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MEDICINA E ALCHIMIA
Surendranath Dasgupta tratta dell’Āyurveda, la medicina tradizionale nella storia della filosofia indiana, come esplicitazione di dottrine non solo yogiche. Caraka considerò l’Āyurveda il Veda primario, altri lo denominò quinto Veda; si comincia a parlarne nel Mahābhārata, dove sono elencate le tre sostanze vitali del corpo: vento, bile e muco1.
L’Āyurveda fu allineato al quarto Veda, Atharva, che provvide di riti, amuleti e preghiere la cura della salute, ma per formularlo ci si restrinse alla conoscenza sperimentale, praticando fin dal 1000 a.C. la dissezione dei cadaveri. Eppure esso presuppone quella purezza dei costumi in India che Herder riconobbe apertamente: l’astensione dal vino e dalle carni, il clima benigno e l’assenza di eccessi produssero un popolo duttile, controllato nelle passioni, «in contatto con lo spirito sottile degli elementi»2.
La teoria del corpo sottile è presente dai primordi (anche se molte scuole lo negheranno): al principio di sottigliezza tutte le funzioni del corpo e della psiche si conformano come una fiammella impregna dei suoi raggi una stanza. Infatti è sottile il soffio energetico che trasmette al corpo le vibrazioni della mente.
Le cure sono un tesoro prezioso: fra le più antiche c’è la terapia cui G.I. Gurdjieff sottopose Katherine Mansfield: stare fra le mucche per un anno bevendone il latte e nient’altro. L’Indù prega sussurrando i versi del mantra gāyatrī: Tat savitúr váreṇyam, bhárgo devásya, dhīmahi dhíyo yó naḥ pracodáyāt OṂ: «Invochiamo la gloria del Sole, splendore divino, per venire illuminati».
Harish Johari sottolinea l’aspetto intimo, domestico e quotidiano del massaggio āyurvedico che in India si pratica amorevolmente fra madre e figlio, in un nesso simbiotico che si prolunga ben oltre l’istante della nascita. La frizione materna vibra lieve e costante sul corpo del bambino, che apprende a sua volta a massaggiare con naturalezza, e presto le sue prensili manine stropicceranno i piedi e le caviglie ai nonni. Ogni sposa è istruita dalla madre nell’arte di soffregare il marito con vari tipi di oli, specie quello di senape, vezzeggiando il ventre, la regione cardiaca, il volto, premendo sui piedi, il collo e il cranio con energia risoluta, picchiettando coi pollici le vertebre della schiena, dal coccige alla nuca, su ambo i lati, carezzevolmente come srotolando le spire di un serpente.
Si picchiettano di continuo, soffregandosi e massaggiandosi i lottatori devoti di Hanumat, il figlio del Vento divino e di una scimmia, talvolta in aspetto di una dea tantrica. Fu Hanumat a massaggiare le caviglie e i piedi dell’eroe Rāma stremato. I lottatori volteggiano, s’appigliano a lui come scimmie. Ramakrishna s’immedesimò in Rāma.
In India tutti traggono beneficio dal massaggio che raddolcisce e dispone alla transe, memori dell’adagio: «Come i serpenti non si accostano alle aquile, così la malattia non ghermisce chi beneficia del massaggio ai piedi prima del sonno». Il frizionamento sospinge la linfa nel sangue, nutrendo e avvivando la pelle resa pura dal calore uniforme del massaggio. Infine la purificazione del cuore si ottiene grazie alla fusione magnetica tra i corpi del massaggiatore e del massaggiato.
Costantemente ricompare in India l’immagine di Viṣṇu assopito sul serpente, cui Lakṣmī massaggia piedi e caviglie. Sempre si ricanta l’episodio dell’esercito sfinito di Bharata: quando i soldati dopo un bagno nel fiume vengono massaggiati da una schiera di fanciulle e subito, ringagliarditi, riprendono lena.
Chi mai sarebbe tormentato dall’insonnia, potendosi giovare di uno strofinamento alla schiena e alla testa seguito da un bagno prima caldo e poi freddo?
