32.
La vedova
Mercoledí, 17 settembre 2008
Stamattina qualcuno ci ha infilato l’«Herald» sotto la porta: hanno ricominciato a prendersela con Glen e lui l’ha buttato direttamente nel cestino. Io sono andata a ripescarlo e l’ho nascosto nel sottolavello, dietro la candeggina. Ce l’aspettavamo, perché quelli dell’«Herald» sono venuti proprio ieri a picchiare sulla porta, a gridare domande e infilare bigliettini nella buca delle lettere. Vogliono promuovere una campagna per la riapertura del processo, in modo che Bella possa avere giustizia. – E un po’ di giustizia per me, no? – ha detto Glen.
È stato un brutto colpo, ma a sentire Tom sarà meglio che quelli dell’«Herald» abbiano le tasche ben gonfie, visto che gli toccherà pagare le spese; anche perché non hanno nessuna prova. Tom ci ha consigliato di chiudere bene i boccaporti: chissà cosa voleva dire. Quelli dell’«Herald» ci attaccheranno a fucili spianati, ha detto, ma in realtà sono solo chiacchiere, giornalismo da strapazzo. Glen mi ha riferito tutto parola per parola.
– Sembra che siamo in guerra, – dico, poi sto zitta. Secondo Tom non è il caso di fasciarsi la testa. Spero che abbia ragione.
– Dobbiamo solo starcene tranquilli, Jeanie, – mi spiega Glen. – Tom farà causa al giornale, ma dice che sarebbe meglio andarcene in vacanza («Uscire di scena per un po’», ha detto) finché la bolla non scoppia. Stamattina accendo il computer e faccio una prenotazione.
Non è che mi ha chiesto dove vorrei andare, e se devo essere sincera non mi importa. Gli aiutini chimici cominciano a fare meno effetto, e sono talmente stanca che potrei mettermi a piangere.
Alla fine sceglie un qualche posto in Francia. Nell’altra vita sarei stata emozionatissima, ma adesso non so bene cosa pensare: dice che ha affittato una villetta in campagna, persa nel nulla. – Il nostro volo parte alle sette di domattina, Jeanie, quindi dobbiamo uscire di casa alle quattro. Prepariamo subito le valigie. All’aeroporto ci andiamo con la nostra macchina: non vorrei che il tassista desse l’imbeccata ai giornali.
Sa tante cose, il mio Glen. Grazie al cielo c’è lui che si occupa di me.
In aeroporto mettiamo gli occhiali da sole e stiamo a testa bassa; ci avviciniamo al bancone solo quando la coda è quasi finita. L’impiegata del check-in ci guarda a malapena, chiede se i bagagli li abbiamo preparati noi, e senza neanche darci il tempo di rispondere carica la nostra valigia sul nastro trasportatore.
Mi ero dimenticata quante code bisogna fare negli aeroporti. Siamo talmente stressati che quando finalmente si può salire in aereo io vorrei quasi quasi tornarmene a casa dal nostro branco di giornalisti. Glen mi prende per mano e mi dice: – Su, amore. Ce l’abbiamo quasi fatta.
Atterriamo a Bergerac: lui va a ritirare la macchina che abbiamo noleggiato e io resto ad aspettare la valigia. Il nastro dei bagagli mi ipnotizza – è un sacco di tempo che non viaggiamo in aereo – e non ricordo piú di che colore era la nostra, perciò mi tocca aspettare che tutti gli altri abbiano preso i loro trolley. Finalmente esco fuori alla luce viva del giorno, e vedo Glen che mi aspetta dentro una macchinetta rossa. – Non mi sembrava il caso di prenderne una piú grande, – dice. – Non viaggeremo granché, giusto?
Strano come essere da soli in Francia sia diverso da essere da soli a casa nostra. Senza il nostro trantran, non sappiamo cosa dirci. E quindi non parliamo. Uno si immagina che dopo tanto fracasso e toc-toc di giornalisti un po’ di silenzio possa essere rilassante, invece no. Anzi, è peggio. Comincio a fare lunghe camminate per le stradine e nei boschi vicino a casa. Invece Glen se ne sta seduto sulla sdraio a leggere romanzi gialli. Quando ho visto cosa metteva in valigia mi è venuta voglia di urlare. Come se non ne avessimo avuto abbastanza, di poliziotti e indagini.
Lo lascio ai suoi delitti perfetti e vado a sedermi dalla parte opposta della veranda con una pila di riviste. Dopo un po’ mi rendo conto di spiarlo: lo scruto, lo tengo d’occhio, rimugino. Se dovesse accorgersene gli dirò che stavo guardando qualcosa dietro di lui. In un certo senso è vero.
Non lo so cosa sto cercando di preciso. Forse un segno: della sua innocenza, di quanto gli è costato sopportare tutto questo, di come lui è veramente. Davvero non saprei dire.
Ci allontaniamo da qui solo per andare al supermercato piú vicino a fare scorta di provviste e carta igienica. A cucinare sul serio non ci penso neanche. Cercare quel che serve per fare due spaghetti alla bolognese sarebbe già troppo faticoso, quindi a pranzo mangiamo pane, prosciutto e formaggio, a cena pollo arrosto freddo o ancora prosciutto e insalata di cavolo. E comunque non è che abbiamo fame. È solo roba da far girare nei piatti.
