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IL COMBATTIMENTO MEDITATIVO
Fin dal VII secolo si ha testimonianza di yogin dediti alla lotta e alla vita militare in luoghi di allenamento e di ascesi chiamati tane, ākhara. La trafila si faceva incominciare da Śaṅkara. All’occorrenza la furia poteva trasformarli in Śiva Bhairava, il «tremendo». Su di loro la repressione inglese scese inesorabile.
I lottatori indù sopravvivono oggi in associazioni legate a riti speciali in onore di Hanumat, celebri quelle del Kerala. La tecnica originaria si è forse sfaldata, ma è possibile ricostruirla là dove si diffuse col buddhismo attraverso i secoli, prima in Cina, quindi in Giappone.
D’acchito una fonte delle arti marziali andrebbe cercata in Cina, l’adepto che a Taiwan me le illustrava si richiamava soltanto al taoismo. A Chenjaogou nello Henan, un villaggetto di duemila abitanti, quasi tutti praticano intensamente il pugilato taiji. Il nome taiji risale al Libro dei mutamenti (Yijing) ma la tecnica non è necessariamente cinese e la trasmissione da Chen Bu in poi, perdura da trecento anni. Consiste in un sistema di mosse sovrapposte alla lotta popolare wugong, inscritte nell’ideologia tipicamente cinese di mediazione ininterrotta fra movimenti aperti e chiusi, sciolti ed energici, lenti e rapidi, in linea retta e curva. Di sicuro non è soltanto cinese: l’origine la vedrei in India e il tramite della diffusione in estremo oriente sarebbero stati i missionari buddhisti, a partire, pare, da Bodhidharma nel VI secolo.
Il centro di diffusione di questo tipo di lotta fu il monastero di Shaolin, attivo tuttora, donde ebbe inizio la tradizione del gongfu e soprattutto il wushu, il cui fine, secondo Yu Gongbao, è addolcire ogni movimento con mente sciolta e vigile, respiro lieve e profondo.
Ne sorsero truppe di monaci dalla destrezza micidiale, che forti di questa loro tradizione condussero campagne militari. Regolando il ritmo del respiro imparavano a spezzare mattoni, una specialità di lotta mistica in cui si ravvisa l’origine del karate, una tecnica adottata dai nobili di Okinawa, assai ligi alla Cina, quando il sovrano locale vietò di servirsi di armi. Il primo circolo in Giappone risale al 1905. Vietato dagli Alleati, il karate rifiorì in maniera sorprendente dopo il 1955. Addestra a colpire col pugno, col palmo, col gomito. L’avambraccio cala fendenti che spezzano mattoni o blocchi di legno. Il vero combattente di karate – dice un maestro giapponese – s’interpenetra nell’avversario, assorbendolo come in transe: è simile a un cespo di alghe in fondo al mare che ogni fremito d’acque avvolge e flette. La risposta ai colpi avviene fulminea un attimo appena dopo, sicché occorre avvertire la minaccia prima che si scateni, sviluppando una sensitività trasognata.
Il pugilato cinese che armò i patrioti durante l’oppressione mongola e mancese, si vuole risalga al monaco buddhista Bodhidharma. Nel VI secolo veniva praticato come un esercizio di consapevolezza di primo mattino, centrando nella pancia l’impulso scatenante irradiandolo poi nel palmo delle mani, a imitazione del volo dell’oca selvatica. La postura del cavallerizzo, una volta fugati i pensieri vaganti è fondamentale: si espira lentamente e s’inspira di botto, identificandosi con l’energia degli animali-guida: il drago, la tigre, il leopardo, il serpente e la gru. Nella fase serpentina si diventa tutt’insieme un acciaio durissimo e una duttile corda, ma il culmine è l’imitazione del volo della gru: la forza risale dalla pianta dei piedi, le spalle cadono con dolcezza, il cuore si espande tranquillo, la mente dardeggia e l’eccellenza è raggiunta quando le mosse scattano fulminee al punto che l’avversario non se ne accorge. La pratica fu importata in Giappone insieme allo Zen – informa T. Suzuki.