Un capitolo introduttivo essenziale all’Āyurveda è dunque il massaggio, che va però evitato da chi soffra d’indigestione o costipazione, abbia febbre o sia sul punto di vomitare. L’Āyurveda dovrà prima ristabilire l’equilibrio rispetto a questi inconvenienti; prescriverà il digiuno e i farmaci opportuni, soppesando gli elementi coinvolti, ossia:
- terra (pṛthivī), che si manifesta nell’odorato, procura peso, solidità, ruvidezza, astringenza;
- acqua (jala), che si rivela al gusto e suscita densità, mollezza, fluidità, freddezza, acidità;
- fuoco (agni), che scaturisce dagli occhi e genera leggerezza, attività, calore, secchezza, sapore piccante;
- aria (vāyu), che pervade l’orecchio, è penetrante, espansiva, amarognola, astringente;
- etere o spazio puro (ākāśa), penetrante, lieve, tenue, insapore, istantaneo come un veleno.
A questi il Bhagavadabhisamayanāma (del canone Kangiur) aggiunge come sesto elemento, la sostanza fisica della mente.
Se nell’uomo prevale la combinazione di terra e acqua (kapha), avrà le caratteristiche del contadino: operoso, produttivo, melmoso; sintomi di tipo kapha sono: pallore, infreddatura, edema, costipazione, diabete, languore, tumori.
Se prevale invece la combinazione di fuoco e terra, il soggetto in questione sarà puro (sattva) simile a un brahmano, caldo, viscido e amaro.
Se infine prevarrà in lui l’associazione aria-etere, avrà un temperamento bellicoso da guerriero (rajas) e tutti gli elementi saranno in lui sospinti e guidati dall’energia.
Va osservato il gioco corporeo dei cinque elementi. In primo luogo l’aria cui è dedicato il libro XI, 4 dell’Atharvaveda. Spinge verso il basso, induce a sputare, starnutire, eruttare, ingoiare l’aria primaria, prāṇa, «che soffia innanzi», e risiede in bocca.
Dimora nell’ombelico e sale in gola a far vibrare le corde vocali, rafforza la memoria e l’intelligenza udāna, «che soffia verso l’alto».
È insediato nell’ombelico e fa digerire samāna, «che congiunge».
È insediato nell’intestino crasso, espelle feci, urine e sperma, trattiene o scaccia fuori apāna, «che soffia in basso».
Nel cuore fa sudare, apre le palpebre e fa sbadigliare vyāna, «che soffia separando», e si muove tutt’attorno nel corpo, diffondendo i succhi.
Il Carakasaṃhitā informa che l’aria alterata provoca reumi, dislocazioni, tremiti, crampi, rigidità, irregolarità peristaltiche, depressioni, tensioni o rilassamenti, espansioni o contrazioni, malattie addominali, disordini mestruali, sterilità, allucinazioni e convulsioni.
La combinazione fuoco-terra è un liquido caldo concentrato nel duodeno e separa le parti del cibo, appare rosso e acre nel fegato e nella milza, mentre nel cuore coopera a ravvivare la memoria e l’intelligenza; splende nelle pupille, si effonde nella pelle rendendola luminosa. Si denomina pitta, che significa bile, ma comprende tutta la gamma di combinazioni fuoco-terra: ne dipendono l’assimilazione del cibo, la capacità di percezione o il suo onnubilarsi, la temperatura, la tensione nervosa, l’ira o la gioia, la confusione o la lucidità; genera infiammazioni, febbri, irritazioni, pus, un metabolismo irregolare.
Terra-acqua è invece la schiuma che inumidisce i cibi nello stomaco, regge il torace, umetta la lingua, lega viscosamente le giunture.
Tutto va equilibrato con medicine vegetali, minerali, metalliche o vegetominerali. Un composto vegetominerale di centella asiatica, phyllanthus emblica, withania somnifera, tinosphora cardifolia, chiamato Geriforte (prodotto dalla Himālaya Drug a Bombay), ha dimostrato la sua efficacia sul sistema enzimatico antiossidante del cervello3. Si può anche rammentare l’introduzione della rauwolfia nelle nostre terapie.
