Erano passati giorni, poi settimane, senza che si arrivasse alla decisione di arrestare Taylor per la seconda volta. Era chiaro che i nuovi dirigenti non volevano ritrovarsi nello stesso ginepraio in cui si erano già cacciati i loro predecessori, e difendevano strenuamente la loro passività.

– Dove sono le prove che collegano Taylor a questa nuova registrazione? O all’Internet club? – aveva chiesto l’ispettrice capo Wellington dopo aver visionato le immagini. – Abbiamo un pezzo di targa del furgone e la dubbia testimonianza di un mercante di pornografia. Non ci sono altri elementi per identificare il sospetto, a parte le tue sensazioni istintive, Bob.

Sparkes sarebbe anche stato disposto a mollare, ma non poteva abbandonare Bella.

Mancava cosí poco. La Scientifica stava lavorando alle immagini del filmato nella speranza di ricavare almeno un’altra lettera o un numero della targa, e intanto altri esperti studiavano le scelte lessicali e sintattiche delle email firmate da BabboOrso e dall’UomoDeiTuoiSogni. Era a un passo dal mettergli le manette ai polsi.

Perciò, quando venne a sapere che Glen Taylor era morto, fu quasi come se gli avessero dato uno schiaffo.

– Morto?

Un suo conoscente della polizia metropolitana l’aveva chiamato non appena la notizia era arrivata alla centrale operativa. – Mi è sembrato il caso di fartelo sapere subito, Bob. Mi spiace.

Era stato quel «mi spiace» a dargli il colpo di grazia. Una volta riagganciato il telefono, l’ispettore chinò la testa, sorreggendosi la fronte con le mani. Era chiaro, ormai: non ci sarebbe stata confessione, nessun momento di trionfo. Bella non sarebbe mai stata ritrovata.

Dopo qualche minuto, Sparkes rialzò la testa di scatto. Jean! Adesso era libera: poteva parlare, dire la verità su quel giorno.

Chiamò a gran voce Salmond, e vedendola fare capolino dal corridoio le annunciò rauco: – Glen Taylor è morto. Investito da un autobus. Vieni, andiamo subito a Greenwich.

Per un attimo Salmond sembrò sul punto di piangere, poi si riprese ed entrò in modalità Wonder Woman, organizzata e operosa.

Strada facendo, Sparkes le forní i dettagli. Lei ne sapeva tanto quanto lui, ma l’ispettore sentiva il bisogno di parlarne ad alta voce, di ripercorrere l’intera vicenda.

– Ho sempre pensato che Jean stesse coprendo suo marito. Una brava persona, ma completamente soggiogata da Glen. Si sono sposati presto: lui era quello in gamba, che aveva studiato e si era trovato un buon impiego; lei era solo la graziosa mogliettina.

Salmond gli lanciò un’occhiata sbieca. – Graziosa mogliettina?

Sparkes ebbe la buona grazia di ridere. – Volevo dire che Jean era giovanissima quando si sono incontrati, e lui l’ha conquistata coi suoi begli abiti e le prospettive di carriera in banca. Lei non ha mai avuto la possibilità di sviluppare una propria personalità.

– Anche mia madre era cosí, credo, – disse Salmond, mettendo la freccia per uscire dall’autostrada.

Tu invece no, pensò l’ispettore. L’aveva conosciuto, il marito di Zara Salmond. Un tipo solido, simpatico, che non cercava di mettersi in mostra o di chiuderle la bocca.

– Potrebbe essere il tipico caso di folie à deux, – disse Salmond in tono meditabondo. – Come Ian Brady e Myra Hindley, o come i coniugi West. Ho studiato i loro casi all’università. Coppie che finiscono per condividere una psicosi o una forma di delirio, perché uno dei due soggetti predomina sull’altro. Credono di avere il diritto di fare certe cose, per esempio. Aderiscono a un sistema di valori che nessun altro, al di fuori della coppia, considera accettabile. Mi scusi, capo, forse non so spiegarmi bene.

Bob Sparkes rimase in silenzio per qualche minuto, a meditare sulla teoria. – Ma se è stata una folie à deux, significa che anche Jean sapeva e approvava il rapimento di Bella.

– È già successo in passato, come dicevo, – replicò Salmond, senza staccare gli occhi dalla strada. – E poi, quando la coppia viene separata, l’individuo succube si libera abbastanza in fretta dal delirio. Ridiventa lucido, in un certo senso. Capisce cosa intendo?

Ma Jean Taylor non si era tolta la maschera nemmeno quando Glen era in carcere. Possibile che lui riuscisse a controllarla anche da dietro le sbarre?

– Stavo pensando a una forma di dissonanza cognitiva, o magari a un’amnesia selettiva, – mormorò Sparkes, riesumando con un po’ di apprensione i suoi studi casalinghi di psicologia forense. – Forse si è rifiutata di ammettere la verità perché aveva paura di perdere tutto? Ho letto che a seguito di certi traumi la mente umana può cancellare il ricordo di eventi troppo dolorosi o stressanti. Quindi lei potrebbe aver cancellato dalla sua memoria le informazioni che mettevano in dubbio l’innocenza di Glen.

– Ma è davvero possibile una cosa del genere? Una persona può credere che il nero sia bianco? – chiese Salmond.

La mente umana è uno strumento potentissimo, pensò Sparkes, ma sembrava una frase troppo banale per dirla a voce alta.

– Non sono un esperto, Zara. Ho solo letto un po’ di cose per conto mio. Dovremmo parlare con qualcuno che abbia fatto delle ricerche nel campo.

