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LA CORNICE
Lucknow, 1984. Un giovane inglese barbuto, come uscito da un galeone del Settecento, come irruvidito dagli uragani si era slanciato a piedi, a vent’anni per vie e sentieri dell’India fino all’Assam e mi confidava, con voce inabissata, d’essere allora pervenuto all’intimità più stretta coi cacciatori di teste d’una tribù ancora intatta in quelle foreste. Ora però commentava con rigore ogni variante nelle figurazioni di Viṣṇu succedutesi per due millenni e sperava in una chiamata da un’università tedesca.
Era riuscito ad allestire un convegno a Lucknow con l’aiuto dei politici locali, che ricevettero entro una tenda di stile moghul studiosi indiani, americani, europei. Il convegno trattava di come nasca e si perpetui il potere politico nelle arti e nel mito, da quali pantheon discenda e si faccia spalleggiare1.
Propizia la città! La sua storia terrificante e sontuosa echeggia a ogni crocicchio. Ricca d’accademie di danza e pittura e d’un museo prezioso, offre una struggente bellezza, il Grande Imāmbāra, apice dell’architettura moghul, uno spazio definito, abbracciato, ritmato da quinte su quinte di rossi palazzi merlettati, spianate di roseti e folti di tamerici disposte su scale monumentali variamente angolate.
La contemplavo nei crepuscoli: la sconfinata conca di meraviglie puntava al cielo turchino, verso nubi di madreperla già arrossate all’orlo, la selva di pinnacoli moreschi e di torri bombate; un soave ventaglio di pennacchi in muratura si stendeva a corona dell’ingresso chiamato Porta romana, ovvero bizantina, volto a occidente.
Di rado il potere politico si è espresso con un tale fasto, giustificandosi, tramutandosi in pura bellezza. L’opera fu decisa dai sovrani moghul perché una carestia affliggeva le masse: le impiegarono e la depressione economica svanì. «Come fece Roosevelt» osservai a un’amica americana, che mi liquidò di rimando: «Sì. Da noi nella Carolina Settentrionale lui fece costruire cessi a decine di migliaia».
Ricordo di quelle giornate dialoghi memorabili. Trovai chi volle seguirmi nell’immaginare che i manichei fossero discesi dai seguaci giaina: ne riproducevano la disciplina inflessibile e la gerarchia culminante nelle ascesi dei Perfetti protesi al suicidio. Stranamente ciascuno sembrò aprirsi, raccontare la propria passione più profonda. In particolare entrai in dimestichezza con un anziano brahmano di Benares, Anand Krishna, il cui padre aveva lasciato alla galleria dell’università indù la collezione di dipinti di Nikolaj Roerich (1874-1947). Anand era d’una compitezza incantevole, avvolto nei bianchi veli della sua casta. Parlò d’una società segreta che reggeva l’impero di Akbar, il Lorenzo de’ Medici indù. La setta lo venerava come un dio. Ogni membro riceveva un medaglione che lo raffigurava, da portare avvolto nel turbante, e giurava di evitare, salvo caccia o guerra, la violenza, e di non scordarsi nemmeno per un istante di Dio, mantenendo la pace perpetua fra le religioni, onorando le stelle. Prostitute consacrate abitavano a corte, recando sul ciuffo in cima al capo l’immagine della dea, avendo giurato di dedicare tutti i loro atti agli dèi. Anand illustrava a ogni tratto la consapevolezza che eros e ascesi, potere e rinuncia sono avvinti in modo così serrato da fondersi sotto l’occhio sapiente.
Ma anche altri mi attrassero, in quella compagnia impegnata a rievocare i tempi in cui era sovrano chi avesse incontrato e amato la dea delle acque sotterranee, che gli aveva fatto dono delle terre da lei intrise e nutrite. Parlò K. Fischer, dell’Università di Bonn, autore d’un trattato su Erotismo e ascesi nell’arte indù; mostrò che talvolta la dea elargitrice d’imperio è una centaura e spesso un divino palafreno è il tramite del potere politico. Nei riti indù per l’accrescimento della potenza regale, la regina simulava l’accoppiamento con il destriero sacrificato, per assorbire nel grembo l’impero. Fischer ricollegò questa mistica equina alla forma retrattile del membro dei cavalli, simbolo d’una simultanea capacità di erotismo e ascesi, che da sempre è l’ideale mistico indù e s’incarna nella figura di Śiva, così come per i buddhisti si manifesta negli esercizi di meditazione sul pene retrattile del Maestro. A tal punto il cavallo continua a essere il simbolo del potere, che, in luoghi dell’India dove esso è sconosciuto, s’immagina tuttavia che il dio difensore del villaggio ne faccia il circuito sul suo corsiero durante la notte, a scongiurare le insidie della tenebra.