Dopo quattro giorni che siamo qui mi sembra di vedere qualcuno lungo il sentiero che costeggia il giardino. È il primo passante da quando siamo arrivati. Da queste parti, una macchina è un evento eccezionale.
Non sto a pensarci piú di tanto, ma il giorno dopo vedo uno che si avvicina a piedi lungo il vialetto.
– Glen, arriva qualcuno!
– Jean, vieni dentro, – dice lui a bassa voce, poi chiude la porta e comincia a tirare le tende. Aspettiamo di sentirlo bussare.
Quelli dell’«Herald» ci hanno trovati. Trovati e fotografati: «Il rapitore e sua moglie si godono il sole della Dordogna nel loro rifugio esclusivo», mentre Dawn Elliott «continua disperatamente a cercare la sua bambina». Il giorno dopo, Tom ci legge i titoli al telefono. – Tu lo sai che siamo qui solo perché a casa non ci davano tregua, – gli dico. – E Glen è stato prosciolto in tribunale.
– Lo so, Jean, ma i giornalisti hanno un tribunale tutto loro. Sta’ tranquilla, vedrai che tra non molto passeranno ad altro: sono come i bambini, basta poco per distrarli.
Dice che forse l’«Herald» ha tracciato i movimenti della carta di credito di Glen.
– E possono farlo? – gli chiedo.
– No, ma questo non basta a fermarli.
Metto giú il telefono e vado a fare la valigia. Razza di cafoni.
Arriviamo a casa e li troviamo ad aspettarci. Glen chiama subito Tom per capire se gli si può impedire di scrivere certe cose.
– È reato di calunnia, Jeanie, – mi spiega poi. Tom dice che dobbiamo fargli causa, o almeno minacciare di fargli causa, altrimenti non la smetteranno mai: continueranno a scavare nelle nostre vite e ci sbatteranno in prima pagina.
Io voglio che la smettano, perciò dico che sono d’accordo. Glen sa cosa fare.
Gli avvocati ci mettono un bel po’ a preparare la lettera. Ci vuole del tempo a spiegare perché le accuse sono false. Poi andiamo di nuovo a Holborn, ed è la stessa linea della metro che prendevo per andare al suo processo. – Come in Ricomincio da capo, – dice. Cerca di tenermi su di morale, e io gli voglio bene per questo.
L’avvocato difensore non è piú Charles Sanderson. Questo di adesso è un gran piacione. Scommetto che la sua parrucca è nuova nuova. Sembra molto ben messo, un tipo da fuoriserie e villa in campagna. Il suo ufficio è tutto vetro e metallo. È chiaro che i soldi veri si fanno con le cause per calunnia: qualcuno dovrebbe dirlo al signor Sanderson.
E poi viene subito al sodo. Fa domande cattive, come il pubblico ministero, e le ripete un sacco di volte. Stringo la mano di Glen per fargli capire che sono dalla sua parte, e anche lui me la stringe.
Il Piacione pesta e ripesta su ogni minima cosa.
– Devo collaudare la strategia processuale, signor Taylor, perché sostanzialmente ci aspettiamo una replica del processo Bella Elliott. L’accusa è stata respinta per illiceità dei metodi di indagine, ma quelli dell’«Herald» sono sempre convinti che la bambina l’abbia rapita lei. Noi diciamo che è un’ipotesi falsa e diffamatoria, ma è certo che le butteranno addosso di tutto: elementi dell’inchiesta, ma anche prove raccolte da loro e non ammissibili in un processo criminale. Capisce?
Dobbiamo aver fatto una faccia un po’ assente, perché Tom si è messo a rispiegarci tutto in parole povere mentre il Piacione guardava il paesaggio.
– Hanno in mano un sacco di robaccia, Glen. E te la scaraventeranno addosso per convincere i giurati che non si tratta di diffamazione. Quindi dobbiamo dimostrargli che sei innocente, perché in quel caso la giuria dovrà per forza dare torto all’«Herald».
– Io sono innocente, – risponde Glen, tutto infuocato.
– Lo sappiamo. Ma dobbiamo dimostrarlo, e dobbiamo essere certi che in tribunale non ci saranno sorprese. Tutto qui, Glen. Se davvero vuoi buttarti in quest’impresa devi farlo a occhi ben aperti, perché sarà una causa molto costosa. Ti costerà migliaia di sterline.
Glen si volta a guardarmi e io cerco di fare la coraggiosa, ma vorrei tanto darmela a gambe. Forse potremmo usare quei soldi sporchi che ci hanno dato.
– Non ci saranno sorprese, vero, signor Taylor? – ripete il Piacione.
– No, nessuna, – dice il mio Glen. Io tengo gli occhi bassi.
La lettera parte il giorno dopo e l’«Herald» lo strilla a tutta pagina. Lo dicono anche in radio e alla tele.
TAYLOR CERCA DI IMBAVAGLIARE L’«HERALD», dice il titolo. Detesto la parola «imbavagliare».