Spesso ci si avvale di massaggi con oli sulla cima del capo. Mi capitò nella campagna dello Śri Lanka di avvertire una lieve vertigine e mi recai da un medico āyurvedico. Mi osservò e si precipitò a misurarmi la pressione, che apparve straordinariamente alta. Mi porse alcune boccette di un olio sedativo nerastro, Maha Vata Gaja Vardini, da soffregare sulla pelle del cranio, e in quattro giorni la pressione si normalizzò. Non mi riuscì però d’incuriosire nessun medico al punto da far analizzare quell’olio, quando ne riportai qualche barattolo in Italia.
La medicina più efficace, che congiunge l’Āyurveda e lo yoga tantrico, è, s’è visto, l’alchemica. In ogni facoltà di Āyurveda di un’università indù sono presenti un dipartimento e un laboratorio di rasaśāstra, ossia di alchimia o scienza del sapore. Sapore (rasa) è una parola poliedrica. Denota il chilo nel cibo, lo sperma nel corpo, la resina nella pianta, il temperamento tra gli umori, il mercurio fra i metalli. A temperatura ambiente è allo stato liquido, ma ogni metallo diventa tale a una certa temperatura, sicché si può dire che in ogni metallo la mercurialità, seppure non evidente è sempre latente. Il mercurio è anche denominato pārada, perché conduce, fa transitare (pṛ-) all’altra riva dell’esistenza, alla liberazione. Il mercurio è l’essenza di ogni metallo ed è lo sperma di Śiva, sostanza penetrante e incisiva per eccellenza.
Il mondo intero è sostanziato di questo mercurio virile, che intride la parte femminile rappresentata dalla mica (abhra): ne sono composti non soltanto i silicati che si sfaldano e rilucono, ma anche il talco, l’oro, la canfora, la nube e l’atmosfera (latino imber); corrispettivo della femminilità è tuttavia anche lo zolfo, sangue mestruale di Pārvatī, sposa di Śiva. Lo sperma minerale o mercurio si introduce nel minerale vaginale producendo la vibrazione che suscita il concepimento: l’accoppiamento di Śiva con la sua potenza. Ma penetrare nel profondo il senso di rasa è un’opera senza fine. Il vocabolo deriva da ras-: «gustare, percepire, amare». Denota il succo delle piante e dei frutti, ma anche la parte scelta di un corpo: midollo, elisir, brodo, siero o sciroppo. Designa il sapore e il piacere dell’amore, indica anche la bellezza che attrae e il processo di percezione della bellezza. Dice Abhinavagupta che rasa è la realtà per cui i sentimenti determinanti, conseguenti e transitori, una volta unificati nella mente del gustatore in una confluenza di posizione rispettivamente dominante o subordinata, vengono degustati in uno stato di consapevolezza plenaria. Un rasa siffatto differisce dall’assaporamento ordinario, è una degustazione al livello più alto.
Torniamo all’accoppiamento di Śiva e Pārvatī: la vibrazione primaria che ne emana è simboleggiata dal tamburello (ḍamaru) che Śiva stringe in mano o che pende dal suo tridente. Pārvatī, a sua volta, simboleggia il ruscello o la caverna, la femminilità ristoratrice e nutritiva della montagna.
Non a caso in India il fallo di Śiva è presente dappertutto nella conca o chiostra di Pārvatī. Talvolta il dio è raffigurato nell’aspetto androgino di Ardhanārī Śiva, metà uomo e metà donna: mercurio misto a zolfo. La scienza āyurvedica addita al congiungimento del virile e del femminile. Dice un medico tamilo: «Noi puntiamo a rettificare senza tregua le proporzioni di virilità e di femminilità, come voi fate occasionalmente quando prescrivete morfina o atropina, androgeni o estrogeni».
