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BHAKTI SI MUTA IN TANTRA

Esiste anche una bhakti śivaita. Nei Veda la si scorge nei versi dedicati al kāma, la spinta del desiderio, un termine dalla cui radice indoeuropea qā- derivano il latino carus e l’inglese whore, «puttana». L’Inno della Creazione (Ṛgveda, X, 129, 4) pone all’origine (agre) ossia alla radice dell’essere, un’unità senza attributi (ekam) indicata come «Quello» (Tat): «quell’Uno» che – fondato su se stesso – respirava «senza fiato». Lo generò la potenza (śakti) del «desiderio» (tapas), che Coomaraswamy traduceva «intensificazione». L’unità fu il risultato sul piano cosmico di un’implosione, di uno scatto centripeto, analogo all’atto di intensificazione dell’asceta, che può suscitare un calore violento. Secondo M. Winternitz questo intensificarsi sarebbe doloroso; meglio intenderlo con Bhattacarya come semplice «ideazione». Mircea Eliade mise tapas in rapporto col tedesco Wut, il latino furor, l’antico irlandese ferg, il greco μένος che Dumézil considerava equivalente al vedico manyu, il massimo trascinamento sia psichico che intellettuale, proprio di poeti, maghi, guerrieri, innamorati, artisti ispirati. Tapas è il mezzo per conseguire il manyu e coincide con la padronanza sciamanica del fuoco.

Dice il Ṛgveda che kāma «ricoprì l’Uno come un’onda» (sama vartatādhi: X, 1, 29, 4). L’universo molteplice si manifesta come un’esplosione centrifuga, opposta all’implosione generatrice dell’Uno. Ciò che è primo nella cosmologia diventa secondo nell’esperienza umana: l’uomo avverte dapprima i desideri centrifughi e poi li coarta mediante il tapas centripeto.

Il kāma cosmogonico produce il mondo noto, scisso, bisessuale, in cui forze attive e seminali (retodhā) s’infrangono su forze passive e nutrienti (mahimāna). La coscienza o mente sarebbe dunque un riflesso del kāma? Maryla Falk ritiene vero il contrario1.

Il kāma (desiderio) fu personificato come un dio, Kāma appunto (Atharvaveda, IX, 1-25; Ṛgveda, X, 1, 29, 4), autogenito (ātmabhū), emesso dal proprio grembo (ātmayoni), nato dalla coscienza (manobhū); è lui che suscita il ricordo (smara) e l’ebbrezza (madana). Monta un pappagallo il cui becco fende i frutti, rendendoli più sapidi. La sua arma è una canna da zucchero attorno alla quale si avvolge una corda di api in fila serrata che scocca cinque fiori: i cinque sensi. Kāma è tutt’uno con il Fuoco. Secondo il Viṣṇu Purāṇa, egli sorge dal cuore del creatore Brahmā, mentre il Mahābhārata (I, 2596) lo chiama figlio di Dharma o Natura e di Śraddhā o Fede. Sposa Prīti, Gioia, ma anche Rati, la ninfa che è il formicolio del desiderio, il rampollare di mille inganni; con lei procrea Sete, Tṛṣṇā. I Purāṇa dicono che Kāma fu chiamato a salvare il mondo quando Śiva s’immerse nell’ascesi (tapas). Colpito dalla freccia di Kāma, Śiva tornò ad accoppiarsi con Pārvatī, ma il suo terzo occhio incenerì Kāma. Rati placherà Śiva e Kāma risorgerà come una brezza senza corpo o come Pradyumna, incarnazione di Viṣṇu, personificazione della mente.

Fuori di questa mitologia, la filosofia śivaita dirà che l’impulso del desiderio (kāmakāra) prodotto dalla natura suscita una vibrazione generatrice di un suono (nāda), raffigurato nel punto dove Śiva e la sua parte femminile si unificano nella totalità della potenza, dalla quale scatta il triangolo che origina lo spazio (mūlatrikoṇa).

Il Signore Śiva, Īśvara, corrisponde allo zero, matrice di positivo e negativo, coincidenza dei contrari. È anche un’unità dinamica di opposti, un processo di trascendimento incessante di se stesso. Śiva è «quell’Uno» personificato dell’inno cosmogonico vedico e perciò comprende Kāma, come il Dioniso dei Minoici include il Desiderio.

Le Śākta Upaniṣad della fine dell’VIII secolo affermano che essere consapevoli di Śiva fa diventare Lui. Śiva è androgino e la parte femminile che lo potenzia è nota come Durgā l’infuocata, propizia agli yogin; come Pārvatī, figlia dell’Himālaya, natura originaria; come Umā, generatrice della vegetazione nella stagione delle piogge; come Kumārī, la Fanciulla, e come Kālī da cui ogni vita promana ed è riassorbita. Appare nuda perché al di qua della māyā, emaciata perché legata a ciò che è funebre, nera perché ogni colore in lei si annulla, colta nell’atto di danzare in eterno sul cadavere dello Śiva protorivelato. La si conosce come Caṇḍī, la Furibonda, l’Inaccessibile, la Montana, la Propizia, la Vergine, l’Oscura, la Selvaggia, infine come Bhavānī, «Colei che largisce la vita». Il Mārkaṇḍeya Purāṇa, il cui nucleo sembra risalire al III secolo, insiste a sottolineare l’ambiguità della Dea che è conoscenza e inganno, memoria sconfinata e confusione assoluta. Ci fu anche un culto delle sette Madri, le sei spose degli dèi maggiori più Cāmuṇḍā l’Orribile; danzano in tondo attorno a Śiva ed egli ne proietta la furia sui demoni nefasti.