L’ispettore provò una punta di imbarazzo: era la prima volta che la chiamava per nome. Non sta bene, si disse. Il sergente Matthews era sempre stato Matthews, mai Ian. Azzardò un’occhiata in tralice: Salmond non dava segno di essersi offesa, né tanto meno di aver colto quel piccolo passo falso.

– A chi potremmo rivolgerci, signore?

– Conosco un’esperta che potrebbe darci qualche dritta: la dottoressa Fleur Jones. Ci ha già aiutati in precedenza.

Notò con sollievo l’assenza di qualsiasi reazione da parte di Salmond. Se era andato tutto storto, la colpa non era certo della dottoressa Jones.

– Perché non la chiama, allora? – disse il sergente. – Prima che arriviamo a destinazione, magari. Sarebbe utile sapere qual è il modo migliore di affrontare Jean Taylor.

Salmond si fermò alla prima stazione di servizio e fece il numero.

Un’ora piú tardi l’ispettore Sparkes varcava la porta del pronto soccorso.

– Salve, Jean, – disse, sedendosi accanto alla vedova su una sedia di plastica arancione. Lei quasi non si mosse. Sembrava pallidissima, le orbite annerite dal dolore.

– Jean, – disse ancora l’ispettore, posando una mano sulla sua. Non l’aveva mai toccata, tranne quando le aveva preso il braccio per farla entrare in macchina, ma ora non poteva farne a meno. Sembrava cosí vulnerabile.

La mano di Jean Taylor era freddissima a contatto con la sua, ma Sparkes non si ritrasse. Continuò a parlarle in tono basso e urgente, rischiando il tutto per tutto.

– Adesso può dirmelo, Jean. Può dirmi cos’ha fatto Glen alla bambina, e dove l’ha nascosta. I segreti non servono piú a nulla, ormai. E poi questo era il segreto di Glen, non il suo. Lei è stata una vittima, Jean. Esattamente come Bella.

La vedova voltò la testa dall’altra parte, sembrò rabbrividire.

– Me lo dica, Jean, per favore. Se ne liberi adesso, cosí avrà un po’ di pace.

– Bob, io non so niente di Bella, – rispose lei parlando lentamente, come si fa con i bambini. Poi liberò la mano e cominciò a piangere. Lacrime mute che rotolavano sulle guance, sul mento, in grembo.

Sparkes restò seduto, incapace di muoversi. Jean Taylor si alzò e si avviò verso il bagno delle signore.

Ne uscí un quarto d’ora piú tardi con un fazzoletto di carta premuto sulla bocca. Senza la minima esitazione, andò verso la porta a vetri del pronto soccorso e sparí.

Sparkes era una statua di sale. – Ho mandato a puttane la nostra ultima occasione, – mormorò a Salmond, che si era seduta al posto di Jean. – Ho scazzato alla grande.

– Jean è sotto shock, signore. Completamente sconvolta. Diamole il tempo di calmarsi e di riflettere. Magari tra un paio di giorni andiamo a trovarla.

– Domani, andiamo domani, – disse Sparkes, alzandosi.

Ventiquattr’ore dopo erano davanti alla sua porta. Jean Taylor era vestita di nero e sembrava invecchiata di dieci anni, ma era pronta ad accoglierli.

– Come sta, Jean? – chiese Sparkes.

– Bene e male. La mamma di Glen si è fermata a farmi compagnia per la notte. Entrate, prego.

Sparkes si sedette sul sofà accanto a lei, e mettendosi di traverso in modo da avere tutta la sua attenzione tentò un piú mite corteggiamento. Zara Salmond e la dottoressa Jones avevano riconsiderato la situazione e pensavano che fosse utile esordire con qualche moina, per farla sentire importante e responsabile.

– Jean, lei è stata una roccia. Ha sempre sostenuto suo marito.

Lei batté le palpebre per la sorpresa. – Ero sua moglie, Glen contava su di me.

– Ma certe volte sarà stato difficile, Jean. Si sarà sentita sotto pressione.

– No, ero contenta. Sapevo che non aveva fatto niente, – rispose lei. La solita battuta ripetuta mille volte, ormai vuota di senso.

Il sergente Salmond si alzò e cominciò a gironzolare per la stanza. – I biglietti di condoglianze non sono ancora arrivati?

– Non me li aspetto neanche, – rispose Jean. – Giusto qualche lettera di insulti, come sempre.

– Dove sarà il funerale? – chiese Sparkes.

In quel momento comparve sulla soglia la madre di Glen Taylor, che ovviamente era rimasta a origliare nel corridoio. – Al crematorio, – rispose. – Una cerimonia semplice, solo per dirgli addio: non è vero, Jean?

La vedova annuí, immersa nei suoi pensieri. – Pensi che ci saranno dei giornalisti? – chiese. – Non so se riuscirò a sopportarlo.

Mary Taylor si sedette sul bracciolo del sofà, accanto alla nuora, e le accarezzò i capelli. – Ce la faremo, Jeanie. Come ce l’abbiamo fatta finora. Ma chissà, può darsi che a questo punto si decidano a lasciarti in pace.

La frase era destinata tanto ai giornalisti in attesa davanti alla porta, quanto ai due poliziotti che ingombravano il salotto.

– È dalle otto di stamattina che bussano, – seguitò la madre di Glen. – Gli ho detto che Jean è troppo sconvolta per parlare, ma quelli non se ne vanno. Le ho proposto di trasferirsi da me per un po’, ma vuol restare a casa sua.

– Glen è qui, – disse Jean, mentre Sparkes si alzava per andarsene.