INTRODUZIONE
di Grazia Marchianò
«Le tre vie, conoscenza, devozione, tantra, possono recare all’identico fine. Dipenderà dal destino, dalla capacità di ciascuno, imboccare l’uno o l’altro dei percorsi». Così affermava Elémire Zolla nel memoriale indiano allestito nel 1995, grazie a un’ininterrotta riflessione sulla carica cognitiva e anagogica di un lascito filosofico e religioso intricatissimo e cristallino. Nella sua deliberata lontananza da un’esposizione accademica, Le tre vie punta un faro diretto sulle modalità del risveglio interiore, nel groviglio di una tradizione qual è l’indiana che ha scrutato la natura umana da dentro e dall’alto, protesa irresistibilmente a un «oltre» in cui il limite e l’illimitato, l’umano e il sovrumano si compenetrano nello sforzo titanico di spremere all’estremo le risorse della conoscenza razionale (jñāna), della devozione ardente e della fede (bhakti), e del trascinamento erotico su cui s’imperniano in toni ora allusivi ora espliciti i Tantra indù e buddhisti. I dialoghi filosofici upaniṣadici, i sermoni e i trattati della tentacolare letteratura buddhista, nonché i manuali āgama e tantra di istruzione segreta, illustrano nei secoli un progetto di sapienza plenaria che Zolla scrutò da pellegrino assetato lui stesso di attingere l’acqua di vita che non si estingue. La sua relazione con l’India è stata infatti un ininterrotto idillio e Le tre vie lo testimonia sia per il taglio degli argomenti rastremato all’essenziale, sia per quanto di inconfondibile della cifra intellettuale dello scrittore trapela nel sottotitolo adottato per questa nuova edizione: «Soluzioni sovrumane in terra indiana». In modo non dissimile da Giorgio Colli alle prese col fenomeno spirituale ellenico cui accennerò più avanti, Zolla ha scrutato il fenomeno spirituale indiano nelle tappe scandite da Le potenze dell’anima (1968, 2008) e Le Yoga Upaniṣad (1973)1 a Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia (1975), attraverso The Androgyne (1980), Archetypes (1981), Aure (1985), L’amante invisibile (1986), Verità segrete esposte in evidenza (1990), Uscite dal mondo (1992), Lo stupore infantile (1994). E, posteriormente a Le tre vie, nell’introduzione a Il dio dell’ebbrezza (1998) e ne La filosofia perenne (1999)2. Se da ognuno di questi scritti si estraessero le parti attinenti al pensiero indù e buddhista, ne risulterebbe un grandioso affresco dell’intimità di Zolla con la mente indiana. Un’intimità di timbro diverso da quello della fitta schiera di indianisti, sanscritisti, specialisti di pensiero tantrico e buddhologi, la cui eroica competenza filologica e glottologica di rado si è spinta però al punto di arpionare la materia trattata per cavarne il cuore pulsante, il «cuore» appunto di un’indianità che rimane indecifrabile a meno di praticare una lucida immedesimazione, come Zolla ha fatto ogni volta in cui si è cimentato con gli eccessi della mente indiana, nei luoghi delle opere sopra citate e in modo specifico in questa, cui fanno da cornice il convegno di studi sulla regalità al quale Zolla e io partecipammo a Lucknow nel 1984 e il seguito del viaggio a Benares3. Va subito detto che la materia trattata ne Le tre vie non è di agevole assimilazione, impone ginnastiche acrobatiche nei transiti urticanti tra analisi razionale e introspezione meditativa, impassibilità e passione, ascesi e godimento sensuale, sottomissione alla norma sociale e cosmica (dharma) e deliberata trasgressione, e, a proposito del «risveglio» tantrico, mette a nudo aspetti del trascinamento erotico che turbano in molti casi il comune sentire. Senonché è proprio grazie alla «lucida immedesimazione» con cui Zolla ha trattato la materia del libro – e mai come in questo caso l’ossimoro ci sta a pennello – che il lettore, al termine di un’indubbia fatica, avrà avuto almeno un sentore, un assaggio delle «soluzioni sovrumane» adottate in terra indiana nella personalissima, lampeggiante ricostruzione zolliana.