Fabrizia Baldissera dell’Università di Milano2, illustrò l’aspetto che Durgā assume come elargitrice della regalità. Durgā è la dea della distruzione e della decapitazione. Finché gli inglesi non abrogarono la consuetudine, a Benares, sulle rive del Gange, nel tempio della dea, i devoti estatici si rotolavano per terra fino a troncarsi di netto la testa contro una sega, e le acque del fiume accoglievano l’offerta capace di propiziare il potere imperiale. Nel Nepal il fondatore d’una dinastia doveva trovare chi acconsentisse a farsi decollare, possibilmente una donna incinta, ed egli prometteva che la testa mozzata sarebbe stata, venerando cimelio, l’oracolo dinastico.
Georges Bataille aveva sostenuto che la repubblica francese si reggeva sul rito della decapitazione di Luigi XVI: gli archetipi si camuffano ma non scompaiono. Della decapitazione e della dea parlò anche Mario Piantelli, dell’Università di Torino, estendendo la rete delle analogie dall’India a tutta l’Eurasia, richiamando anche il simbolo del corvo nell’alchimia occidentale: decapitato, diventa d’argento. Agli stupiti ascoltatori indiani Piantelli sciorinò una gamma di esaltanti riscontri, che comprendevano l’equazione fra Kṛṣṇa che seduce le bovare col flauto e il pifferaio di Hamelin.
Il potere discende dalla dea delle acque sotterranee, Madre e Amante, fonte dell’eloquenza e del terrore. Ma come avviene il congiungimento d’un popolo con lei? R. Nagaswamy, uno storico di Madras, illustrò i riti che trasformano in Dea Madre una terra selvaggia, preda di spiriti immondi. Prima si definiscono i confini con acqua lustrale e canti vedici, poi si fissa il centro a partire dal quale il territorio si squadra e ripartisce, assegnando ogni sezione a una parte dell’anno, fondendo tempo e spazio. Infine si enuncia: «Possiedo te, Madre, e tu assumi la potenza virile» e si seppellisce una cassa al centro. In essa saranno deposti i simboli necessari: figurine di verri, cocchi e scettri se gli abitanti sono guerrieri; di cibi, pesci, aratri se sono lavoratori.
Su quel centro e grembo sorgerà il tabernacolo o il palazzo del sovrano, l’amante della dea; alla periferia si disporranno invece effigi tutelari in aspetto feroce. Queste sono fra le prime figurazioni dell’arte: J.S. Maxwell, dell’Università di Reading, ne mostrò alcuni stupendi esempi che costituiscono la più antica testimonianza di culto della dea – pre-islamica, pre-indù –, finora ignota, rimasta presente nelle isole Maldive. Il territorio è concepito come un loto e il sovrano al centro è Viṣṇu, il dio assiso sul loto-montagna cosmica che largisce le acque. La sua iconologia fu esposta da R. Parimoo dell’Università di Baroda: Viṣṇu è dio della pace e anche della lotta, armato di mazza e disco, sole e luna. Rappresenta la forza irresistibile del tempo e del potere regale: dell’ordine cosmico. Perciò nella poesia tamila, richiamata da R. Champakalakshmi dell’Università Nehru di Delhi, tempio e palazzo si designano con le stesse parole, l’omaggio al sovrano e l’adorazione del dio si confondono, i bardi lodano i re nelle stesse forme con cui esaltano le divinità del suolo. Come mai nel secolo VII i re tamili cominciarono a favorire, invece del culto di Viṣṇu, quello di Śiva, legato alle classi più basse? Forse perché i culti religioso e monarchico si erano venuti separando e per riunificarli occorreva un rovesciamento di prospettiva?
