aria compita e triste, il vestito color perla metteva con delicatezza in risalto le sue forme e la mostrava per la splendida giovane che era per davvero. Era bella, ed aveva sentito il maresciallo Oudinot commentare lo stesso al viscido e rude Daru, che aveva annuito sprezzante.

Un brivido le era corso lungo la schiena, vedendo quei francesi mormorare su di lei. Lei che, il francese, purtroppo, lo intendeva alla perfezione.

La piccola carrozza nera su cui viaggiava l’imperatore intanto si avvicinava, e stava per varcare la soglia della villa. Ofelia trattenne il respiro, il cuore le batteva forte nel suo piccolo petto. Si accorse che aveva serrato ferocemente i pugni delle mani e digrignava i denti, che quasi le facevano male.

Perché odiava tanto quell’uomo?

Non lo sapeva.

La cabina della carrozza, che era illuminata da una fioca luce, si spense appena entrata; e poco dopo la vettura si fermò davanti alla casa. Le guardie presentarono immediatamente le armi, mentre gli imponenti corazzieri, che facevano da guardia alla carrozza imperiale, entravano tra grandi grida nel giardino. Il rumore degli zoccoli, il nitrito dei cavalli da guerra e quegli uomini giganti fecero sussultare Ofelia, immobile come una colonna di marmo ad alcuni metri da loro. Era abituata a preti e rosari, e anche ai cavalli di campagna, ma non a stalloni da guerra e a militari. Era la prima volta che la vita ed il mondo facevano così violentemente irruzione nel suo mondo. Cose di cui, fino a quel momento, aveva solo e soltanto letto.

Intanto il cavaliere che guidava il gruppo di corazzieri catturò immediatamente l’attenzione della giovane. Era diverso da tutti gli altri, notò subito Ofelia. Era rigido e solenne, i capelli lunghi sciolti al vento tradivano un animo selvaggio. Le gambe arcuate domavano il cavallo in modo poderoso, che sbuffava ad ogni passo. All’abile cavaliere le mani non servivano a nulla, con la mano destra guantata faceva cenno al gruppo di cavalieri di fermarsi, con l’altra salutava il maresciallo Oudinot, che gli sorrideva di rimando. Come se il cavallo ubbidisse alle sue parole e non ai suoi arti.

Ofelia avrebbe poi scoperto che quell’uomo era il maresciallo Gioacchino Murat, futuro re di Napoli, e intimo amico dell’imperatore.

Per alcuni interminabili istanti gli sguardi dei due, Ofelia e Murat, si incontrarono.

E’ bello, pensò lei. Ma si vergognò subito di quel pensiero. Così tanto che, senza volerlo scosse la testa, turbata. Il maresciallo, invece, sorrise di rimando a quello scambio fugace di sguardi. Poi inchinò leggermente la testa verso di lei, in cenno di saluto.

La carrozza adesso era ferma proprio davanti a Daru ed al gruppo in attesa. Il cocchiere era sceso ed aveva aperto la vettura. Ci fu allora grande attesa e grande ansia. Sia Galdini che il resto della casa non avevano mai visto l’uomo che con le sue armate stava terrorizzando l’Europa. Ofelia stessa puntò gli occhi su quella piccola porticina che si stava aprendo e sulla la mano che subito ne uscì.

Un uomo, basso, dai capelli appena visibili, era stato aiutato a scendere. Guardava il circondario con curiosità, quasi circospetto. Quindi rivolse il suo sguardo verso Daru.

“Altezza, ben arrivato…” disse lui, inchinandosi.

Ma non ricevette risposta. L’uomo si era infatti tolto il soprabito, rivelando una corazza di ferro, ed una uniforme uguale a quella che indossavano gli altri cavalieri.

Ci fu inizialmente sorpresa. Poi tutti capirono che il militare, che tutti avevano creduto per un momento essere l’imperatore di Francia, era in realtà un corazziere. Quello smontò e poi fece un passo indietro, lasciando il passo ad un altra figura immobile dentro la carrozza, che solo in quel momento si era rivelata agli altri.

Scese dunque un altro uomo. Era basso anch’egli, totalmente coperto da un soprabito nero. Una sciabola solamente sbucava da sotto il lungo cappotto. In mano teneva oggetti simili a cartine, ed un cappello nero stretto al petto.

Ofelia lo guardò bene. Il volto era coperto dal collo del soprabito alto fino alle guance ed i capelli lo erano dal cappello, con cui era riconosciuto in tutta Europa, e che si era immediatamente rinfilato.

Rimasero fermi tutti a guardarlo, immobili, come si guarderebbe una divinità.

Lui anche si guardava intorno, curioso e sereno. Nel silenzio sembrò quindi sospirare. Poi fece un passo avanti, verso il gruppo che attendeva una sola parola per decidere cosa fare.