UN LESSICO NON FAMILIARE
Incontriamo ne Le tre vie com’è inevitabile, termini sanscriti quali yoga, samādhi, mokṣa, bhakti, tantra – per limitarsi ai più ricorrenti – di resa difficile nella nostra lingua per un motivo a monte dell’ordinario imbarazzo a fronte di un lessico non familiare. Sono termini e concetti che rinviano a immersioni nel profondo della mente, dei sensi, del cuore e dell’eros, profilando soglie, varchi, aperture proprio lì dentro, come se esplorando la casa che abitiamo da sempre, scoprissimo passaggi al di là delle note stanze e ci arrestiamo sconcertati. Quei termini e quei concetti non ci sono familiari perché «parlano» una lingua foggiata appositamente per riferire pensieri ed esperienze spirituali. Puntano al sovrumano, grondano luce nella tenebra, infliggono un abbaglio che non possiamo né vogliamo reggere, e travasarle nelle maglie del linguaggio assettato e divisivo ordinario, suona un’impudenza. Dicendo spirituali sono consapevole di ricorrere a una parola inquinata da millenni di abusi semantici, di equivoci irrimediabili a tutte le latitudini, forse però con danni minori in India dove l’indistinzione tra gli opposti regna sovrana e ci si accomoda nell’infimo e nel sublime con la naturalezza di chi nella corrente della vita comunque si sente a casa e con sollievo le sacrifica la propria miopia perché sa che qualcuno meno miope e più impudente oserà additare il sovrumano al posto suo, magari con dotte parole intervallate da abissali silenzi, come accadde ai maestri della via della conoscenza non-duale (a-dvaita), la prima scrutata da Zolla e, in confidenza, la prediletta, anche se l’attrazione per le altre due, la via del cuore e del Tantra, assillò la sua mente cerebrale serpeggiando tra le righe di tutti gli scritti di prima e di poi dell’incontro fatale con l’India di cui questo libro è un’avara e tuttavia pur sempre generosa testimonianza.
Qual è la condizione per attingere l’esperienza unitiva secondo l’advaita Vedānta? L’assorbimento della mente in se stessa quando – scrive Zolla – la calma attenzione si pone al centro della vita e la consapevolezza colma l’intero spazio della percezione. La parola samādhi lo esprime perfettamente. La persona in samādhi «entra negli eventi e ne esce a mano a mano che affiorano e dileguano perché essi le appaiono espressioni finite dell’essere infinito che è la sua stessa essenza, ciò che è e io sono diventano per lei sinonimi». È un’esperienza che definire «metafisica», come Zolla ha fatto in Archetipi, coglie il bersaglio a meno però di eliminare l’implicazione dualistica che il prefisso «meta» di ascendenza greca e cristiana porta con sé. Il samādhi accade dentro di me, pervadendo lucidamente mente, sensi, coscienza e la coscienza di essere coscienti ossia la consapevolezza. Ma se il samādhi, nella pluralità delle sue progressioni canoniche, conduce a un apice del processo di interiorizzazione, lo si deve alla soluzione tutta umana e tuttavia sovrumana escogitata dalla disciplina che istruisce ad agire sul principio vitale per eccellenza, il respiro (prāṇa). Il nome arcinoto di questa disciplina – che fa capo a un sistema diramato in tutte le vie soteriologiche indiane – è yoga, un termine che nel lessico tradizionale indiano ha la spiccata e desolante caratteristica di adunare gli opposti: unione e giogo. Infatti se dal primo all’ultimo fiato siamo aggiogati al respiro, quest’ultimo è proprio il mezzo indispensabile per dominare la condizione aggiogata. La vigilanza costante, le tecniche che addestrano ad accelerare, ritardare o sospendere l’inalazione e l’espirazione nell’iperminimo intervallo tra l’una e l’altra fase, compongono una sapiente pratica che in India da tempo immemorabile, come attesta il sigillo del meditante reperito negli scavi a Mohenjo Daro, interviene a regolare e potenziare le energie fisiche, psichiche, mentali e sovramentali, dunque spirituali nel senso del greco pneuma. Lo yogin è un individuo consapevole che il controllo imperterrito del respiro è la via maestra che procura a grado a grado l’integrazione armonica del dentro col fuori, agevolando l’accesso al piano assottigliato di esperienza in cui consiste il lavacro interiore nel senso del sanscrito mokṣa. La parola – scrive Zolla – origina da mokṣ- «desiderare di affrancarsi, disfare, far scorrere, scagliare». Andando a ritroso nell’etimo, s’incontra la radice indoeuropea meuk- «sdrucciolevole» che dà luogo a parole che indicano l’evadere, il sottrarsi, lo sciogliersi come di un grumo nell’acqua. In greco è catharsis (catarsi) e Platone nel Fedro la colloca all’apice delle quattro «manie» foriere dei beni più preziosi concessi ai mortali: la profezia, la celebrazione misterica, l’ispirazione poetica e lo slancio erotico, su cui s’impernia in India lo yoga tantrico nelle sue torbide e limpide varianti indù, śivaite e buddhiste profilate a sprazzi nella «terza» via. Accanto e prima di questa, nel secondo itinerario zolliano emerge bhakti (alla lettera «distribuzione», «porzione», anche «attaccamento», «appartenenza», infine «devozione» e «fede»). È la via plenaria del cuore, incondizionatamente trascinante e bacchica quanto lo è la via erotica, ma orientata, a differenza di questa, all’empatia soccorrevole verso il compagno di strada, alla «carità libera e devota del fratello». Nelle correnti kṛṣṇaite è colmo di bhakti l’empito rivolto dalle Gopi innamorate al dio fanciullo Kṛṣṇa; lo è l’invasamento poetico degli āl-vār dravidici nel Tamilnadu, dei bardi bengalesi che inneggiano alla naturalezza innata (sahaja), ma lo è ugualmente karuṇā, l’afflato scarnito di desiderio della compassione buddhista.