Nell’VIII secolo in Giappone si allestivano durante i banchetti spettacoli di un’arte chiamata jūdō, impartita in seguito nelle società segrete.
L’abilità stava nello schivare i colpi d’offesa sfruttando l’intervallo pur minimo tra l’uno e l’altro, e il colpo di rimando, a ogni schivata, seguiva fulmineo.
Nel 1868, all’inizio dell’epoca Meiji, il jūdō parve estinguersi, eppure ancora nel 1882 risultava praticato in un tempio di Tōkyō e si diffuse da allora fino a entrare nel programma scolastico. Vietato dagli Alleati come il karate, il jūdō riprese dopo la loro partenza e gli odierni praticanti in Giappone sono circa un milione. La tecnica si regge su pochi princìpi: ci si avventa sull’avversario ghermendolo, si colpiscono i punti nevralgici; vince chi sa spostare il peso fra i due piedi.
In Giappone il repertorio delle arti marziali adottate dai samurai includeva, accanto al jūdō, la scherma (kendō), il tiro al bersaglio dove il tiratore si identifica nel bersaglio stesso (kyūdō), il lancio del pugnale, l’uso della corda, lo spionaggio dove ci si allena a eclissarsi e a scattare all’improvviso (ninjutsu), e lo sputo di aghi (fukumibari). Queste arti, di origine prima che buddhista indiana, hanno un fine unitario: sviluppare un «cuore di sasso» in quiete perfetta, in attesa imperterrita del colpo.
I maestri avvertono l’arrivo dell’avversario anche se sono nel sonno.
Il lottatore non tiene alla propria vita, ma a illuminare vita e morte a cospetto del pericolo. Nella scuola Muto lo spirito del jūdō si riassume nella parola «nulla» (mu) salmodiata nelle aule dei templi zen.
Eppure questa presentazione sarebbe monca senza la menzione di una forma purissima di arte marziale, già attestata nel secolo XIV e riemersa come nuova grazie al maestro Ueshiba Morihei (morto nel 1969), seguace della scuola shintō Omoto: l’aikidō. Ueshiba insegnava a educare l’immaginazione come si usava in India. Si immagina che la mano si allunghi a distanze irraggiungibili, che le braccia si estendano al cielo. Nell’aikidō non c’è scambio di colpi ma di schieramenti reciproci: il lottatore immobile sposta l’equilibrio di continuo fra i due piedi: l’avversario per lui è un essere turbato da attrarre compassionevolmente nell’orbita centrata sulla propria spina dorsale, in tal modo pacificandolo. Il praticante di aikidō, ruotando sulla schiena, reagirà puntualmente al colpo che lo minaccia, indirizzandolo con dolcezza in avanti, facendo cadere chi lo ha sferrato. Lo studio attento dell’impeto avversario in Cina fu il metodo della scuola intitolata alla Mantide Religiosa.
Credo che l’antichissima lotta indiana, che si propone, come lo yoga, di sciogliere i nodi del corpo e del cuore, con scatti subitanei di inspirazione e di soffice espirazione, si possa ricostruire dalle tracce lasciate in Cina, Corea e Giappone dai monaci buddhisti, e indagando in India, come ancora non s’è fatto, tra gli asceti itineranti (sadhu), dediti alla lotta.
Nell’India che permeò di sé l’intera Asia, è lecito coltivare una mezza speranza di questo genere. Il patrimonio intellettuale indù negli ultimi tre secoli si è solo sfiorato e le dottrine tantriche, i riti e le danze sono appena riemersi. Per oscurare ogni cosa hanno contribuito il regime del silenzio imperante su ogni insegnamento nonché le guerre di sterminio. La storia dell’India rimane per tanta parte una congettura e le sue date storiche sono supposizioni. Eppure, ramingando per foreste, scrutando angoli dimenticati di templi, battendo torridi, umidi, tenebrosi vicolacci, raccogliendo confidenze, può ancora capitare l’incontro con qualche barlume del passato remoto, che ci tramuta.