Ma se i re rivendicavano un culto divino, si imponeva dialetticamente l’esigenza che rinunciassero al potere per diventare pura divinità. M.N. Deshpande dell’Università di Nuova Delhi, illustrò il tema del re che al culmine del potere corona la sua carriera diventando asceta. Il motivo non è soltanto giaina e buddhista, ma intrinseco allo stesso induismo. Il poeta Jñāneśvara del secolo XIII esalta il sovrano ideale che si fa romito, per il quale già nella fase della regalità la spada simboleggia la concentrazione mistica, l’armatura l’impassibilità, il nemico l’ostacolo interiore alla liberazione, e il trionfo in battaglia la vittoria su ogni vincolo mondano. In realtà la cerimonia indù dell’incoronazione comportava che il re diventasse ritualmente il Creatore, l’Embrione universale, e simboleggiasse l’unificazione interiore dello yoga: i suoi paramenti designavano appunto questi fini supremi, come illustrò Grazia Marchianò3.
Il nesso fra gli opposti, la nudità ascetica e lo sfarzo regale è particolarmente avvertito dalla sensibilità indù: Winston Churchill non sapeva di aggiungere prestigio al mahātma Gandhi quando lo dileggiava chiamandolo «il fachiro nudo».
Dopo il convegno mia moglie e io si volle raggiungere Anand Krishna a Benares. Un lento velivolo a elica sorvolò le soavi verdissime campagne luccicanti al sole, il biancore del Tāj Mahal e i templi di Khajuraho.
Centro della nostra residenza a Benares fu un ristorante bramino di stretta osservanza. Il cortile era avvivato dalle tinte squillanti dell’affresco che copriva uno dei muri: una fila di prue nere sul Gange. Ci si attenne al cibo rigorosamente castigato che generava quella casta, offrendone la gamma di sapori sfumati e sontuosi. Si usciva esultanti per strade orrendamente ostruite da folle compatte entro le quali avanzavano di volo le vetture. Occorre una calma inespugnabile per inoltrarsi trasognati, sempre a un filo dalla torma, tra veicoli dardeggianti e schiene di mucche.
Si perveniva ai templi sulle sponde, alle librerie dove volumi inattesi si offrivano all’occhio avido. Accademie squisite si aprivano in vicolacci di sterco e mota, ingombri di bufali nerastri, dove comparivano asceti nudi dagli occhi arrossati. Qualche volta in una nicchia si palesava l’icona di un dio, da una finestra si scorgeva l’interno d’un tempio coi sacerdoti salmodianti attorno all’altare del fuoco. Nei viali dell’università indù si raggiungeva la facoltà di Āyurveda, il dipartimento di Alchimia, infine la facoltà di Filosofia. Annovera due insegnamenti separati, l’Advaita Vedānta e il Tantra. Nell’uno si discetta e argomenta, nell’altro il ragionare rinvia a una ginnastica e a un’erotica rituali. Distinti docenti impartiscono l’uno o l’altra disciplina: il tantrico ha uno sguardo intenso e tumultuoso, l’advaitino un sorriso faceto. Un giovane monaco thai coltissimo ci fu deputato a illustrare nei giorni successivi tutti i monumenti della sua religione sparsi nel contado; la plebe dei fuoricasta lo riveriva e così riviveva l’India dell’anno mille.
Nella miriade di pensieri che mi rampollarono in quei giorni tra le strade di Lucknow e Benares, germinò il tema al centro di queste paginette consacrate ai tre sentieri che si dispiegano al fedele indù.
1 Pantheons of Power, organizzato da T.S. Maxwell, si tenne presso la Lalit Kala Akademi, Lucknow (17-21 settembre 1984). Gli Atti furono in parte pubblicati in «Saras Research Bulletin», 4-5 novembre 1984 (N.d.C.).
2 All’Università degli Studi di Firenze dove insegna attualmente, la professoressa Baldissera ha fatto conferire nel maggio 2018 la laurea honoris causa all’illustre indologo francese Charles Malamoud (N.d.C.).
3 Nella relazione dal titolo The Power of Ornament in Ritual and Art, in «Saras Research Bulletin», 4-5 novembre 1984 (N.d.C.).