Nella sintesi di una descrizione inadeguata, il pendolo nelle tre vie oscilla tra l’iperlucida impassibilità della mente svuotata di ogni cogitazione nel samādhi upaniṣadico, il tracimare dell’empito emotivo nelle epidemie bhaktiche che crivellano le masse popolari facendo di ogni cerimonia religiosa, di ogni tenzone poetica e musicale un baccanale estatico e, nella «terza» via, l’incendio al calor bianco dell’ardore estremo (tapas) che nei congiungimenti erotici rituali è volto a far sì che il «desiderio» sensuale (kāma), una volta privato del suo fascino coercitivo, si tramuti in ascesi. Come nei fasti dionisiaci della Grecia arcaica, Eros accascia i suoi posseduti nell’agonia dell’eccesso e nel tormento della privazione.
Tutto, dentro di noi, giorno dopo giorno nella vita ordinaria, cospira a «non» compiere i passi adombrati in controluce nei tre sentieri. Quali che siano le prerogative e le risorse impiegate, escludiamo categoricamente di attingere la condizione di chi «ha occhi ed è come se non avesse occhi, ha orecchie ed è come se non avesse orecchie, ha una mente ed è come se non avesse una mente, ha la vita ed è come se non avesse vita». Così il filosofo Abhinavagupta tratteggia la via della vertigine mistica in opere come il Tantrāloka (X-XI secolo) nell’unica traduzione italiana esistente al mondo4, il vento del sovrumano investe come una meteora i cinque fattori cruciali della condizione umana: nascita, morte, sacrificio, eros e potere, mostrando che è śakta, il potere invincibile raffigurato nelle sembianze del «tremendo» Śiva, l’asceta erotico5, a divorare gli altri nel sacrificio ininterrotto della vita-nella-morte e della morte-nella-vita. Ma lo Śiva indiano in Eurasia non è solo.
Nel cuore arcaico del mondo mediterraneo, a Creta, affiora Qualcuno dai molti nomi: Zagreo, Sabazio, Eros Protogonos, Katharsios, Trigono, Graspo, i cui poteri trascinanti assomigliano a quelli dello Śiva tantrico. Dioniso Bromio esprime l’energia che anima il mondo vegetale, il fluido primigenio che ingravida la terra. Dal culto dionisiaco si sarebbe innescato, secondo Giorgio Colli, il fenomeno spirituale ellenico. Lo comprese a sua volta Alain Daniélou6 e a Dioniso errante7 Zolla dedicò pagine memorabili.
Ai primordi della civiltà greca – si legge – Dioniso è già presente e significa, come disse Colli, lo schianto con la verità e la vita […] Fu l’orgiasmo dove si fondevano danza, gioco, allucinazioni, uscite fuor di se stessi, ma fu anche, annotava Filone, uno strumento di conoscenza: i suoi devoti giungono nell’estasi a vedere l’oggetto bramato. Nell’epoca vedica in India, il Dioniso cretese fu chiamato Soma, la bevanda inebriante più riverita dai sacerdoti, che lo riconoscevano loro unico dio. Più tardi nella storia indiana a questo personaggio […] si diede il nome di Śiva, il dio dell’ebbrezza8.
