Una volta mi piaceva tanto, il pranzo della domenica. Facevo sempre il pollo arrosto con tutti i contorni. Era come una festa di famiglia, e quand’eravamo sposini invitavamo sempre i nostri genitori. Si sedevano al tavolo della cucina, e mentre io infornavo le patate e versavo il tè, loro ascoltavano la hit-parade alla radio o leggevano il giornale.

Invitare a pranzo i nostri genitori ci piaceva, ci faceva sentire grandi. C’è chi entra nel mondo degli adulti quando trova il primo impiego, o quando va a vivere da solo; io invece ho sentito di esserci entrata grazie ai pranzi della domenica.

Io e Glen adoravamo la nostra casetta. Avevamo un salotto con le pareti color crema – una tinta «di gran classe», diceva Glen – e un divano verde comprato a rate, con due poltrone uguali. Alla fine l’avremo pagato un capitale, ma si intonava benissimo e Glen l’aveva voluto a tutti i costi. Per la cucina nuova ci è toccato aspettare di piú, ma a furia di risparmiare siamo riusciti a mettere da parte abbastanza soldi e abbiamo scelto le ante bianche. Siamo andati al mobilificio e abbiamo gironzolato per un’eternità, mano nella mano come fanno i giovani sposi. A me piaceva il legno di pino, ma Glen voleva qualcosa di «pulito», e cosí abbiamo scelto il bianco. Nei primi tempi, per dirla tutta, ci sembrava un po’ una sala operatoria, ma con le maniglie rosse, dei bei barattoli e altri accessori colorati siamo riusciti a ravvivarla un po’. La cucina era «campo mio», come diceva Glen, e io l’adoravo.

Lui non cucinava mai. «Per carità, farei solo confusione», scherzava, e ci mettevamo a ridere. Quindi toccava a me.

La domenica Glen preparava la tavola, fingeva di fare la lotta con mio padre per fargli alzare i gomiti, prendeva in giro sua madre che leggeva sempre l’oroscopo. «E allora, mamma, quand’è che arriva l’uomo dei tuoi sogni?»

Il padre di Glen si chiamava George e non parlava tanto, però veniva tutte le domeniche. Non avevano granché in comune, a parte il calcio, ma litigavano anche su quello. George andava allo stadio, invece a Glen piaceva guardare le partite alla tele: gli dava fastidio la calca, tutti quei corpi strizzati insieme, il sudore e le bestemmie. «Sono un purista, Jean. Mi piace lo sport, non la vita sociale». Suo padre però gli dava del finocchio.

Insomma, George non lo capiva per niente, e forse era in soggezione perché Glen aveva studiato. Da ragazzino andava bene a scuola – era sempre tra i primi della classe – e lavorava sodo perché, diceva, non voleva finire a guidare i taxi come suo padre. È buffo che poi alla fine si sia ritrovato a fare un lavoro simile. Una volta gliel’ho detto a Glen, cosí per scherzo, ma lui mi ha spiegato che tra un tassista e un autotrasportatore ci passava una bella differenza.

Io invece non lo sapevo, cosa volevo diventare. Magari una ragazza carina, di quelle che non hanno bisogno di provarci con nessuno. Io in effetti non ci provavo mai con nessuno, e Glen diceva che ero carina, quindi in un certo senso il sogno si è avverato. È vero che per Glen mi sono data un po’ da fare, ma senza mai esagerare col trucco. Non gli piaceva. «Cosí conciata sembri una sgualdrina, Jeanie».

Ai nostri pranzi della domenica Mary portava sempre la torta di mele, e mia mamma un mazzo di fiori. Non era una gran cuoca, onestamente. Le verdure in scatola le piacevano piú di quelle fresche, il che è proprio strano, ma papà diceva che l’avevano cresciuta cosí e alla fine ci si era abituata.

Quando a scuola facevamo economia domestica, io portavo sempre a casa gli avanzi di quello che cucinavo. Non erano male, in effetti, ma le pietanze «esotiche» come le lasagne o il chili con carne non la facevano proprio impazzire, e lo si capiva da come le faceva girare nel piatto.

Però il pollo arrosto andava bene a tutti, e per lei facevo sempre i piselli in scatola.