Narra Marco Polo nel Milione che fra i «bregomanni» (brahmani) ci sono uomini che vivono fino a duecento anni in grande astinenza, chiamati «congiugati» ovvero yogin: «E’ mangiano sempre buone vivande, cioè, lo più, riso e latte; e […] pigliano ogne mese uno cotale beveraggio: che tòlgono ariento vivo e solfo, e mìschiallo insieme coll’acqua e beollo» (Della provincia di Lar, ovvero il Gujārāt). Bevono cioè l’essenza dell’universo. Ma mercurio e zolfo sono veleni! È chiaro dunque che si svelenivano, com’è d’uso ancora oggi in un laboratorio āyurvedico. I metalli tossici vengono uccisi, ossia si seppelliscono in recipienti di terraglia e si fanno cuocere per mesi sottoterra, prima di essere estratti calcinati (bhasita), ridotti a bhasman, che in vedico significa anzitutto ciò che mastica, divora, polverizza e in sanscrito ciò che è polverizzato o calcinato dal fuoco, le ceneri. Bhasmasūtakaraṇa è la calcinazione del mercurio (bhasmāgni è la malattia che fa digerire in eccesso, calcinando il cibo).
Per lo svelenimento del mercurio vige la pratica di introdurlo in un crogiolo di ferro con latice liquido di euphorbia tirucalli e calotropis gigantia, e semi di butea frondosa. Poi lo si strofina con succhi di aloe indica tre o quattro volte e lo si immerge per due o tre volte in un caldo preparato di semi di cavolo. Infine lo si tritura dopo averlo mescolato a polvere di curcuma, pelo di pecora ed estratti di varie piante fra le quali l’emblica. È un preparato fondamentale dal quale si ricava una serie di medicamenti.
In una fra le tante ricette per svelenire il mercurio si prescrive di sfregarlo su una pelle ovina con curcuma, polvere di mattone, fuliggine e succo di cedro. Quindi, avvolto in certe radici, salgemma e urina di capro dentro a una pelle, lo si fa bollire finché non evapora e in una storta lo si rassoda. Una volta solido questo mercurio è in grado di penetrare rame, mica, oro e zolfo, metalli o minerali di segno femminile.
S’usa inoltre strofinare il mercurio con carbonato di calcio per settantadue ore e poi unirlo all’aglio che lo annerisce; quindi lo si lava col succo caldo dei semi di cavolfiore. Se ne ottiene una polvere che si tritura con zolfo purificato. C’è chi sostiene, osservando le reazioni dei topi, che questi medicinali sono pur sempre velenosi4. Ammetto: la terapia comporterà un pur minimo avvelenamento.
D’altronde, se è vero che il mercurio intossica in certe proporzioni, si è scoperto di recente che in dosi minime attiva il sistema immunitario, per la parte che concerne il tipo di linfociti modificati dal timo5.
Osserviamo come si lavora il ferro: ridotto in strisce sottilissime lo si brucia fino all’arrossamento versandolo in un miscuglio vegetale con amala o emblica medicinalis. A questo punto il ferro è polverizzato e lo si conserva con amala e miele in un recipiente di terracotta, sigillato sottoterra per un anno. Così ossidato, il ferro diventa inoffensivo, ben diverso da quello che si usa somministrare da noi.