HO RICERCATO FIN NEL PROFONDO ME STESSO
Nella sua tesi di laurea, il grande grecista Giorgio Colli (1917-1979) – come ricorda il figlio Enrico9 – scrutò il fenomeno spirituale ellenico intercettando nel VI secolo a.C. l’intervento di un fattore decisivo: l’epidemia dionisiaca. Analizzata a fondo da Nietzsche e da Rohde nell’aspetto prevalentemente artistico e religioso, sfuggì loro tuttavia, secondo Colli, l’influsso sostanziale che la carica mistica del dionisismo ebbe sull’intera evoluzione spirituale greca e soprattutto sulla filosofia. Il dionisiaco «è una forza centripeta che spinge l’uomo a entrare vieppiù in se stesso». E, tra i filosofi «sovrumani» della prima stagione speculativa greca, è in Eraclito, «forse la più completa personalità dionisiaca della Grecia», che si coglie «il punto di contatto coi mistici di altri tempi e di altri paesi»10. Remando attraverso i frammenti dei Presocratici: Anassimandro, Eraclito, Parmenide, Empedocle, Colli si persuade che la fonte da cui l’enigma e il logos germinano congiunti è il noos (il termine eracliteo per «mente»), e che l’impulso a ricercare fin nel profondo me stesso conduce Eraclito a comprendere che «una sola è la sapienza: conoscere la ragione, in quanto governa tutte le cose attraverso tutte le cose»11. Lo sguardo di Eraclito, come quello dello yogin, è lo sguardo di chi è immerso nel suo «dentro» come la tartaruga – scrive Zolla in Archetipi – quando infossa il capino, ritrae zampe e coda nel carapace e si risucchia nell’atomo di vita che la sorregge12. Nell’advaita Vedānta la coincidenza tra «interno» ed «esterno» si affida al memento: Tat tvam Asi («Quello sei Tu») e Quello è il «ciò» che tutto racchiude. Tradotto in concetti upaniṣadici ātman, il «ciò» interiore, coincide col Brahman, il «ciò» cosmico. E la «saggezza» (gr. sōphrosyne, scr. prajñā) è fatta non di solo raziocinio, ma di intuizione intellettuale (buddhi), di volontà e passione. Per questo in India si dice che la verità «sta» nel cuore, «è» il cuore stesso e in Grecia la coltivazione della phronesis, secondo Colli, è il modo dionisiaco del filosofo di «liberarsi» come lo jīvanmukta descritto da Vidyāraṇya, il monaco trecentesco a capo del centro monastico śaṅkariano di Sṛṅgeri13.
In fondo le «tre» vie sono una sola e quando nell’ultimo capitolo del libro, la scena si sposta nel contesto delle arti marziali in Cina – espressione insuperata del combattimento meditativo – ci parrà di aver avuto almeno un sentore, un assaggio dell’incontenibile propensione dionisiaca della sapienza indiana a fare dell’eccesso ritualmente disciplinato la norma, della tensione al sovrumano il pontiere nell’estrema regione interiore in cui gli antipodi s’incontrano.
Le tre vie, la cui edizione originale segue di tre anni Uscite dal mondo14, uno dei libri di Zolla più amati, offre la risposta definitiva al dubbio suscitato dal titolo di quell’opera memorabile: se la via al risveglio, per come è stata teorizzata e praticata in India e nel resto d’Eurasia15, sia un’evasione vigliacca dall’avventura mondana, come per lo più si ritiene, o non piuttosto l’accorgimento (scr. upāya) per intercettare ogni tanto, passo dopo passo, il bagliore dell’«oltre» nell’«aiuola che ci fa tanto feroci» (Dante, Paradiso XXII, v. 151).
1 Le Yoga Upaniṣad. Presentazione. I termini e il loro senso sono ripubblicate in E. Zolla, Conoscenza religiosa. Scritti 1969-1983, a cura di G. Marchianò, sezione «India e Bali», Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006, pp. 471-582.
2 Le date sono quelle delle edizioni originali. L’amante invisibile. L’erotica sciamanica nelle religioni, nella letteratura e nella legittimazione politica (1986) è ripubblicato in terza edizione da Marsilio nel 2003. Archetypes [Archetipi] e The Androgyne [L’Androgino. L’umana nostalgia dell’interezza] uscirono in versione italiana rispettivamente presso Marsilio, Venezia, 1988 e Red, Como, 1989. Nell’edizione Marsilio dell’Opera omnia, a cura di G. Marchianò, sono accolti e in alcuni casi accorpati i seguenti titoli: Uscite dal mondo (2012); Filosofia perenne e mente naturale (2013); Lo stupore infantile (2014); Il serpente di bronzo. Scritti antesignani di critica sociale (2015); Archetipi. Aure. Verità segrete. Dioniso errante. Tutto ciò che conosciamo ignorandolo (2016); Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia (2017).