Ai nostri pranzi della domenica ridevamo un sacco, me lo ricordo bene. Ridevamo di niente: cose buffe che erano capitate in banca o dalla parrucchiera, pettegolezzi sui vicini e sui personaggi di EastEnders. Quando scolavo le carote e i cavoli la cucina si riempiva di vapore, e Glen disegnava con le dita sui vetri. A volte faceva dei cuori e Mary mi sorrideva. Mia suocera non vedeva l’ora di avere dei nipotini, e mentre lavavamo i piatti mi chiedeva sempre se c’erano novità. All’inizio dicevo: «Eh, c’è tempo: siamo appena sposati!», poi ho cominciato a far finta di non sentire con la scusa che stavo riempiendo la lavastoviglie, e dopo un po’ lei ha smesso di fare domande. Forse aveva capito che il problema era di Glen. A quei tempi le ero molto affezionata, piú che a mia mamma, e quindi sapeva che se il problema fosse stato mio gliene avrei parlato. In realtà non le ho mai detto niente, ma forse lei aveva capito da sola. Glen mi sgridava: «Sono affari nostri, Jeanie, e di nessun altro».

Poi i pranzi della domenica sono diventati meno frequenti perché Glen e suo padre non si sopportavano piú.

Mio suocero era venuto a sapere del nostro problema di fertilità e ci aveva scherzato su durante un pranzo di Natale a casa loro, l’anno che avevamo appena avuto la diagnosi.

«Guarda, – aveva detto, prendendo una clementina dal portafrutta. – Tu sei cosí: senza semi».

Antipatico o no, persino lui si era subito reso conto di aver esagerato. Nessuno parlava, c’era un silenzio tremendo. Non sapevamo proprio cosa dire, perciò ci siamo messi a guardare la tele e intanto facevamo girare la scatola dei dolci. Insomma, fingevamo che non fosse successo. Glen era bianco come un lenzuolo, immobile come una statua. Io avrei voluto toccarlo ma non ci riuscivo. Senza semi.

Mentre tornavamo a casa ha detto che non l’avrebbe mai perdonato. E infatti. Non ne abbiamo piú parlato, anche.

Io avrei tanto desiderato un bambino, ma lui non voleva sentir parlare del «nostro problema» (cosí mi aveva detto di chiamarlo) e neanche di adozione. Si chiudeva in sé stesso, e allora anch’io facevo altrettanto e mi tenevo dentro i miei pensieri. Per un po’ siamo stati come due estranei nella stessa casa.

Ai pranzi della domenica Glen aveva smesso di disegnare col vapore, adesso apriva la porta di servizio per farlo uscire. Poi abbiamo cominciato ad alzarci da tavola sempre piú presto, a inventarci delle scuse. «Guarda, Mary, questa settimana siamo presissimi. Ti spiace se rimandiamo a domenica prossima?» Dopo un po’ è diventato «il mese prossimo», e alla fine i pranzi in famiglia li facevamo solo per i compleanni e a Natale.

Se avessimo avuto dei figli, loro sarebbero diventati nonni e sarebbe stato tutto diverso. Invece cosí ci sentivamo obbligati a recitare una parte e ci mancava l’aria. Mai un diversivo, sempre e solo noi. E Glen non sopportava che giudicassero la nostra vita. «Si immischiano in tutto», mi ha detto quella volta che Mary e mia mamma si erano messe a discutere su dove dovevamo comprare la cucina nuova. «Vogliono solo darci una mano, amore», ho detto io, ma vedevo che c’erano delle nuvole scure sulla sua testa. Glen se n’è rimasto zitto fino a sera, immerso nei suoi pensieri.

Una volta non era cosí, ma a un certo punto Glen ha cominciato a offendersi per qualsiasi cosa. Giorni e giorni col broncio solo perché il giornalaio gli aveva fatto una battutaccia sull’Arsenal o un ragazzino in autobus l’aveva preso in giro. Io cercavo di sdrammatizzare, ma alla lunga diventava faticoso, cosí ho smesso e l’ho lasciato cuocere nel suo brodo.

Dopo un po’ mi è venuto il dubbio che lo facesse apposta, a essere sempre cosí arrabbiato. Anche sul lavoro gli davano fastidio tutti, persino quelli con cui era sempre andato d’accordo: tornava a casa e si lamentava. Io mi accorgevo che stava ruminando qualcosa, che cercava la rissa, e mi sforzavo di farlo ragionare. Fossimo stati piú giovani magari ci sarei riuscita, ma ormai le cose stavano cambiando.

Una delle mie clienti in negozio diceva sempre che in ogni matrimonio c’è una fase tipo «amore disperato», poi si torna alla normalità. Ma era questa la normalità? Siamo proprio sicuri?

È stato allora, credo, che ha cominciato a stare piú tempo davanti al computer. Saliva di sopra e mi chiudeva fuori dalla sua vita. Preferiva le sue sciocchezze a me.