3.

 

 

 

 

 

 

 

Arrivato a casa il cardinale Galdini provò finalmente la prima ed unica gioia della sua giornata. Infatti, non appena varcata la soglia del suo palazzo, la sua bellissima nipote, la principessa Ofelia, gli venne incontro festosa.

La principessa era una giovane alta, dai lineamenti nobili e morbidi. Era bella, di una bellezza rara e antica, quasi mitologica. Meravigliosi capelli color oro le scendevano lungo il collo e fin sul seno abbondante, incorniciandole il viso dalla pelle rosata e liscia come marmo. Splendenti occhi marrone scuro, come la corteccia dei più begli alberi dell’Italia, erano incastonati nel volto simili a diamanti grezzi. Erano soliti indugiare su ogni cosa con curiosità, guizzando da ogni parte con fervore e interesse.

“Zio amatissimo!” gridò, entusiasta come sempre.

Seppure il suo ruolo prevedesse una certa morigeratezza dei costumi e una opprimente etichetta, la giovane amava il suo zio prediletto con un affetto sincero che le rendeva impossibile il trattenersi. Si gettò con le braccia sottili al suo collo, cingendolo fortemente e facendogli rotolare a terra il cappello cardinalizio, davanti agli occhi perplessi della servitù.

“Tesoro santo, stai calma… Sono fuori solo da stamattina…”

“Mi è sembrata un’eternità, caro zio…” rispose lei, liberandolo dalla presa e sciogliendosi in un sorriso luminoso.

Il cardinale la guardò dolcemente, e pensò che mai aveva fatto azione più saggia come il prenderla con sé in casa.

La storia della principessa era triste, ma fortunatamente di quella mestizia non vi era traccia sul suo volto splendente. Sua madre, la sorella del cardinale, la principessa Letizia, era morta alla nascita; e il padre aveva seguito la moglie poco dopo, sopraffatto dal dolore.

In assenza di altri parenti, il difficile compito di educare una giovane alla vita era toccato al cardinale, da anni rinchiuso in un meditabondo silenzio.

Eppure, quella giovane aveva in poco tempo riportato la gioia nella casa. Con la sua gaiezza, unita ad un’immancabile virtù in ogni campo, aveva ben presto conquistato tutti.

Era come un gioiello rarissimo, custodito gelosamente in quel forziere che era il grande palazzo del cardinale. Da ammirare e tenere nascosto, in modo tale che il mondo lì fuori non potesse sciuparlo.

Tuttavia, sebbene le apparenze inducessero a ritenere la ragazza mite e incline alla sottomissione, Ofelia aveva un dono che altre giovani della sua età non possedevano e mai avrebbero osato possedere.

Il coraggio. L’attaccamento alla famiglia e alla casa. Dunque un amore viscerale per la sua terra, che di certo una nazione non era.

Nelle lunghe veglie notturne, la principale occupazione della giovane era stata leggere. Senza che il cardinale zio potesse anche lontanamente immaginarlo, centinaia di carte stampate erano entrate di nascosto nella sua dimora, per mezzo di amici e servitori coraggiosi.

E così Ofelia, nel silenzio della sua camera, si era ritrovata rapita dall’illuminismo e conquistata da Roma, che era italiana e non francese. Della rivoluzione aveva accolto il meglio e allontanato con orrore ogni singola forma di deviazione.

E così Ofelia era in quegli anni animata da uno straordinario vigore patriottico, al limite del rivoluzionario. Una passione così decisa che spesso sorprendeva anche lo zio, ormai intorpidito dalla vecchiaia e dalla rassegnazione ad un mondo che certamente era possibile difendere, ma non cambiare radicalmente.

Ed ecco dunque tornare alla mente del vecchio cardinale tutte le preoccupazioni della mattinata.

Come avrebbe preso la notizia dell’arrivo dell’imperatore la sua amata nipote?

Ofelia e il suo orgoglio erano stati colpiti e feriti duramente da quel tiranno - Napoleone - che, diceva sempre, “non la faceva dormire”.

Dunque, come Galdini si aspettava, la sua reazione alla notizia dello zio non fu delle migliori.

Ad ogni modo non fu violenta, come lo zio invece temeva che fosse. Ma rassegnata, come la parte più docile del suo cuore le comandava. Aveva compreso quanto l’amato zio fosse con le mani legate, invischiato in giochi di politica e di potere di cui certo non poteva pretendere di comprendere ogni segreto.

Dunque, da nobile dama qual era, la ragazza obbedì senza fiatare all’anziano cardinale, del quale comprendeva le ragioni, pur tuttavia non riuscendo a carpirne i segreti.

Da settimane, infatti, aveva notato uno strano via vai di carrozze nelle terre della famiglia. Strani messaggeri comparivano sulla soglia della loro dimora nelle ore più strane della notte. Uomini scuri, coperti in volto, e dalla voce calda e l’accento disparato. A volte spagnolo, a tratti tedesco e inglese. Forse addirittura russo. Quando passeggiava nei pressi dello studio dello zio, le capitava di buttare uno sguardo sulle sue carte e non era raro incrociasse le lettere di quello strano inglese di nome Wellesley, Duca di Wellington. Plichi che sostavano sulla scrivania del padre da mesi, frutto di chissà quale misterioso disegno.

C’erano poi i messaggeri di quello tedesco di nome Stein, che Ofelia ammirava come riformatore e come uomo. Ma non aveva avuto il coraggio di chiedere conto allo zio di quelle visite e di quelle missive, anche se sentiva di potere azzardare l’ipotesi che stesse facendo qualcosa di concreto contro Napoleone e per Roma.

Ma, cosa?

Ad ogni modo, anche se il solo pensiero le dava vergogna e ribrezzo, in cuor suo Ofelia era curiosa di vedere Napoleone. E fu questa l’unica ragione per cui non accettò l’invito dello zio a restare nella dimora di Roma nei giorni a seguire, unico modo per evitare la visita del francese.

No, si disse. Voleva proprio vederlo questo Napoleone.

E forse desiderava anche parlarci.

Sarebbe stato possibile?