3 Vedi nel testo nota 1 del capitolo 1.
4 L’eroica dedizione dell’insigne indianista Raniero Gnoli, degno allievo del grande orientalista italiano Giuseppe Tucci (1894-1984), alla comprensione profonda di una delle opere più esoteriche del maestro tantrico kaśmiro Abhinavagupta ha sortito l’introduzione e la traduzione in italiano, senza precedenti altrove, del volume di quasi ottocento pagine Luce dei tantra. Tantrāloka, Milano, Adelphi, 1999. Lo precedono, nella collana «Enciclopedia degli autori classici» diretta da Giorgio Colli per le edizioni Boringhieri, Essenza dei tantra (1960), Testi dello Śivaismo (1962), La Trentina della Suprema (1978) e Il commento di Abhinavagupta alla Parātrimṣikā (1985), e l’introduzione a Vijñānabhairava. La conoscenza del tremendo, uno dei testi più espliciti sull’excessus mentis secondo la scuola śivaita del Trika, traduzione e commento di A. Sironi, Milano, Adelphi, 1989. Tra i testi buddhisti introdotti da Gnoli: Nāgārjuna, Lo sterminio degli errori, a cura di A. Sironi, Milano, BUR, 1992. A due altri insigni indianisti italiani G. Boccali e R. Torella si deve l’allestimento e la cura di Passioni d’Oriente. Eros ed emozioni in India e Tibet, Torino, Einaudi, 2007 con testi di C. Pieruccini, R. Torella, M. Sacha, G. Boccali, D. Smith, G. Orofino, C. Pensa. Segnalo altresì i contributi di N. Licciardello, Dante tantrico e vedico e di A. Grossato, Dante e l’India, in Sguardi su Dante da Oriente, a cura di C. Saccone, «Quaderni di Studi Indo-Mediterranei», IX, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2017, pp. 271-298 e 299-326 rispettivamente.
5 Vedi in proposito W. Doniger, Śiva. L’asceta erotico, tr. it., Milano, Adelphi, 1997.
6 Vedi in proposito, A. Daniélou, Śiva e Dioniso. La religione della natura e dell’eros. Dalla preistoria all’avvenire, tr. it., Roma, Ubaldini, 1980.
7 Il testo è contenuto nel volume dell’Opera omnia, Zolla, Archetipi. Aure. Verità segrete. Dioniso errante, cit., pp. 509-606.
8 Ibid., p. 513.
9 G. Colli, Filosofi sovrumani, a cura di E. Colli, Milano, Adelphi, 2009. Nella stessa linea ermeneutica, Apollineo e dionisiaco, Milano, Adelphi, 2010. Ai tre volumi dell’opera La sapienza greca, Milano, Adelphi, 1980, si accompagnano altri scritti colliani fondamentali presso lo stesso editore.
10 Colli, Filosofi sovrumani, cit., p. 36.
11 Diogene Laerzio, 9, 1, in La sapienza greca, III, Eraclito 14 [A 73], p. 77.
12 Zolla, Archetipi. Aure. Verità segrete. Dioniso errante, cit., p. 36.
13 Vedi Vidyāraṇya, La liberazione in vita. Jīvanmuktiviveka, a cura di R. Donatoni, Milano, Adelphi, 1995.
14 Zolla, Uscite dal mondo (1992), cit. è ripubblicato nell’Omnia 2012, come indicato in nota 2.
15 Sulla nascosta unità delle vie di conoscenza asiatiche, rinvio a G. Marchianò, Il risveglio delle potenze spirituali nell’esperienza mistica e visionaria in Eurasia, in Transmutatio. La via ermetica alla felicità, a cura di D. Boccassini e C. Testa, «Quaderni di Studi Indo-Mediterranei», V, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012, pp. 82-94; Spiritualità: l’esperienza del brullo, in «Rivista di psicologia analitica», a cura di R. Madera e S. Carta, vol. 90, Milano, 2014, pp. 167-178; Considerazioni sul sacro nella prospettiva di una mente unificata, in «Schede Medievali», 53, Palermo, Officina di Studi Medievali, 2015, pp. 259-266.