I Tantra śivaiti chiamano la bhakti viṣṇuita «il sentiero per anime asservite», mentre la via śivaita si addice ad anime eroiche. Sul sentiero śivaita gioia e rinuncia si fondono. Il Caṇḍamahārosanatantra spiegherà che soltanto la passione può estinguere se stessa e che non ci sono né inferno né paradiso, né vizio né virtù, utili soltanto ad assecondare le menti plebee, mentre nella vita tutto è momentaneo e non può dunque finire in luoghi di pena o compenso.

La bhakti śivaita esalta l’ambiguità di Śiva liberatore e distruttore, in Lui s’incontrano il tapas centripeto e il kāma centrifugo.

Per la bhakti śivaita la distruzione è tutt’uno con la trama della realtà. Questa bhakti è prospettata a riscontro della Bhagavad Gītā, nel trattato Īśvaragītā (tradotto da Mario Piantelli) come «conoscenza unificante», che si può denominare calma profonda, eternità, coscienza pura, testimonianza, Śiva.

Nel x e XI secolo composizioni śivaite in lingua kannaḍa, le cosiddette Upaniṣad del Karnāṭak, celebrano il fondamento dell’essere senza attributi (nirguṇabhakti).

La trafila dei poeti śivaiti culmina nel IX secolo con Māṇikka Vācakar, descritto come sperduto, arreso, incapace ormai di distinguere giorno e notte: Śiva l’ha stretto nel suo incanto e l’estasi lo schianta, il Signore penetra nel suo corpo addolcendolo, sfibrandolo, bruciando ogni vincolo.

Nello śivaismo tamilo l’Anubhāva Sūtra di Māyideva insegna che śakti e bhakti coincidono anche se l’una si manifesta come creazione del mondo e l’altra come ritorno a Dio.

Come l’acqua assume ogni sapore nella varietà dei frutti, così la bhakti prende forme svariate, e si potrà distinguere in lei: Śiva; la beatitudine; la conoscenza diretta della liberazione; l’adorazione; la devozione. Differenze peraltro superflue, essendo il bhakta sommerso dal tutto.

Definizione di bhakti: il momento in cui si scambia il falso per vero, ma la devozione distacca la mente e svela l’unità con Dio.

Lo śivaismo tamilo prescrive una bhakti fatta di osservanza (caryā) e di culto come devozione familiare, servizio, sodalizio, amorevolezza – che portano infine ad assumere la forma di Śiva (sarūpa). I casi di devozione popolare tamila nel loro estremismo possono turbare: ci si strappa via gli occhi per arrestare il sanguinamento dell’occhio divino; si offre la carne di un figlioletto o il primo pesce di una retata: non conta l’atto, ma lo spirito di resa, non il gesto o il suo oggetto, non il verbo ma l’avverbio.

Śiva, «quell’Uno», è esente da forma, ma assume l’aspetto della grazia e del godimento come sposo innamorato dell’anima: costei, una volta liberata, giace col capo sui piedi del suo Signore. Il seguace della bhakti śivaita invoca di essere raccolto da Śiva come un gattino nella bocca della madre.

Il culto popolare di Śiva si risolse in esperienze di transe, possessione e anestesia. L’accoppiarsi eterno di Śiva e della Dea si tramuta in potenza (śakti) del devoto: egli, contemplandoli, si trasforma di colpo in Bhairava, il «tremendo», il distruttore dell’io, l’eliminatore di tempo e spazio, di ogni linguaggio e costrutto concettuale. La devozione bhaktica garantisce che questo invasamento resti innocuo; fino a quando domina la grande anima (mahātman), si è garantiti: si potrà camminare su braci ardenti, cadere su punte aguzze2.

Il poeta śivaita bengalese Rāmprasāda Sen († 1775) scrisse inni a Kālī Cuor-di-Pietra donde sprigionano tutti gli inganni che tramano l’esistenza, ed è al contempo la Madre colma d’amore; negli stessi anni Goethe si dedicava con princìpi identici a precisare l’idea di Natura.


1 Nel pensiero brahmanico arcaico la questione del nesso kāma-coscienza è controversa e Zolla rinvia opportunamente all’opera maggiore di Maryla Falk, Il mito psicologico nell’India antica (Milano, Adelphi, 1986), che risale agli anni trenta del Novecento. Falk coglie il fulcro del mito cosmogonico vedico nella spinta irresistibile dell’Uno-Tutto a porre in essere la realtà tramite il sacrificio di se stesso esitato nella dualità. Kāma sarebbe appunto il fattore scatenante del processo divisivo nella sterminata combinazione dei suoi aspetti ed effetti sui piani fisico materiale, psichico e spirituale (N.d.C.).

2 «Tremendo» è l’epiteto ricorrente di Śiva, che intitola il Vijñānabhairava, uno dei Tantra più celebrati della Scuola che nei secoli VII-VIII predicò l’esperienza dell’illuminazione improvvisa, come spiega Raniero Gnoli nella dotta introduzione a Vijñānabhairava. La conoscenza del tremendo, il testo in 112 stanze tradotto per la prima volta e commentato in italiano da Attilia Sironi (Milano, Adelphi, 1989), una lettura imprescindibile per affrontare Le tre vie e l’evidente osticità della materia trattata (N.d.C.).