L’oro si soffrega con estratti vegetali di emblica o di myrobalans per qualche mese, fino a che il composto diventa un colloide rosso mattone, che si potrà ingerire. In genere questo trattamento, chiamato śodhana, ovvero purificazione, si applica a tutti i metalli. Il solfito nero di mercurio si lascia riposare con dell’oro per settanta ore e, una volta che lo zolfo risulterà combusto, si raccoglierà ossido rosso di mercurio. Secondo il Rasārṇava, l’assunzione dell’ossido di mercurio associata a esercizi di respirazione ritmica yoga, può fare di un uomo un liberato in vita. Che tipo di individuo sia costui lo descrive il trattato Haṭhayogapradīpikā nella sua parte conclusiva:
Libero da condizionamenti e da ogni pensiero, simile a un morto ma padrone della morte, del destino, dei nemici. I suoi sensi sono estinti, non conosce né se stesso né altri. È libero già in vita, essendo la sua mente né sveglia né assopita, libera dal ricordo e dall’oblio. Non vive e tuttavia non è morto. È immune da caldo e freddo, dolore e gioia, onore e ingiuria. Sembra dormire eppure è desto. Sono cessate in lui inspirazione ed espirazione. E armi non lo offendono, nessun potere umano lo sopravanza. Sta al di là di maledizioni e incantesimi. Ma fino a quando il suo prāṇa non penetra nel meato centrale della spina dorsale per risalire fino alla corona del cranio, fino a quando l’assoluto non gli si manifesti nell’estasi, ed egli non abbia raggiunto l’unificazione, chi parla di dissolvimento nell’essere è soltanto un chiacchierone e un prevaricatore.
L’Āyurveda tende a questa suprema condizione, fine ultimo che lo informa e pervade in ogni suo aspetto.
Nei laboratori āyurvedici l’attenzione indugia sugli operai dai movimenti lievissimi, gli sguardi brucianti puntati sulle iridescenze delle materie che occhieggiano dalle coppe infrante via via. Sono uomini intrisi dello spirito di Śiva: hashish o carasa o bhang o ganja; gliene vengono grazia e intelligenza. Sono come pervasi da un oceano senza opposizioni, ritornano alle origini oltre a dispiegare un’efficienza impeccabile nella lavorazione di oro, argento, stagno, rame, ferro, mercurio e piombo, nonché di mica, arsenico e zolfo fusi a succhi vegetali.
L’uso dello hashish giova alla meditazione, all’esecuzione dei riti śivaiti e di quelli in onore di Hanumat. Durante la festa di holī tutta la famiglia lo assume per alleviare la fatica e reggere malattie. La conoscenza dei suoi pericoli è antica ed esauriente, ma ci si rimedia trattando la pianta con latte purificato, spalmandola di pasta medica, aspergendo di canfora e acqua fredda chi ne sia rimasto offeso. Il suolo dove lo hashish si coltiva va curato con attenzione rituale.
Un’altra pianta ma priva di effetti tossici e controindicazioni è la terminalia chebula, dai poteri equilibranti e rafforzanti. C’è poi una terapia che prevede l’uso di vegetali sottoposti a trattamenti particolari: va fatta in regime di castità in luoghi domestici senza spifferi o correnti d’aria, cibandosi di riso e latte.
Bhagwan Dush al termine della sua esposizione dell’Āyurveda scrive che la pratica meditativa del distacco dalle proprie azioni e dall’idea di responsabilità acquista efficacia dopo il compimento di quattro fasi. Nella prima la mente è ancora avvinta ai sensi e alla volontà di potenza, nella seconda dominano l’ozio e la trivialità, nella terza subentrano l’energia e la virtù sicché ormai senza indugi si osservano gli oggetti sensibili, infine nell’ultima fase si trattiene giusto l’energia necessaria, si è puri e in grado di scrutare con attenzione un oggetto; a questo punto i testi dello yoga e del Tantra sopravvengono a promuovere infine la liberazione.
1 Per le indagini zolliane sull’alchimia si rinvia al magnum opus dello scrittore, Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, cit. (N.d.C.).
2 J.G. Herder, Sämmtliche Werke, 32 voll., Berlin, Weidmann, 1877-1913, vol. XIII, p. 221, vol. XIV, p. 29.
3 «Annals of the New York Academy of Sciences», 717, 1994, pp. 170-173.
4 Si veda B.B. Misra e B.K. Mohanty, Hazards of Mercury in Ayurvedic Drugs, Berhampur, Berhampur University Press, 1993.
5 Si veda G. Moeller, Mercury as an Activator of the Immune System, in European Union Biomedical and Health Research, a cura di A.E. Dart, Amsterdam, Elsevier, 1995.