“Maestà…” dissero in coro Daru e Oudinot, inchinandosi.

Galdini accennò anch’egli ad un inchino, ma molto meno convinto. Intanto Ofelia restava in disparte, impassibile.

“Vi ringrazio per l’ospitalità, principe Galdini…” disse Napoleone, in un perfetto italiano. Il cardinale ne fu subito sorpreso. Guardò l’imperatore diritto negli occhi e si perse nella profondità di quello sguardo così scuro e solenne. Eppure il suo viso era calmo, disteso, per nulla terribile e minaccioso come lo aveva immaginato.

Ofelia se ne accorse e lo fissò, pensando che qualcosa di strano stesse accadendo davanti ai suoi occhi. Una figura così grande, anche se così terribile, non poteva che suscitare qualcosa in lei e negli uomini.

“Mi avete risparmiato un’ulteriore fatica..” aggiunse l’imperatore, rivolto sempre verso il cardinale. Il suo tono era di sincera gratitudine.

“E’ un privilegio, maestà…”

“Non temete, di solito sono un ospite silenzioso e discreto…” sorrise dunque il terribile corso. “Non mangerò neppure. Ho solo desiderio di riposare.”

“Prego allora, entrate sire. Vi faccio strada…” lo invitò Galdini, in parte sollevato che l’imperatore non desiderasse mangiare. In effetti, la cena tutti assieme era forse il momento che temeva maggiormente.

Camminando accanto all’imperatore sorrise, pensando alla faccia del povero Daru. Quel disgraziato aveva fatto tanta fatica a sistemare la cucina alla francese, e a lui l’imperatore non aveva ancora neppure rivolto parola.

Napoleone fece dunque qualche passo assieme a Galdini, diretto verso l’ingresso della sala. Dietro a lui i marescialli Oudinot e Murat, poco indietro Daru, ignorato da tutto il seguito.

Intanto Napoleone, finalmente, aveva incrociato la giovane ragazza di cui anche Murat aveva notato le delicate fattezze. Guardò in direzione sua e fece un profondo inchino ad Ofelia. La principessa rispose con garbo, sebbene non troppo convinta, ma l’imperatore non parve farvi caso.

Quindi il gruppo entrò in casa. Lì l’imperatore diede un’occhiata all’interno, piuttosto incuriosito. Probabilmente era la prima volta che entrava nella dimora di un principe della Chiesa di Roma, e non sapeva cosa attendersi. Sembrò un poco deluso quando si rese conto che la casa era stata modificata per il suo arrivo. Restò fermo per un poco, roteando lentamente la testa a destra e sinistra, fissando il suo dipinto che Dari aveva fatto appendere. Sorrise egli stesso, ironico, mentre lo guardava. Scosse un poco la testa e bisbigliò qualcosa di impercettibile. Poi, dopo qualche commento in francese ai suoi uomini, abbastanza atono, si rivolse a Daru. Era evidente quanto l’uomo fremesse di essere encomiato per il lavoro svolto.

“Avete fatto un ottimo lavoro. Potete andare. Vi attendo domani al Palazzo Quirinale.”

Daru guardò sorpreso e perplesso l’imperatore. Non si aspettava un commento così lapidario e un congedo così celere. Credeva di meritarsi maggiore considerazione. Non riusciva davvero a capire per quale dannato motivo l’imperatore avesse deciso così su due piedi di non concedergli neppure l’onore di cenare assieme.

Rimase interdetto, paralizzato come fosse stato morso da un serpente. Mille brutali parole si accavallarono nella sua testa, e avrebbe tanto voluto vomitarle in faccia a quel soldatino diventato imperatore. Ma, pensò, sarebbe stata la sua rovina.

Dunque tacque, chinando il capo e arretrando di qualche centimetro.

“Come desiderate, altezza…” concluse.

Finalmente Galdini lo vide sparire, strisciare via come il vermiciattolo che era. E tutti osservarono la sua fuga con gioia, forse anche lo stesso Napoleone.

Quindi, dopo essersi tolto il soprabito, l’imperatore guardò Galdini. Poi gettò l’ennesimo sguardo di sfuggita alla principessa Ofelia. Indugiò su di lei alcuni secondi questa volta, come interessato, ma per nulla coinvolto. Quindi, come destatosi da un sogno e tornato di colpo alla realtà, guardò di nuovo gli occhi stanchi del cardinale Galdini.

“Ora, eminenza, scusatemi davvero. Rimarrei volentieri ad intrattenermi con voi, ma il lavoro e il riposo mi attendono. Posso sapere dove sono le mie stanze?”

Napoleone guardò ancora una volta Ofelia. Lei se ne accorse e si sentì a disagio. Ma l’imperatore non riusciva a levarle l’occhio bruno e penetrante di dosso. Adesso non aveva che occhi per lei.

“Come desiderate, altezza. Vi accompagno…”